“Nello spazio nessuno può sentirti urlare” era la tag-line di Alien, capolavoro diretto nel 1979 da Ridley Scott. Una delle frasi promozionali più azzeccate di sempre. L’ho pensata spesso, guardando questa atroce ed esasperante soap opera fantascientifica che è Dune: Prophecy. Avrei voluto urlare anch’io, in certi momenti – a volte per rabbia, a volte solo per tenermi sveglio. O avrei voluto essere nello spazio.
Ovunque, ma non davanti allo schermo e a questo incredibile passo falso di HBO. Un involontario monumento al parassitismo e al nepotismo. Una testimonianza vivente di come la cosa più bella che i figli potrebbero fare per onorare l’eredità dei loro genitori di talento sarebbe scegliere di fare un altro mestiere. Un monito contro l’avidità commerciale e la sua infinita capacità di rovinare tutto quello che c’è di bello e di buono – in questo mondo, o in una galassia lontana lontana.
Avete forse capito, da questo incipit, che non ho particolarmente apprezzato le sei puntate della serie con Emily Watson, distribuita in Italia su Sky e NOW a fine 2024 sull’onda di un intenso battage mondiale. Uno show tecnicamente e produttivamente pure ben fatto. Ma pigrissimo. Pasticciatissimo nella scrittura. Mal recitato. Pieno di cose stupide e brutte – occasionalmente intervallate da momenti di fascinazione.
Soprattutto, questo Dune: Prophecy è un drammone molto ma molto parlato. Che trasforma l’epica di Frank Herbert – planetaria, cosmogonica, etnografica, mitopoietica – in un ridicolo e confuso teatrino di fantasmi, sussurri e medium. Non sorprende, come facevo intuire tra le righe, che tutto questo derivi dai romanzi non già del vero Herbert ma del figlio Brian. Erede e sfruttatore di un universo letterario e narrativo che – delle due una – o non comprende fino in fondo o non si preoccupa di rispettare.
Ma andiamo con ordine, almeno noi.
Ispirazione, sostituzioni, ritardi
Pensata da Legendary Entertainment come parte di un reboot ambizioso dell’universo di Dune, Prophecy si proponeva di espandere la narrazione cinematografica di Denis Villeneuve attraverso un progetto televisivo che fungesse da lontano (lontanissimo) prequel dei due film. Raccontando eventi ambientati 10 mila anni prima, capaci di gettare luce su alcuni dei nodi narrativi del nuovo adattamento del capolavoro di Herbert (dopo quelli, di cui abbiamo parlato qui, di David Lynch del 1984 e della miniserie del 2000). Tuttavia, la serie ha incontrato sfide significative fin dalle fasi iniziali, segnate da avvicendamenti creativi e rallentamenti che ne hanno compromesso lo sviluppo.
L’idea originale era quella di creare una serie ambientata nel mondo di Dune, basandosi sui romanzi di Brian Herbert e Kevin J. Anderson, autori di prequel e spin-off della saga originale di Frank Herbert. Questi testi, sebbene controversi tra i fan, offrivano un’ampia base narrativa. Il progetto, inizialmente intitolato Dune: The Sisterhood, si sarebbe concentrato sull’ordine delle Bene Gesserit, un elemento centrale nella mitologia dell’universo di Dune.
Lo sviluppo, però, ha incontrato numerosi ostacoli. Denis Villeneuve, impegnato con la regia di Dune e Dune: Part Two (film a cui abbiamo dedicato anche questa puntata del podcast), non ha potuto assumere un ruolo attivo nella serie, come invece era stato previsto. Jon Spaihts (cosceneggiatore dei due Dune) avrebbe dovuto scrivere lo show e fare da showrunner: ma pure lui è saltato. Solo la prima di una serie di sostituzioni, abbandoni, rimpiazzi, che hanno probabilmente contribuito anche ai cospicui ritardi produttivi: le riprese, che dovevano iniziare a Budapest nel 2020, sono partite solo due anni dopo. Con altri cambi in corsa, sospensioni, e infine un nuovo nome. Appunto, il nostro Dune: Prophecy.
Un progetto, insomma, nato forse sotto una cattiva stella, per restare in tema.
Che storia racconta Dune: Prophecy?
La serie esplora le origini dell’universo di Dune e getta luce su elementi fondamentali che plasmeranno il futuro dell’umanità. Dune: Prophecy è ambientata circa 10.000 anni prima degli eventi narrati nei film di Denis Villeneuve. In un periodo di ricostruzione dopo la Battaglia di Corrin, che ha segnato la sconfitta definitiva delle macchine pensanti. Cioè l’evento fondativo noto come “Jihad Butleriano”, da cui deriverà il tabù contro l’Intelligenza Artificiale, ancora esistente ai tempi di Paul Atreides.
Al centro della narrazione ci sono le sorelle Valya e Tula Harkonnen, interpretate rispettivamente da Emily Watson (Le onde del destino, Chernobyl) e Olivia Williams (The Crown). Discendenti di un casato caduto in disgrazia dopo la guerra contro le macchine, determinate a ristabilire il prestigio della loro famiglia, le due protagoniste si trovano coinvolte in una rete di intrighi politici e manipolazioni genetiche. Mentre lavorano con spietata determinazione per trasformare l’iniziale Sorellanza (che addestra Veridiche per fungere da consigliere dei leader politici) nel ben più potente ordine delle Bene Gesserit. Le loro azioni si intrecciano con quelle dell’imperatore Javicco Corrino (Mark Strong, The Penguin), impegnato a consolidare il proprio potere in un impero ancora fragile e frammentato. E con la figura enigmatica di Desmond Hart (Travis Fimmel: Vikings, Raised by Wolves), un soldato carismatico e ambizioso che cerca di guadagnare la fiducia dell’imperatore a scapito della Sorellanza, che vuole distruggere.
Dune: Prophecy affastella dunque temi centrali nella mitologia di Dune: il controllo politico, l’influenza religiosa e il tentativo di plasmare il futuro tramite l’incrocio di linee genetiche e alleanze militari. Raccontando le forze che hanno plasmato l’universo, dalle prime faide tra le casate Atreides e Harkonnen all’ascesa delle Bene Gesserit. Grandi ambizioni, che purtroppo l’intreccio di dramma personale e conflitti su vasta scala fallisce a tradurre.
L’universo di riferimento di Herbert (padre)
Frank Herbert, con Dune, nel 1965, ha creato un’opera che va oltre la narrativa di genere. L’universo da lui immaginato è una combinazione di politica, religione, ecologia e filosofia, che esplora temi universali attraverso il prisma di un futuro lontano. Ne abbiamo parlato estesamente in questo articolo di approfondimento sui film di Villeneuve e il loro rapporto con i romanzi originari. Ma anche in questa puntata dedicata del podcast.
Al centro di tutto c’è Arrakis, il pianeta desertico che produce la “spezia”, una sostanza che garantisce longevità, consapevolezza e la capacità di viaggiare nello spazio. La spezia diventa il simbolo di un sistema economico e politico dominato dall’interdipendenza e dalla lotta per il controllo delle risorse.
Le Bene Gesserit occupano un ruolo centrale in questo universo. La loro abilità di manipolare i fili della politica e della genetica rappresenta il culmine di una strategia millenaria per guidare l’evoluzione dell’umanità. Herbert usa la sorellanza per esplorare – e criticare sottilmente – il rapporto tra potere e conoscenza, tra fede e controllo.
Ciò che rende l’opera di Herbert unica è la sua profondità tematica. Ogni personaggio, ogni dialogo, ogni descrizione contribuisce a creare un mondo vivo e coerente. Anche nei romanzi di minor valore della lunga serie, che l’autore proseguì fino al 1985, poco prima della morte. Tuttavia, questa coerenza nella complessità manca completamente in Dune: Prophecy. La serie si limita a riprodurre l’estetica e i simboli dell’universo originario, ma senza rispettarne il significato più profondo. Riducendo le Bene Gesserit a caricature. Privando la narrazione di spessore intellettuale. Come mai? Ecco, è venuto il momento di parlare meglio del figlio di Frank Herbert, Brian.
Da cosa è tratta Dune: Prophecy? E chi è Brian Herbert?
La serie si basa sui romanzi scritti appunto da Brian Herbert in collaborazione con Kevin J. Anderson, che hanno ampliato l’universo originale di Dune con prequel e sequel. Tra le opere che hanno ispirato Dune: Prophecy figurano due libri della trilogia chiamata Great Schools of Dune, ambientata circa un secolo dopo la conclusione della guerra contro le macchine pensanti. Si tratta di Sisterhood of Dune (2012) e Mentats of Dune (2014), libri che esplorano i primi giorni della sorellanza Bene Gesserit e le loro rivalità con altre fazioni come i Mentat e i Suk.
Va notato che le vicende raccontate nella serie si ispirano a questi volumi, in particolare per quanto riguarda gli accadimenti che ne costituiscono l’antefatto storico (quindi le azioni delle giovani sorelle Harkonnen). Ma poi, nel suo presente narrativo, lo show inventa delle proprie linee di trama, personaggi, eccetera. Purtroppo non migliorando la qualità generale del livello di invenzione.
Brian Herbert, figlio di Frank, ha dedicato gran parte della sua carriera a espandere l’eredità del padre. Tuttavia, i suoi lavori sono stati spesso criticati per la loro mancanza di originalità e per l’approccio eccessivamente commerciale. Non pochi fan dell’opera originale considerano i suoi romanzi come una banalizzazione della complessità tematica e narrativa di Dune.
Dune: Prophecy riflette, nella sua doppia genesi (letteraria e originale) questi limiti. La serie eredita dai romanzi di Brian Herbert un approccio che manca paradossalmente sia di ambizione che di coerenza. E però, quando inventa un proprio orizzonte, peggiora persino le cose. A partire da una caratterizzazione ahinoi quasi parodistica delle Bene Gesserit. Un bel problema, per uno show che voleva raccontare la genesi di questo soggetto cruciale nel franchise…
La sorellanza Bene Gesserit
Le Bene Gesserit sono un ordine matriarcale che ha raggiunto abilità sovrumane attraverso un rigoroso addestramento fisico e mentale, oltre all’uso della spezia melange. Il loro obiettivo dichiarato è guidare l’umanità su un percorso “illuminato”, un impegno concertato pianificato ed eseguito nel corso di millenni.
Le Bene Gesserit sono note per la loro capacità di manipolare eventi politici e sociali, agendo dietro le quinte per influenzare il corso della storia. Una delle loro pratiche più controverse è il programma segreto di selezione genetica, attraverso il quale cercano di produrre individui con capacità straordinarie. Come sarà il Kwisatz Haderach, il nostro Paul Atreides dopo il suo risveglio. Ma non solo. Le loro abilità includono l’accesso alle memorie ancestrali e l’uso della “Voce”, una tecnica che consente loro di controllare gli altri attraverso comandi vocali particolari (fino a costringere un altro essere umano a togliersi la vita).
Nonostante le loro abilità sovrumane, le Bene Gesserit evitano accuratamente di puntare al trono, preferendo manipolare le strutture di potere esistenti per raggiungere i loro obiettivi. Sono le burattinaie che tirano i fili dell’impero, non attori in cerca della luce della ribalta. Temute e rispettate, la loro dedizione alla causa e la disciplina ferrea le rendono una delle forze più formidabili nell’universo di Dune, capaci di plasmare il destino dell’umanità attraverso strategie sottili e una pazienza infinita. Come la disseminazione di profezie – progettate per essere utili in determinati momenti futuri – nei più remoti angoli dell’universo (alcune di queste le ritroveremo proprio su Arrakis, e sembra alludervi il finale di stagione di Dune: Prophecy).
Il fallimento di Dune: Prophecy e il confronto impossibile con Villeneuve
Purtroppo di tanta complessità in Dune: Prophecy non resta molto. E quel che resta è pasticciato e profondamente deludente. Abbiamo queste sorelle Veridiche che piegano il ditino e possono capire all’istante non solo se chi hanno davanti sta mentendo, ma pure quel che pensa e desidera e teme, prima ancora di aprire bocca. Ci sono i sussurri, le voci e apparizioni dei morti, manco fossero medium da circo. La manipolazione genetica è ridotta ad auto-parodia, in cui il “registro delle unioni” è in grado di prevedere il destino dei diversi umani futuri sulla base della loro ascendenza. Addirittura indicandone, anni o decenni prima che si sviluppino, le tendenze psicologiche.
Quel che è peggio, queste Sorelle si muovono in un modo che sembra contraddire la stessa filosofia fondativa delle future Bene Gesserit: agire nell’ombra, manipolare per piccoli aggiustamenti, non per grandi scossoni come qui vediamo accadere. In trame tanto magniloquenti quanto grossolane. E poi regolarmente schiantate dal riemergere di paturnie personali, con buona pace del piano millenario per portare l’universo sulla retta via.
Non stupirà se diciamo che la serie è assai mal scritta. Verbosissima eppure terribilmente confusa, al limite dell’ermetismo: un’indecifrabile soap opera spaziale. Con dialoghi estenuanti e inconcludenti. Personaggi lungamente assorti in intensa contemplazione che poi se ne escono con battute di rara modestia. Forse per detta modestia in sceneggiatura, forse per carenza di direzione, forse perché veri e propri errori di casting, attori di buon nome girano a vuoto. Emily Watson è totalmente fuori parte; Mark Strong pure, il che rende il suo imperatore ancora più inetto. Di Travis Fimmel non sappiamo bene cosa pensare: la sua recitazione stranissima, enfatica, sempre sopra le righe, è certo magnetica; e però qui contribuisce a rendere scoperta l’implausibilità di un personaggio che dal nulla in pochi minuti diventa primo consigliere del trono galattico.
Soprattutto, ahinoi, Dune: Prophecy è notevolmente noiosa, nonostante la relativa brevità delle sue sei puntate. Qualsiasi paragone con i magnifici film di Villeneuve sarebbe impietoso, quindi non infieriamo. Però non è colpa nostra se questo show – già rinnovato per una seconda stagione – è stato pensato, sviluppato e lanciato appunto come un’espansione del reboot cinematografico. Pur risultandone, per restare in tema, anni luce distante.
Sull’universo di Dune (film e libri), leggi il nostro articolo
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