Domina (di cui la seconda stagione è in corso su Sky e NOW TV, dopo il debutto del 2021) vorrebbe dipingere un affresco fedele della vita di Livia Drusilla (Kasia Smutniak ), terza e ultima moglie del primo imperatore di Roma, Cesare Augusto. Invece è un mero feuilleton televisivo, banale e sciapo. Che prende a pretesto la storia romana per consentire al suo ideatore, Simon Burke, di sfogare le sue ansie ideologiche.
O sarebbe meglio definirle forse scemenze. Come questa: “Livia Drusilla è stata la prima vera femminista”. Ora, se è vero che le donne romane, specie di alto lignaggio, erano in privato più libere delle greche, è totalmente fuori luogo applicare certa terminologia odierna a una “regina della domus”, tutta prole e focolare, che pure un ruolo lo ebbe, ma solo perché mamma ficcanaso sempre all’opera per favorire la carriera del figlio naturale Tiberio.
Domina: se l’ideologia è una scusa
Fu il suo stesso sposo, del resto, a giocare con i vincoli familiari come pedine della sua scacchiera di potere. Ma Livia non assunse mai pubblici onori, se non dopo la dipartita del congiunto che in sede di testamento la “adottò”, come usava allora, e soltanto in quel momento divenne Giulia Augusta. Come sanno perfino i più ignoranti studenti delle medie, fino all’età contemporanea l’universo femminile non ha mai avuto alcuna importanza politica, e quando ne rivestì qualcuna, fu perché sui troni si assisero sue esponenti in qualità di discendenti o comunque parenti o unite a un maschio, non in quanto appartenenti al gentil sesso.
In realtà, in questa mediocre video-saga anche l’ideologia è una scusa, perché il vero scopo di Burke è totus politicus: “E’ una storia di sangue, violenza, sesso, ma racconta la graduale distruzione di una democrazia, orchestrata con intelligenza. L’abbiamo scritta durante le fasi della Brexit e le fasi in cui i Repubblicani in America cercavano di smantellare la democrazia”.
In genere sono quei falsificatori di americani, a fingere di credere che la Repubblica Romana fosse l’edizione antica della democrazia moderna, e ciò si spiega con la tradizione a stelle e strisce che propaganda il paragone fra Washington e Roma per infondere un’aura anticipatoria alla pax imperiale americana.
Reinventare il passato per polemizzare sul presente
Qui, invece, è uno sceneggiatore inglese, che fra l’altro è residente da anni in Italia, a ripetere la storiella per cui il regime costituzionale del Senatus e Populus Romanus si offrirebbe come un modello democratico giusto un attimo imperialista.
Qualcuno informi il Burke, che si fa vanto della presenza di storici nell’elaborare la trama: Roma non è mai stata una democrazia, né secondo i canoni dell’originale ateniese (nessuna uguaglianza fra i cittadini: il supremo consesso decisionale, il Senato, era sbarrato ai plebei come classe), né men che meno rispetto alla forma assunta nel corso del Novecento (in cui i caratteri democratici, ovvero l’ingresso del popolo economicamente svantaggiato nella gestione della res publica, si sono affermati legandosi e, paradossalmente, salvaguardando precedenti meccanismi oligarchici e prettamente borghesi, che erano dello Stato liberale ottocentesco e che oggi sono tornati nuovamente in voga con la vittoria delle élite transnazionali sulle masse votanti, vedasi quanto disse un giorno lo squalo speculatore Warren Buffet: “la lotta di classe è finita, e l’abbiamo vinta noi”).
Burke, insomma, ha inteso costruire sopra a una biografia del passato una polemica faziosa del presente. Tutto qui. Tutto qui perché per il resto la sceneggiatura fa pietà.
Che cosa racconta Domina
La vicenda si dipana dall’infanzia di Livia, edipicamente innamorata del padre Livio Druso esempio d’onore e lealtà agli ideali repubblicani, fino alle manovre per favorire il giovane Tiberio, futuro imperatore, contro la rivale Ottavia, sorella di Cesare, che era riuscita a convincere quest’ultimo dell’opportunità di nominare suo successore il di lei figlio e il di lui nipote Marco Claudio Marcello (fatto vero, questo dell’intenzione di Augusto di incoronare suo erede il ribaldo Marcello, ma non per intercessione della madre).
Il quale Marcello, nella serie, viene fatto uccidere da una congiura di Livia utilizzando la mano di uno schiavo con cui il ragazzo ha intrecciato una relazione amorosa, facendolo cioè passare da ragazzotto non solo spavaldo e feroce (cosa che in effetti era), ma anche psicologicamente insicuro, e soprattutto insensibile al fascino dell’eterno femminino.
Insomma, un gay velato ante litteram, pure qui per esigenza di ammorbante politicamente corretto.
Una soap opera di second’ordine, tra stereotipi e svarioni
Il solito Burke ha rivendicato le sue libertà narrative, com’è ovvio e giusto che sia. Ma la creatività è una cosa, spiattellare il repertorio obbligato di luoghi comuni un’altra. Anzi, è precisamente l’opposto. Le scene scorrono senza un vero colpo di scena, i personaggi sono stereotipati e prevedibili, gli usi e i costumi dell’epoca fanno soltanto da cornice, e con svarioni e ingenuità tali da far venir voglia di mandare Burke e il suo ‘storiografico’ team al confino (relegatio in insulam).
Per dire: a un certo punto la succitata Ottavia si inginocchia, a casa, a pregare Nemesi, la dea della vendetta. I Romani non pregavano come noi, da cristiani, in posizione di sudditanza rispetto alla divinità, ed entro le mura domestiche onoravano il culto di antenati e genii protettori, non gli Déi che avevano i loro templi dedicati. Può sembrare una differenza di poco conto, mentre invece rende plasticamente tutta la radicale diversità che intercorre fra la nostra religiosità e la pax deorum pagana, venerante ma mai supina al Dio di turno, e in particolare mai crogiolata nell’interiorità individuale, visto che il culto era anzitutto pubblico, fuori di casa.
Ma bastava davvero poco, per capire che questa soap opera di second’ordine non ha nulla a che vedere con l’epoca trattata. Per dire: Ottavio, colui che diventerà Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, viene chiamato sempre “Gaio”. Così, come se il praenomen assunto dopo l’adozione da parte del prozio assassinato alle Idi di Marzo equivalesse al suo nome, diremmo oggi, di battesimo.
Domina: sotto i costumi, niente
L’unica componente, ma proprio unica, in cui “Domina” si attiene a una certa verosimiglianza storica, o in ogni caso sfrutta il contesto temporale per abbellirsi e acquisire un po’ di sostanza, è l’arte sopraffina della costumista premio Oscar Gabriella Pescucci, autrice di vesti e addobbi che per lo meno concorrono a creare un’atmosfera suggestiva. Dopodichè, il vuoto.
Se si voleva dare una vaga idea della natura calcolatrice e spietata del Potere, non si sarebbe dovuta ridurla agli inganni, agli avvelenamenti e ai giochi di seduzione da tragedia familiare, perché la temperie di quell’ultimo scorcio di Repubblica si alimentava soprattutto di battaglie campali, di efferato terrore contro i nemici politici, di orazioni in Curia senatoriale o nel foro.
Il polpettone di Sky, con questa originalissima (capirai) idea di vedere le cose dal punto di vista femminile, riduce la grandiosità, certo moralmente ignobile ma pur sempre grandiosità, a una pochade mascherata da ascesa della donna forte, la donna-santino, idealista, democratica, stronza per necessità e dovere e quindi, ipso facto, ‘buona’.
“Ero curioso di scoprire questo personaggio e sviluppare alcune teorie su di lei: come quelle sul fatto che fosse il genio politico dietro Augusto e che lo abbia fatto per ripristinare la Repubblica dopo la sua morte”, Burke. Ennesima belinata: Livia aveva sì qualche ascendente sul marito, ma non fu mai co-reggente, e per il resto era un’ipocrita intrigante, “funesta madre dello Stato” (Tacito).
Fosse per lo meno riuscito nel suo intento, il Burke, nulla quaestio. Restando invece nel trito e nel ritrito, con una sceneggiatura che si sarebbe tranquillamente potuta appiccicare a un’altra compagna eccellente di altri eccellenti uomini della Storia, non ci è manco riuscito.
Se questo è rendere un servizio al femminismo e alla democrazia, povero femminismo, e povera democrazia.
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