“Mi eccita tenere in mano gli organi interni delle persone”, confessa allo psichiatra Jeffrey Dahmer, magnificamente interpretato da Evan Peters nella miniserie Dahmer (10 episodi, Netflix, 2022). “Si chiama splanchnophilia” risponde lo psichiatra. “Avviene quando qualcuno trova sessualmente attraenti le viscere e gli organi.”
Questo tipo di eccitamento accade raramente nell’umano, e splanchnophilia è un termine poco utilizzato. Ma nel caso di Jeffrey Dahmer, serial killer realmente esistito, che tra il 1978 e il 1991 uccise 17 uomini, questa parola calza a pennello. Dahmer uccideva per poi godere degli organi interni delle sue vittime, arrivando spesso a mangiarsele. Necrofilo, cannibale e feticista (conservava parti dei corpi assassinati nel suo appartamento) ha terrorizzato e affascinato l’America per decenni.
Il caso Dahmer è stato già ampiamente trattato nel cinema. Rispolverandolo, però, Ryan Murphy (creatore della miniserie assieme a Ian Brennan, nonché di diversi show di cui abbiamo scritto qui: tra questi Nip/Tuck, Ratched, Hollywood) fa di nuovo centro. Nonostante una pubblicità limitata, Dahmer per Netflix registra un altissimo audience fin dai primi giorni. Divenendo la serie più vista della piattaforma a livello globale. Complici l’ottimo cast e la musica di Nick Cave e Warren Ellis, fino all’inquietante (e splendida) sigla di chiusura.
Dopo i primi cinque episodi angoscianti, dove sprofondiamo nella mente del serial killer, spaziando tra i suoi omicidi, l’infanzia tormentata e l’incarcerazione, dall’episodio 6 cominciamo a conoscere meglio le sue vittime. In particolare un giovane ragazzo sordo, Tony Hughes (interpretato da Rodney Burford) che dopo una brevissima relazione -felice- con Dahmer viene massacrato come gli altri. E poi congelato in freezer, cucinato e mangiato.
https://youtu.be/NVHHs-xllqo
Un serial killer tra miseria, ingiustizie, razzismo
Nonostante la serie si prenda diverse libertà, riporta fedelmente molti fatti, utilizzando materiali d’archivio. Tra cui le telefonate realmente fatte dai vicini, esasperati dai rumori e dagli “odori”.
Straziante il capitolo su Konerak Sinthasomphone, un ragazzino di 14 anni che Dahmer era riuscito ad attirare in casa. Dopo averlo drogato e lobotomizzato trapanandogli il cervello e inserendo nel buco fatto in testa dell’acido idroclorico, Dahmer l’aveva lasciato agonizzante assieme al cadavere di un altro uomo massacrato tre giorni prima ed era uscito a bere al bar sotto casa.
Il povero ragazzo nel frattempo era riuscito a scappare: viene trovato dalle vicine in stato di shock (perdeva sangue dai genitali e dall’ano, nonché dalla testa). Preoccupatissime, chiamano la polizia. Due poliziotti arrivano, recalcitranti. L’edificio e il quartiere sono abitati da gente di colore, perlopiù povera. Pochi bianchi e tanta delinquenza. La polizia non ama andare in quei posti, pieni di guai. Ma la vicina al telefono insiste talmente che alla fine arrivano. Fatalità, nello stesso momento in cui Jeffrey rientra dalla sua bevuta.
Guardano l’adolescente mezzo morto sul pavimento dell’edificio e… non fanno nulla! Dahmer si giustifica dicendo che quello è il suo ragazzo e che ha un grave problema di alcol e droghe. Lo tira su, dicendo che fa così ogni sera. I poliziotti li accompagnano nell’appartamento, dove sentono uno strano odore (c’è un cadavere in decomposizione infatti), ma, senza guardarsi troppo intorno, archiviano la cosa come “lite di coppia”. Lasciano Dahmer “prendersi cura” del suo ragazzo (sì: take care of him), girano i tacchi e se ne vanno.
Dahmer: la storia di un mostro e delle sue vittime
Dopo quell’episodio Dahmer ucciderà ancora e ancora. Le successive innumerevoli chiamate della vicina disperata rimarranno inascoltate. E anche dopo il suo arresto le famiglie delle vittime non verranno prese in considerazione, se non il minimo indispensabile a livello legale.
Dahmer di Murphy non è solo la storia del mostro, ma anche quella delle vittime. E l’equilibrio della narrazione rende possibile oscillare dall’uno alle altre, con una naturale propensione per la sofferenza delle famiglie. In particolare si insiste sull’inefficienza del corpo di polizia nei quartieri disagiati. Chiaramente Dahmer aveva deciso di andare a vivere in quel posto per agire indisturbato. Bianco in un quartiere di afro-latini, godeva di una certa immunità anche agli occhi della legge. Inoltre sceglieva quasi sempre come vittime ragazzi di colore, oppure figli di immigrati, pronti a prostituirsi per due soldi.
Lui è un mostro, d’accordo. Ma l’interpretazione “dolce”, quasi remissiva di Evan Peters ci fa vedere qualcuno di diverso dal solito psicopatico confuso: Dahmer è convinto di essere cattivo. “Non sono pazzo, ho fatto tutto lucidamente. Voglio la sedia elettrica”, dichiarerà più volte. La sua supponenza ricorda quella di Alex di Arancia Meccanica: nato cattivo, ha agito da cattivo per tutta la vita. Senza per forza volerlo. A sentir lui, ha accettato il suo destino.
Non c’era nulla da fare. Non era mai riuscito ad avere un’erezione fino a che, adolescente, non ha tenuto in mano le viscere palpitanti di un pesce. Lì capisce la sua passione. Cerca di non cadere in tentazione e dopo il primo omicidio ‘accidentale’ compiuto a soli 18 anni, si astiene per molto tempo. Cercavo di rigare dritto, confessa. Poi scatta l’impulso omicida seriale, irrefrenabile.
“Come può mio figlio aver fatto questo?”
Quando viene catturato, non protesta. E non mente. Confessa tutti i suoi delitti senza tralasciare nulla. Durante il processo e in carcere mantiene sempre la calma. Ha un distacco permanente da tutto ciò che non sono gli organi sanguinanti delle sue vittime. Il resto del mondo, eccetto l’alcol, non provoca in lui nessun interesse. È però contento di ricevere le lettere dei suoi fan in carcere: in poco tempo la sua fama di cannibale si è sparsa per tutta l’America.
La sua storia si diffonde subito dopo l’arresto. Si elucubra sulla sua infanzia, si scava nel passato della famiglia. Fin da piccolo è affascinato alla dissezione e alla tassidermia degli animali, passione che suo padre incoraggia. “Cercavo di trovargli una motivazione nella vita, sembrava fosse l’unica cosa in grado di risvegliare la sua curiosità”. Già. Nella vita come nella serie il padre Lionel Dahmer (Richard Jenkins) è ossessionato prima dalle stranezze e dagli insuccessi del figlio e poi dai suoi omicidi.
“Come può mio figlio aver fatto questo, e più volte? Dove ho sbagliato, cosa è successo? Sono state le pillole antidepressive che prendeva sua madre in gravidanza, oppure l’anestesia subita dal ragazzino in seguito ad un’operazione? Oppure proprio questa passione per la tassidermia e la dissezione degli animali che IO gli ho trasmesso?”
Il padre di Dahmer scriverà anche un libro (Storia di un padre) ponendosi tutte queste domande. Comprensibile!
Cosa passava per la mente di Jeffrey Dahmer?
Tutti noi vorremmo capire cosa fa scattare l’impulso omicida (come in Dexter), cannibale (come in Hannibal), necrofilo (come in Mindhunter) in molti serial killer. La letteratura e il cinema sono devoti a questo tema da sempre (qui abbiamo raccontato la nascita della figura del serial killer tra tv e grande schermo).
Eppure, nessuno è mai riuscito a capire cosa passasse veramente nella testa di Jeffrey Dahmer. A quanto pare non ha aperto bocca neppure quando è stato ucciso a sprangate in carcere. Non ha urlato né protestato.
Era il Male incarnato? Lui stesso arrivava a chiederselo continuamente.
Al suo arresto nel 1991 sono stati trovati i disegni e i primi rudimenti del Grande Altare che stava costruendo nel suo appartamento. Il “progetto” era già in parte ricoperto delle ossa e della pelle delle sue vittime.
“Se arrivavate tra sei mesi lo avreste trovato finito”, dice ai poliziotti con un certo dispiacere. Quando gli viene chiesto a chi era dedicato lui risponde serenamente: “A me stesso. Ho inventato un posto dove posso sentirmi a casa e meditare in tranquillità.”
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