Washington, D.C.. L’enorme, candida cupola del Campidoglio – la sede del Parlamento federale statunitense, il tempio laico della democrazia americana – viene violata. Un’esplosione la scuote. Le fiamme, altissime, squarciano la notte. Il Governo è stato decapitato da un oscuro completato terroristico. È l’inizio di Designated Survivor, serie tv che dal 2016 è andata in onda per tre stagioni. Il protagonista, interpretato da Kiefer Sutherland, è Tom Kirkman: membro di secondo piano del Cabinet presidenziale, “sopravvissuto designato” e quindi tenuto al sicuro durante l’annuale discorso sullo Stato dell’Unione. Proprio per garantire, in caso di catastrofe, la continuità del governo del Paese.
Finzione, realtà. Il tema è proprio questo: chi rincorre chi? Quale sta maggiormente influenzando l’altra? La messa in scena narrativa del potere politico ha subito negli ultimi anni una progressiva e formidabile degenerazione morale. Soprattutto la tv ha costruito e cristallizzato un immaginario feroce, sadico, davvero oscuro. Prendendo a esempio la Casa Bianca: la Camelot di The West Wing si è mutata nell’incubo di House of Cards. Ma il discorso non cambia, come vedremo, spostandoci di livello; o di continente; o di genere, dal dramma alla satira. C’è stato un precipitare verso la rappresentazione della politica come trionfo, più che della forza, della violenza. Certo, si dirà: è la politica che degenera, e così fa la sua rappresentazione.
Ma se – questa la mia domanda – le cose fossero più complicate di così? Se la messa in scena pervasiva del potere come di un elemento sempre più oscuro, persino malevolo, finisse per plasmare a sua volta la realtà? Se producesse effetti visibili, misurabili, reali? Come l’assedio armato al Parlamento americano del 6 gennaio 2021? Con la sua scia di morti e di vulnerabilità improvvisamente scoperte? O persino l’attentato del luglio 2024 all’ex presidente Trump, finito lui stesso nel gorgo di quella violenza politica che ha molto contribuito a fomentare?
Finzione vs realtà?
Prima di dismettere la domanda, ricordate: stiamo ragionando di immaginario. Un termine sempre più rilevante per leggere e interpretare la realtà e le dinamiche di un mondo fluido, o se preferite post-fattuale.
Ricordo che, in quell’inizio 2021, guardando le scene dell’insurrezione a Capitol Hill, mi sono accorto a un certo punto di come una delle ragioni di smarrimento fosse semplice. Non avevo nulla a cui rapportare quanto vedevo – in America! – per renderlo meno disturbante. Non c’erano precedenti storici reali, negli USA, di un fatto così clamoroso, a escludere il lontano rogo appiccato al Campidoglio (e alla Casa Bianca) dalle truppe inglesi nel 1814. E soprattutto non c’erano esempi visivi. A meno, certo, di non sconfinare nell’immaginario cinematografico e televisivo degli ultimi decenni.
Lì, invece, gli esempi abbondano, specie nell’universo pop “basso” che è divenuto un pressoché onnipotente generatore di segni e di significati a enorme diffusione. Trame terroristiche, complotti, storie di spionaggio, d’azione, d’avventura sono, letteralmente, all’ordine del giorno. E sono divenuti parte integrante del racconto della politica e del potere, che ha conquistato spazi crescenti nel panorama mediatico. E che lo ha fatto divenendo sempre più cupo.
In questa rincorsa, cinema e tv non hanno agito nello stesso modo. Il cinema ha bene o male tenuto distinte alcune diverse modalità di rappresentazione del potere, secondo criteri di genere che, alla fine, equivalgono anche a modi per fare ordine nel mondo. La tv, con la capacità di rimasticazione e digestione rapidissima di cui è portatrice, ha reso i confini progressivamente sempre più labili. Confini tra i generi. Ma anche confini tra realtà e finzione. Tra plausibile e impensabile.
Politica e potere al cinema
Partiamo dal cinema: rapidissime pennellate per tratteggiare un’idea. Il Presidente degli Stati Uniti, l’“uomo più potente del mondo” è stato rappresentato in molti modi. Ci sono i biopic più o meno realistici. Film come Lincoln, Nixon, e in misura minore le pellicole “kennediane” 13 Days (dedicato al confronto con l’URSS attorno a Cuba) e JFK, che invece dello sfortunato Presidente indaga l’assassinio. Ci sono le parodie e le satire, in cui il “leader del mondo libero” è un emerito imbecille. Da quella del kubrickiano Dottor Stranamore (1964) al Mars Attacks! di Tim Burton (1996).
Ci sono le dramedy che provano a illuminare in modo diverso la figura del Presidente, tra cui due emerse forse non casualmente nel primo mandato Clinton. Dave – Presidente per un giorno (1993), con la tesi un po’ qualunquista ma anche romantica per cui un cittadino qualunque potrebbe, con buon senso e voglia di fare, cavarsela meglio del politico di professione nella soluzione dei problemi del Paese. E ancora Il Presidente (1995), diretto da Rob Reiner ma soprattutto scritto da Aaron Sorkin in linea con quella “Nuova Camelot” idealista che poi sarebbe sfociata alcuni anni dopo in The West Wing, con un intenso Michael Douglas a mostrarci il volto umano del Commander in Chief.
Non di sole sfide realistiche, però, vivono i Presidenti del grande schermo: la catastrofe incombe sotto forma di un evento astronomico che minaccia di spazzare via la vita dalla Terra in Deep Impact (1998), con Morgan Freeman presidente – nero, dieci anni prima di Obama. La minaccia viene dallo spazio anche nel superblockbuster Independence Day (1996), con l’arrivo di alieni che distruggono la Casa Bianca e cercano di sterminare l’umanità: ma qui la dinamica cambia, aprendo a un nuovo e attualissimo filone. Il Presidente non si limita a dirigere le danze: scende sulla pista da ballo lui stesso. Con le sembianze di Bill Pullman, sarà lui in persona a guidare l’eroica azione dell’ultima pattuglia di aerei che cerca di distruggere l’astronave-madre dei viscidi invasori.
Vogliamo, in altre parole, che chi ci governa sia anche in grado, se serve, di risolvere il problema lui stesso. In prima persona. Con le sue mani.
Del tutto analogamente a quello che dovrà fare Harrison Ford in Air Force One (1997), con la sola differenza di una minaccia più “realistica”: un complotto terroristico per sequestrare l’aereo presidenziale, che POTUS sventerà a cazzotti.
E il terrorismo la fa da padrone negli anni più recenti, in cui il cinema americano ha sfornato con grande successo pellicole nate sotto lo stesso segno e in contemporanea: la saga di Attacco al Potere inizia nel 2013, lo stesso anno di Sotto assedio – White House Down (di nuovo il Roland Emmerich di Independence Day). La premessa è la stessa per entrambi i film: la Casa Bianca viene invasa, il Presidente sequestrato o messo in pericolo da spietati terroristi. Che hanno alle spalle loschissimi complotti tutti interni a una politica statunitense avvelenata dagli special interest e fattasi ormai ineludibilmente paludosa. In ambo i casi, un poliziotto onesto dovrà aiutare il Presidente (che è onesto pure lui, ed è un fustacchione: Aaron Eckhart nel primo film, Jamie Foxx nel secondo), chiamato a sporcarsi le mani per rimettere in carreggiata il Paese.
Ci stiamo avvicinando a pezzi dell’immaginario trumpiano: contro il Deep State e i suoi complotti il vero patriota non delega alla democrazia rappresentativa. Deve prendere la materia nelle proprie mani, e combattere.
Non è un caso che un film recente e di grande impatto come Civil War (2024), di Alex Garland, evochi nella figura dell’assediato Presidente degli Stati Uniti un profilo quasi trumpiano (reso dal sempre ottimo Nick Offerman). Mettendo in scena la guerra civile che si scatena quando il Presidente cerca di trasformare le istituzioni democratiche del Paese in strumenti di una degenerazione tirannica.
Se il cinema di consumo ha conosciuto negli ultimi 25 anni un progressivo processo di infantilizzazione della propria estetica (si veda l’inflazione dei supereroi in formato cartoonesco), la tv ha, in termini di prodotti pensati per il pubblico di massa, saputo viceversa complessificare il proprio discorso. Ribaltando il rapporto pre-anni ‘90 tra i due media.
E in effetti il film che forse meglio fa da ponte tra l’immaginario cinematografico e quello televisivo nella rappresentazione della Casa Bianca è un altro, a cui magari non penseremmo subito: Potere assoluto (1997), uno dei gioielli di Clint Eastwood. L’attore-regista è un ladro (perbene) che assiste, durante un colpo, a un orribile delitto commesso nientemeno che dal Presidente (Gene Hackman): deciderà di non fargliela passare liscia.
È qui che forse vediamo anticipata una tendenza che sarà il piccolo schermo a raccogliere: dietro la propria facciata, il potere politico è non solo corrotto ma violento, persino crudele, dark, fino a sfociare nella sociopatia.
The West Wing: un racconto idealistico (e unico)
Partiamo dal contrario di questa visione: e cioè dall’idealismo di Aaron Sorkin, brillante sceneggiatore di Codice d’onore, The Social Network, Steve Jobs. La sua The West Wing (1999-2006) è il caposaldo della rappresentazione televisiva della politica americana, e in particolare della vita della Casa Bianca. Di fatto, ha costruito il canone della rappresentazione di tutto ciò che ruota attorno alla figura del Presidente degli Stati Uniti. Lo ha fatto adottando un punto di osservazione che abbraccia radicalmente l’idea della politica come missione. L’amministrazione Bartlett, condotta dall’integerrimo e carismatico presidente impersonato da Martin Sheen, è ovviamente Democratica.
Progressista, onesta, piena di persone intelligentissime, capaci di analizzare e affrontare ogni problema nelle sue più minute sfumature politiche, sociali, culturali – ma anche in termini di giustezza morale. Insomma, è davvero il trionfo della politica come spazio dell’Idealismo. Non per caso, non è incentrata sull’uomo solo al comando, il Presidente e basta, ma sullo staff. Cosa importante in termini non solo narrativi ma anche filosofici: la decisione finale spetta al leader, certo, ma la maturazione della decisione è processo lungo, complesso, arricchito da input diversi e molteplici, da riflessioni e punti di vista mai banali. Una citazione, che appare nello show, ne sintetizza benissimo lo spirito entusiasticamente progressista: “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi e dedicati possa cambiare il mondo”.
Dopo The West Wing, però, è il diluvio. La rappresentazione muta completamente: la politica finisce per essere raccontata quasi solo come cinismo, lotta violenta, manipolazione, brama, egotismo, interesse personale, o manifestazione ridicola della propria vanità.
House of Cards, Scandal: la politica come violenza
Una carrellata che non può che iniziare con House of Cards (2013-2018), remake a stelle e strisce firmato da David Fincher dell’omonima miniserie britannica del 1990. La primissima scena del primo episodio chiarisce che razza di uomo politico sia Frank Underwood, autorevole membro del Congresso le cui ambizioni sono seconde solo alla propria spietatezza (gli dà il volto un luciferino Kevin Spacey). Si sente un’auto inchiodare. Il nostro protagonista entra in scena, trova il cane dei vicini, investito, che rantola. Rivolgendosi allo spettatore, spiega: “Ci sono due tipi di dolore. Il dolore che rende più forti. E il dolore che produce solo sofferenza, un dolore inutile. Io non ho pazienza per le cose inutili”. Per poi procedere a strangolare la bestia.
Novello Riccardo III, Underwood darà la scalata al potere, fino alla conquista della Presidenza degli Stati Uniti. Con un percorso costellato di cadaveri. Sporcandosi egli stesso le mani di sangue, piuttosto letteralmente. Aiutato da una Lady Macbeth (Robin Wright) di rara e algida inumanità.
Una rappresentazione violenta e feroce della lotta per il potere la troviamo anche in Scandal, enorme successo firmato Shonda Rhimes andato in onda dal 2012. La protagonista, Olivia Pope, è una potentissima fixer, una di quelle figure – a metà tra maestri della comunicazione, delle PR e dei magheggi – che risolvono situazioni politicamente imbarazzanti o devastanti. Levando le castagne dal fuoco al potente di turno finito nei pasticci. Nel suo lavoro, a stretto contatto e in relazione simbiotica con il Presidente americano, non esita a usare ricatto, estorsione, minacce per ottenere ciò che vuole: così è il mondo della politica che questo show racconta.
Volete un esempio reale? Date un’occhiata al documentario Get me Roger Stone, di cui abbiamo scritto qui.
La paranoia e il potere: Designated Survivor, Homeland, Deep State, False Flag, The Regime
Le cose vanno solo apparentemente meglio con il Presidente buono della già citata Designated Survivor. Un po’ perché il complotto che ha decapitato il governo USA e catapultato il mite Kirkman alla Casa Bianca deriva tutto dalle trame intricate di una politica americana paludosa e miasmatica, e le sfide che giungeranno al povero protagonista nel corse delle tre stagioni arriveranno quasi sempre da dentro, dalla corruzione del Sistema. Un po’ perché dato l’interprete, Kiefer Sutherland, è inevitabile che in alcuni momenti il personaggio dell’occhialuto Presidente-per-caso finisca per essere quasi posseduto dallo spettro dell’agente dell’antiterrorismo Jack Bauer, cui la star aveva dato volto nelle nove stagioni della popolarissima 24 (2001-2010). Di 24 abbiamo parlato in questa puntata del podcast.
Jack Bauer si caratterizzava per i modi spicci e il ricorso alla tortura in nome della più brutale applicazione del principio per cui “il fine giustifica i mezzi”. Principio del tutto “legittimo” in un mondo dominato da minacce che arrivano dall’interno del Paese come dall’esterno.
Uno sfondo sostanzialmente paranoico e post 11 settembre, che ha avuto la sua consacrazione nelle otto stagioni di Homeland (2011-2020). Show di ambientazione spionistica e sempre immerso nelle angosce di una minaccia terroristica permanente. In cui non c’è soluzione di continuità tra gli “enemies foreign and domestic”, i nemici interni o esterni, come recita la formula del Giuramento che lega militari e pubblici ufficiali al rispetto e alla difesa della Costituzione. Ma potremmo citare, sempre sul fronte cospirazionista, serie di minor successo ma di ancora più chiara matrice ideologica, fin dal titolo, come l’israeliana False Flag (2015) e la britannica Deep State (2018).
O anche la più recente The Regime (2024), satira politica con Kate Winslet a dare il volto alla despota di un immaginario Paese europeo il cui regime si sgretola, tra isolamento e crescente paranoia.
La politica è oscena – comunque, ovunque
Sia detto en passant: le cose non sono poi diverse se si cambia livello di governo, o persino continente. In America, serie come il capolavoro The Wire e la solidissima Boss offrono un ritratto della politica del tutto sordido anche al livello urbano, in quel luogo solitamente romanticizzato che è la politica locale: non sono diverse da Washington le varie Baltimora, o Chicago.
Ugualmente corrotta è la città francese di Marsiglia della Marseille che vede per protagonista Gérard Depardieu. O la Roma di Suburra, col suo intreccio di politica, malaffare, mafia, interessi vaticani. O l’Italia intera di 1992–1993–1994, che ricostruisce il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, Mani Pulite, l’avvento di Berlusconi…
E la satira? Il pensiero corre subito a Veep, andata in onda dal 2012 al 2019. Julia Louis-Dreyfus veste i panni di Selina Meyer, vicepresidente degli Stati Uniti gaffeur e inetta. E abile a fare solo una cosa: sopravvivere in un ambiente mutevole e costantemente minaccioso, quello politico, fino a ritrovarsi, incredibilmente, Presidente della prima superpotenza mondiale. In Veep si umanizza la figura del politico, è vero, e questa è una delle ragioni del suo straordinario successo. Ma la si umanizza al ribasso: il politico non è migliore e non è neppure diverso; è esattamente come noi. E anzi: di tutti noi, ha i peggiori tratti. Miseria, meschinità, avidità, gelosia.
Potremmo dire cose simili di show meno apertamente politici, eppure pertinenti, come la magnifica sitcom Parks and Recreation (su cui trovate anche una puntata del podcast) o la satira scolastica di Ryan Murphy The Politician.
La distopia: Black Mirror, The Handmaid’s Tale
Allontanandoci narrativamente ma non concettualmente dalla Casa Bianca, pensiamo a Black Mirror. La serie antologica inglese, una riflessione distopica sulle implicazioni problematiche della tecnologia sulle nostre vite, offre in una puntata della seconda stagione (The Waldo Moment) un’interessante riflessione sullo stato della politica. Waldo è un orsetto blu digitale, animato in tempo reale da un aspirante comico semi fallito: si trova ad essere candidato, prima per scherzo e poi sul serio, nell’elezione per un seggio parlamentare. Partecipa a dibattiti e confronti, e cresce in popolarità.
Quasi una parodia in anticipo sui tempi (l’episodio è del 2013) dell’ascesa di Boris Johnson e di Donald Trump, politici antisistema e outsider capaci di sconvolgere, con grande astuzia comunicativa, il panorama istituzionale e sociale dei rispettivi paesi.
Credo legittimo definire almeno in parte politica anche la serie distopica per eccellenza del nostro tempo: The Handmaid’s Tale (2017 -), il racconto dell’ancella, basata sull’omonimo romanzo di Margaret Atwood del 1985. Sulle ceneri dei collassati Stati Uniti è sorto il regime teocratico di Gilead. Una scena memorabile mostra l’obelisco del Washington Monument trasformato in una gigantesca croce che domina il National Mall. Il crollo delle nascite ha prodotto un mondo in crisi, dove le donne capaci di avere figli vengono trasformate in ancelle e schiavizzate. L’intera società viene ricostruita attorno a loro, per sfruttarle come animali da riproduzione. Preziose, certo, ma solo finché sono utili alla società.
The Handmaid’s Tale (qui l’articolo) ci pone un interrogativo profondamente inquietante: cosa succede se la politica produce la distopia, cioè l’anti-utopia? Cosa succede quando la politica, in nome di un supposto bene comune, annichilisce l’individuo e lo riduce a mera funzione sociale? “Volevamo costruire – dice uno dei leader di Gilead – un mondo migliore. Ma migliore non vuol dire migliore per tutti”.
Il caso da manuale di The Boys: chi è il cattivo?
L’ultimo esempio che offro ci conduce nei terreni paludosi del fraintendimento, della grande confusione che domina il paesaggio informativo e cognitivo della politica del nostro tempo. In una società ipertribalizzata, è ovvio che il mio beniamino sia l’eroe positivo, e che gli avversari siano i cattivi. Fino a generare paradossi quasi irresistibili. È il caso della stagione 4 di The Boys (discussa estesamente nel podcast), che ha visto la vera e propria rivolta della destra americana contro una serie fino a quel momento popolarissima.
Perché? Perché rende qui violentemente esplicita la parodia radicale, persino urticante, del trumpismo (che ha sempre fatto). E lo fa in un anno elettorale (le presidenziali 2024) – tema affrontato esplicitamente dallo show. In una “realtà” segnata da una crescente tensione. Sfociata in un attentato a Trump, proprio nei giorni in cui The Boys 4 metteva in scena il suo complotto per uccidere il presidente eletto! Un sacco di fan dello show di destra, o semplici conservatori, hanno protestato in massa contro la nuova stagione. Sottoponendola a review bombing. E accusandola di essere diventata “woke”. Non solo: stracciandosi le vesti di fronte all’ormai innegabile evidenza che il proprio beniamino, Patriota (Homelander, un’evidente satira cupa di Superman), sia il villain, il cattivo dello show.
Sorprende, per la verità, la sorpresa. Dalla sua creazione nel 2019, The Boys è sempre stata una allegoria supereroistica su Trump, l’autoritarismo, il fanatismo politico, e l’inclinazione dell’America verso il fascismo. Lo showrunner, Eric Kripke, lo ha dichiarato chiaramente in diverse interviste: dicendo che Patriota è “sempre stato un’analogia di Trump” e che il parallelo doveva essere evidente, se non prima, almeno nella terza stagione, quella del 2022.
Ma per chi non voleva vedere, evidentemente, tre stagioni dello show non erano bastate…
Politica, complottismo, dietrologie
Facciamo sintesi. La politica viene mostrata ormai quasi sempre come predatoria, inscindibile dagli scandali, famelica, bulimica, nichilista, ossessionata dall’esercizio del potere. I leader politici o sono bugiardi, rapaci, cinici. O sono inetti, incompetenti, impotenti. O portatori di una volontà di controllo oppressiva e totalitaria. Nelle rare occasioni in cui sono “buoni” devono combattere contro un sottomondo politico intriso di marciume e corruzione, di cui dovranno in prima persona fare piazza pulita. Con l’ausilio solo di pochissime coraggiose figure oneste, che sono sempre e comunque “cittadini medi” chiamati a prendere le armi contro la tirannide e la grande Menzogna.
In questo scenario, cosa succede? Il complottismo e la fascinazione per dietrologie sempre più complesse e pervasive non sono più sintomi potenzialmente patologici. Ma, all’opposto, l’unico modo rimasto per poter discernere la verità nelle tenebre imposte dai grandi burattinai. Una dinamica già registrata popolarmente negli anni ‘90 da X-Files, come abbiamo raccontato qui.
Attenzione: quel che ho appena scritto non rappresenta il credo estremo di qualche gruppo o setta fringe di una certa sottocultura americana sotto steroidi. È un distillato molto neutro del modo in cui la cultura pop del nostro tempo rappresenta la politica. Nel cinema di consumo. Nella tv di massa. Questo è il messaggio a cui centinaia di milioni di persone sono, da anni e anni, costantemente esposte.
Trump, QAnon, e la follia degli ultimi anni
Questo è il terreno su cui è germinata la follia degli ultimi anni. Questo è il terreno da cui è emersa la pianta velenosa dell’insurrezione del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill. Non siete convinti? Ricordo: Trump ha iniziato la sua conquista del Partito Repubblicano alimentando e cavalcando la teoria cospirazionista su un Obama Presidente illegittimo perché nato fuori dagli Stati Uniti. Era una bufala, ma è diventata credo per decine di milioni di persone.
Ancora. QAnon, l’ancora più folle teoria del complotto secondo cui il mondo e in particolare gli USA sarebbero dominati da una rete di pedofili Democratici e liberal, totalmente infiltrati nel Deep State, al cui vertice ci sono Soros, i Clinton, Biden, e contro cui combatte solitario Donald Trump, è oggi politicamente rilevante. Per approfondire: abbiamo parlato del folle movimento qui, a proposito del documentario Q – Into the storm. Il primo post di “Q”, il sedicente funzionario governativo di alto rango che è anche il profeta della setta, è di ottobre 2017. In pochi anni milioni di persone si sono convinte che la cosa abbia un senso. Il movimento si è sposato alla campagna di Trump. Aderenti al demenziale culto sono stati eletti al Congresso.
Non basta? Decine di milioni di americani sono tuttora convinte che le elezioni presidenziali del 2020 siano state la più grande truffa della storia statunitense; che Biden sia un Presidente illegittimo; che Trump sia stato defraudato di una vittoria “a valanga”, e loro con lui. Il tutto ad opera dei politici corrotti e delle loro macchinazioni.
Politica dark: dalla finzione alla realtà
L’implicazione di tutto questo ragionamento dovrebbe essere ormai evidente. Decenni di rappresentazione dark della politica hanno contribuito a renderla paranoica. A far crescere a dismisura le teorie del complotto. A rendere le dietrologie appetibili, e plausibili. Fino a generare conseguenze estreme. Soprattutto: conseguenze reali.
Non siete convinti che l’immaginario abbia questo potere sulla realtà? Riflettete su questo. Distinguere il vero dal falso è sempre più difficile nel mondo magmatico, disintermediato, tribalizzato, diffidente, rancoroso, paranoico di oggi. E la democrazia non è come la fisica newtoniana. Assomiglia più alla religione: funziona solo finché ci crediamo.
E parecchie persone, oggi, hanno iniziato a credere in un’altra cosa. Non perché un telefilm lo abbia detto: ma perché tutti coloro nei quali avevano fiducia – l’antisistema Trump, un predicatore online, l’amico del bar, la tv – hanno raccontato loro che la realtà della politica era proprio come, dopo decenni di film e show, si aspettavano che fosse. In tutto il suo orrore, in tutta la sua corruzione. In tutta la sua semplicità.
Era incontrovertibile, solida, certa. Facile da inquadrare e assimilare. Proprio come uno serie televisiva.
Un’altra riflessione tra finzione e realtà: X-Files e la popolarizzazione della paranoia
X-Files compie 30 anni: popolarizzò paranoia e complotti in tv
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Questo articolo è stato pubblicato inizialmente, e in una versione precedente, su Doppiozero il 20 gennaio 2021, qui.