“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. La frase, assai celebre, viene dalla Vita di Galileo, opera teatrale di Bertolt Brecht. Il ciclo di Dune di Frank Herbert, fondamentale serie di romanzi fantascientifici che prende corpo a partire dalla metà degli anni ‘60, in un certo senso si incarica di completare – e rendere più profonda – l’apodittica sentenza brechtiana. La tragedia diventa così un’altra, e ben più interessante: pur sapendo che il loro cammino è ricoperto di sangue non possiamo fare a meno degli eroi. Potrà anche essere il nostro sangue, come sarà il nostro mondo a finire in cenere; ma è più forte di noi – vogliamo un eroe, e vogliamo seguirlo.
Su Mondoserie abbiamo già raccontato la divertente storia dei precedenti adattamenti dei celebri romanzi. Lo sfortunato ma fascinoso Dune di Lynch del 1984. La modestissima miniserie del 2000 e 2003 (basata sui primi tre libri del ciclo herbertiano, e quindi anche Messia di Dune e I figli di Dune). E soprattutto il delirante e grandioso progetto partorito dalla mente di Jodorowsky negli anni ‘70, quando il visionario regista cileno immaginò nei dettagli un film di 14 ore rimasto sulla carta.
Ma è stato solo il magnifico, maestoso, magistrale Dune di Villeneuve (uscito in due parti tra il 2021 e il 2024, e a cui abbiamo dedicato un’ampia discussione in questa puntata del nostro podcast) a rimettere sotto i riflettori – con radicalità e lucidità straordinarie – elementi centrali nei romanzi di Herbert. E cioè la dimensione ineludibilmente politica – e profondamente problematica – della figura dell’eroe che si pone alla testa di un popolo. E il significato storico, antropologico, persino filosofico e soprattutto morale di ogni percorso messianico.
Sono i temi che esploreremo in questo approfondimento – va da sé, ricco di SPOILER.
24 mila anni nel futuro
Un minimo di setting per chi non conosce l’universo narrativo (o chi lo voglia ripassare per le generali). Siamo 24.000 anni nel futuro (26.391 d.C.). La storia è ambientata prevalentemente sul pianeta Arrakis, chiamato anche Dune. Una landa desertica e inospitale, abitata solo dal fiero popolo dei Fremen, che lotta per affrancarsi da secoli di oppressione coloniale. E questo perché Arrakis è l’unico luogo di produzione, raccolta e raffinazione della Spezia: la sostanza più preziosa dell’Universo. È solo grazie alla Spezia, infatti, che sono possibili i viaggi spaziali di lunga distanza. Ma il Mélange, com’è anche chiamata, ha un ruolo cruciale anche in tutti i riti religiosi più segreti e importanti, perché la sua assunzione amplifica le capacità mentali…
Arrakis e la sua complessa ecologia fanno da sfondo alla sfida per il controllo del pianeta, inizialmente tra la dinastia Atreides e quella Harkonnen. Ma le due famiglie rivali, espressione delle Grandi Case che costituiscono l’ossatura di un Impero simil-feudale, non sono gli unici attori della delicata e feroce partita. Vi sono le macchinazioni dell’Imperatore stesso, quelle della sorellanza Bene Gesserit, le Gilde spaziali e mercantili…
In questo contesto l’arrivo su Dune di Paul Atreides, figlio del Duca Leto cui l’Imperatore ha – machiavellicamente – conferito il governo di Arrakis, dà vita a una serie di accadimenti che scuoteranno dalle fondamenta la galassia… portando il pianeta sabbioso al centro di un confronto epocale.
Dune: l’origine letteraria
Il Ciclo di Dune è una serie di romanzi di fantascienza. I primi sei volumi, quelli considerabili strettamente canonici, sono stati scritti dall’americano Frank Herbert e pubblicati fra il 1965 e il 1985.
Il capostipite della saga, Dune, esce appunto nel 1965. Rigettato da molte case editrici, non è affatto un successo immediato. Ma poi il libro vince il premio Nebula e il premio Hugo, i massimi riconoscimenti della narrativa fantascientifica. Diventerà il più venduto romanzo di fantascienza della storia.
L’idea del pianeta deserto e del suo peculiare universo venne a Herbert mentre scriveva un articolo sul fenomeno delle grandi dune di sabbia dell’Oregon. Ma tra gli interessi dell’autore filtrano con evidenza sociologia, poesia, marxismo, antropologia, storia bellica (in particolare quella delle guerre del XIX secolo nel Caucaso). E poi i temi ambientali. Dune è stato definito il “primo romanzo di ecologia planetaria su larga scala” (ne parliamo meglio nel podcast). Non a caso arriva dopo la pubblicazione di un libro molto influente: Primavera silenziosa di Rachel Carson, del 1962. Primo saggio a popolarizzare i temi della crisi ambientale (lettori e spettatori attenti lo avranno riconosciuto: è il libro che influenza una giovane Ye Wenjie in Il problema dei tre corpi.
Insomma: è un universo complesso, pieno di dettagli, di impressionante coerenza, un riuscitissimo mix di fantascienza soft e hard. Che avrà una grande influenza sulla fantascienza a venire. Anche se i romanzi successivi faranno sempre rimpiangere il capostipite. Pur differenziandosi nettamente dalla turpe ripresa che farà, anni dopo la morte dell’autore, il figlio Brian Herbert con Kevin J. Anderson: con una pletora di prequel, sequel, compendi, espansioni commerciali che è caritatevole non commentare.
La parabola di Paul Atreides, da figlio a Messia
Basta anche solo scorrere i titoli che via via assume, o i nomi con cui viene chiamato, per avere plastica rappresentazione della parabola esistenziale e narrativa del protagonista di Dune. All’inizio della storia è Paul Atreides, il giovanissimo figlio del duca Leto, erede quindi di una delle grandi casate dell’Impero. Poco dopo il suo arrivo sul fatale pianeta deserto, alcuni Fremen – impressionati dalle sue gesta – iniziano a identificarlo come il Lisan al-Gaib. La “voce da un altro mondo”, lo straniero che le profezie raccontano li libererà dal giogo degli Harkonnen e dell’Impero. Con l’uccisione del padre diventa, seppur all’inizio solo in termini rivendicativi, il legittimo Duca di Arrakis.
Dopo essersi unito al popolo libero, la sua accettazione nella comunità del deserto è indicata dal nome segreto che gli viene attribuito: Usul, il pilastro. Diventa Muad’Dib, il leader carismatico dei Fremen. Si rivela essere il Qwisatz Haderach, l’essere supremo capace di trascendere tempo e spazio. E dopo aver sconfitto i suoi nemici assurge al titolo di Imperatore dell’universo. E c’è pure un altro nome, tappa finale del suo percorso, che assume nei successivi libri (e probabilmente quindi nel terzo film): ne parliamo più avanti, per chi non tema gli spoiler.
Insomma, una metamorfosi straordinaria, costellata da prove e rivelazioni. Un viaggio iniziatico non solo di maturazione ma di trascendenza – trascendenza persino dei limiti umani. E una figura attraverso cui Herbert esplora i temi della religione e della politica, facendo di Muad’Dib un simbolo di speranza ed emancipazione ma anche un monito sui pericoli del fanatismo. Il viaggio di Paul – da ragazzo a imperatore-dio – è una riflessione ambivalente sulla natura umana e sul potere: la sua giusta vendetta e la sua rivoluzione consumeranno 61 miliardi di vite e interi pianeti.
Jihad Butleriano, Bene Gesserit, Kwisatz Haderach
Alcuni rapidi approfondimenti permettono di apprezzare meglio la dimensione pienamente politica del racconto. Che, nelle intenzioni di Herbert (perfettamente attuate come vedremo da Villeneuve), non vuole essere di pura evasione ma farsi apologo morale.
Partiamo da un evento che non emerge chiaramente nei film ma che è cruciale: il Jihad Butleriano. Si tratta di una rivolta contro le macchine pensanti, iniziata circa 10 mila anni prima del tempo del racconto, che ha portato alla distruzione di tutte le forme di intelligenza artificiale. Questo movimento ha avuto come conseguenza una profonda avversione culturale e un tabù religioso rimasto in vigore per le migliaia di anni successive. «Tu non creerai una macchina a somiglianza della mente umana», recita un comandamento della Bibbia Cattolica Orangista, il grande testo della religione universale e sincretica che attinge a Cristianesimo, Islamismo, Buddismo, e una pluralità di dottrine e scuole. La società si è quindi evoluta sviluppando capacità umane straordinarie per sostituire le funzioni precedentemente affidate alle macchine.
Le Bene Gesserit sono un’organizzazione femminile sostanzialmente religiosa con un’influenza potente sull’intero universo di Dune. Fondate dopo il Jihad Butleriano, le Bene Gesserit aspirano a guidare l’evoluzione umana verso una forma superiore: per farlo ricorrono tanto alla manipolazione politica (con il ricorso alla disseminazione di profezie) quanto all’ingegneria genetica, attraverso un accurato programma di accoppiamenti.
Il Kwisatz Haderach è l’obiettivo finale di questo lungo programma eugenetico delle Bene Gesserit: un maschio con poteri di preveggenza e accesso alla memoria genetica completa di tutti i suoi antenati. Questa figura messianica è destinata a possedere una comprensione e un controllo senza precedenti sul tempo e lo spazio.
E tutti questi temi si incarnano, e insieme stravolgono, in Paul Atreides: che è allo stesso tempo frutto e anomalia di queste lunghe macchinazioni.
Il complesso status morale dell’eroe (e del mondo) in Dune
Sul New York Times, in un articolo intitolato “From ‘Dune’ to Decadence (and Back)”, Ross Douthat ne ricava alcuni elementi importanti anche per il nostro ragionamento. Riflettendo sulla complessità del mondo disegnato da Herbert, sottolinea come questo distante futuro abbia, nelle sue scelte sociali morali e tecnologiche, risolto dilemmi che sono anche nostri. L’intelligenza artificiale, come dicevamo, è stata inventata, accettata e poi esplicitamente respinta nel Jihad Butleriano.
Ma, dice Douthat, «nel frattempo il transumanesimo è stato respinto in alcuni modi ed abbracciato in altri. Al posto dei computer, l’impero galattico di Herbert ha coltivato ciò che considereremmo poteri mentali superumani, spesso attraverso l’uso di droghe che alterano la mente: Google Gemini, assolutamente no; sostanze psichedeliche, forse sì. Allo stesso tempo, la potente sorellanza Bene Gesserit dell’impero ha intrapreso un vasto progetto eugenetico, ma uno che è circondato da vari tabù: accoppiamento selettivo, sì; clonazione e fecondazione in vitro, forse no».
E veniamo al punto che ci interessa di più, quello sul rapporto tra questo mondo complesso e l’ambivalenza morale del protagonista del racconto. «Herbert dipinge il suo mondo del futuro come caduto nella decadenza, con un ordine stabile ma crudele basato sul feudalesimo aziendale, sulla manipolazione religiosa e su altre forme di sfruttamento. E qui alcune delle discussioni relative all’adattamento cinematografico, se Paul Atreides sia un liberatore o un oppressore, un eroe o un cattivo, non colgono il punto saliente della storia originale: e cioè che talvolta l’unico percorso per uscire da uno status quo corrotto passa da sconvolgimenti, persino fanatismo e morte. Così il Paul del libro è sia un eroe che un cattivo, sia un distruttore che un salvatore; segue un percorso terribile che è però anche l’unico percorso possibile per l’umanità».
Esatto: l’uno e l’altro.
Messia di Dune (possibile SPOILER sul terzo film)
Il ragionamento si completerebbe parlando brevemente di Messia di Dune, secondo romanzo del ciclo originale e possibile base del possibile terzo capitolo cinematografico di Villeneuve (il regista canadese non ha ancora confermato di volerlo fare, e data la modestia del libro in caso c’è da sperare che attinga a piene mani altrove). Ovviamente, per chi non vuole SPOILER e non conosce già la storia, è preferibile saltare al prossimo capitolo.
Nel romanzo (del 1969), Paul guida l’Impero da dodici anni. La sua guerra santa, portata dai Fremen in ogni angolo della galassia assieme alla divinizzazione forzata della figura dell’Imperatore, ha causato la morte di sessantuno miliardi di persone. Secondo le sue visioni precognitive, comunque, un destino molto migliore rispetto agli altri possibili. E un passaggio obbligato per cercare di portare l’umanità su un percorso che non conduca all’estinzione.
Vari soggetti complottano contro di lui: tra questi le Bene Gesserit, la Gilda Spaziale e la principessa Irulan, sua consorte e figlia del deposto imperatore Corrino. In uno degli attentati che subisce, perde la vista – acquistando poteri sensoriali sconfinati, che rimpiazzano i suoi occhi senza vita e anzi rafforzano la sua preveggenza. Smascherati i colpevoli della congiura, Paul assiste alla nascita dei suoi figli gemelli Leto II e Ghanima, figli dell’amata concubina fremen Chani. E poi si incammina nel deserto per morire da solo, in accordo con la legge fremen su chi diventa cieco, lasciando la sorella Alia a governare l’impero come reggente.
A dirla tutta nel libro successivo, I figli di Dune, la sua parabola conoscerà un ultimo capitolo e gli frutterà un nuovo nome: il Predicatore. Visto che, nascosto nel deserto e senza rivelarsi, inizierà a fomentare una ribellione contro il sistema politico e religioso che ha lui stesso creato…
Fremen e mondo arabo, tra nazionalismo e fondamentalismo
Ed è nel raccontare i Fremen, come vedremo anche in chiusura parlando meglio della Chani cinematografica, che Villeneuve si prende le maggiori libertà rispetto al libro. Raggiungendo peraltro, attraverso il parziale tradimento, una superiore fedeltà alle intenzioni profonde di Herbert. Che, giova ricordarlo, scrisse ben più di mezzo secolo fa.
Nei libri il popolo del deserto appare sostanzialmente monolitico. Sono ribelli in lotta per la libertà; Muad’Dib ne vince la diffidenza e diventa leader grazie alle proprie virtù; loro ricambiano facendosi seguaci fedeli fino al fanatismo e al sacrificio. Nei film di Villeneuve i Fremen mostrano una diversa complessità. Una frattura li attraversa. Da una parte un revanscismo secolare, laico, di matrice nazionalista, incarnato da Chani, che rifiuta il dato spirituale e fonda la propria causa sulla storia. Dall’altra il fondamentalismo religioso particolarmente forte nel Sud del pianeta, alimentato di misticismo profetico, ben rappresentato da Stilgar.
Questa divaricazione è un’invenzione che però, come accennavo, meglio attualizza l’ispirazione “araba” di Herbert. I riferimenti mediorientali nell’universo di Dune sono evidenti. Dalla lingua ai costumi, dai nomi a certe espressioni e persino proverbi. Paul Atreides è scopertamente mutuato su un altro straniero che diventa leader carismatico ed emancipatore, Lawrence d’Arabia (fino al punto da scrivere, dopo l’ascesa al trono, un trattato chiamato Sette Pilastri dell’Universo – mentre T. E. Lawrence intitolò il proprio resoconto delle attività belliche nel deserto Sette Pilastri della Saggezza).
D’altra parte in 60 anni è cambiato anche lo scenario reale cui Herbert aveva guardato in cerca di ispirazione. Basti pensare alla causa palestinese: un tempo guidata dal nazionalismo secolarista dell’OLP di Arafat, oggi molto più orientata al fondamentalismo di Hamas. In un mondo in cui tornano centrali gli aspetti religiosi e culturali.
L’eroe, il messia, la critica di Herbert
Ed è per questo che possiamo pensare che, anche laddove i film si discostano dai romanzi, stiano di fatto facendo un buon servizio alle intenzioni dell’autore originario. Enfatizzando quell’ambigua problematicità del leaderismo messianico che è centrale nella riflessione – e nella critica sotterranea – di Herbert. Paul Atreides, per quanto possiamo amarlo e fare il tifo per lui, è destinato a diventare un messia sanguinario. Guiderà i Fremen a una Jihad che incendierà l’universo conosciuto, facendo – letteralmente – miliardi di morti. È proprio l’autore a dire, nel 1979: “La conclusione della trilogia di Dune è: attenzione agli eroi. È molto meglio fare affidamento sul proprio giudizio e sui propri errori”.
Un tema principale di Dune e dei suoi seguiti è il monito del suo autore sulla pericolosa tendenza della società a “cedere ogni capacità decisionale” a un leader carismatico. Ce lo dice sempre Herbert nel 1985: “Il libro era mirato a questa idea del leader infallibile: la mia visione della storia dice che gli errori commessi da un leader (o fatti in nome di un leader) sono amplificati dal numero di coloro che lo seguono senza fare domande”. Ancora, in un’intervista del 1970, lo scrittore notò che il personaggio di Paul era stato costruito per esprimere “il conflitto tra assoluti e la necessità del momento”.
Il paradosso è che lo stesso Herbert rimase in un certo senso vittima della “maledizione dell’eroe”. Iniziò probabilmente a scrivere Dune con l’idea di dar forma a una critica radicale del leaderismo messianico; ma finì per, se non subirne la fascinazione morbosa, quantomeno riconoscerne l’inevitabilità. Creando per Muad’Dib, tramite l’espediente narrativo della prescienza e quindi dell’inevitabilità, una giustificazione di fatto morale ad ogni azione, per quanto brutale: tutte le alternative sarebbero state peggiori..
Chani e lo sdoppiamento dell’eroe in Dune
Per questo è importante che, nel suo Dune umanistico (e in particolare nella parte 2), Villeneuve costruisca per Chani un destino almeno in parte divergente da quello dei romanzi. Laddove nei libri la guerriera Fremen assurgeva al ruolo di fiera concubina, sentimentalmente paritetica ma politicamente subalterna al nuovo imperatore, nel secondo capitolo filmico sviluppa un percorso proprio. Chani non tradisce la sua ideologia secolare. Non accetta il profetismo mistico che contagia gran parte del suo popolo e che incendierà l’universo. Ama l’uomo, non il Messia. Fino ad allontanarsi da lui, nel magnifico finale, scegliendo di restare fedele alla terra mentre Muad’Dib lancia i suoi fanatici guerrieri al cielo – verso il Paradiso, contro le Grandi Case, in una jihad “purificatrice”.
Ma non è solo un omaggio femminista. Separandosi nel finale dal libro, facendo di Chani la sostanziale antagonista politica di un leader che sta edificando la propria rivoluzione su base religiosa e fondamentalista, Villeneuve paradossalmente realizza ciò che a Herbert non è riuscito compiutamente.
Costringerci a tenere gli occhi bene aperti mentre assistiamo alla scalata al cielo dell’imperatore-dio. Sottolinearci – sdoppiando e separando gli eroi, con una divergenza emotiva e cognitiva più unica che rara nel cinema di massa – che stiamo parteggiando per un Messia insanguinato. E ricordarci così, nel modo più potente possibile, che l’epica della vendetta e della liberazione porta ineludibilmente alla strage e alla tirannia. Non è un effetto collaterale o una conseguenza inattesa: proprio come Paul, noi lo sappiamo, lo vediamo che sarà così. E, se lo scegliamo comunque, non possiamo poi dircene innocenti.
Non è allora un caso, ripensandoci, che Dune inizi, proprio in apertura del primo capitolo, con una domanda posta da Chani: “Chi sarà il nostro prossimo oppressore?”. Beffardamente, dolorosamente, sarà quello che abbiamo finito per amare.
Ascolta anche il podcast dedicato a Dune
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