“Il male è già nel bene”. E’ in questo apoftegma che la serie tedesca Beat (Prime Video, 2018, 7 episodi) condensa il suo significato nient’affatto recondito, anzi teutonicamente enunciato come una verità dichiarata, cristallina, metafisica. I tedeschi, tendenti all’estremo in tutto, o fanno così, alla Hegel o alla Kant, che enucleavavo e spiegavano privi di sfumature, oppure procedono per tortuose illuminazioni avvolte dall’ambiguità, à la Nietzsche. In ogni caso la portata filosofica ce la mettono spesso e volentieri (vedi Dark, oppure, sia pur seguendo un mood da romanzo storico, Babylon Berlin, entrambe perle di straordinaria raffinatezza, persino un po’ troppa).
Di cosa parla Beat, e come lo fa
Come si conviene nei mondi alternativi alla banale normalità, nella quale ognuno ha solo il proprio nome e cognome, Beat è il soprannome, il vero nome di Robert Schlag (Jannis Niewöhner, una scoperta), eroe giovane e bello della Berlino techno, primo promoter della scena locale e tossico della porta accanto, occhi di scintillante chiarore e aria stazzonata da nemico della giornata circadiana, tanto immerso nella notte quanto spaesato di giorno.
Di personaggi di tal fatta, che vivono al contrario, cercando nell’esasperazione del battito cardiaco (beat, appunto) il senso di libertà, ce n’è a pacchi, nel giro dei club per nottambuli assatanati. Quello in cui lui lavora come socio di Paul (Hanno Koffler, più adulto e padre di famiglia, ma anche più debole e ingenuo) è una mecca che soddisfa tutti i gusti: non soltanto la frenesia senza orari, non soltanto le droghe assortite consumate ovunque, ma anche sesso tuttifrutti, prostituzione, perversioni a piacere.
Lo sguardo della regia (di Marco Kreuzpaintner, apprezzatissimo sceneggiatore di Lui è tornato) non indugia troppo nei particolari, preferendo muoversi, almeno nelle inquadrature, con fare distaccato, come a voler appaiare e omologare ogni tipo di situazione, anche la più scontata o la più violenta, in un flusso continuo, piano, piatto. Male e bene intrecciati, si diceva infatti.
Diverso l’uso delle luci e dei colori: freddi, morbidi, distensivi, autunnali nella superficie di lassù, ove domina la calma laboriosa; caldi, accecanti, elettrizzati dal neon, assediati dal buio nel cosmo delirante di sotto. Contrasto netto ed efficace, che allude al rovesciamento di fondo: è nell’universo dei vivi lavoro-casa-figli che si nascondono la morte, il terrore, l’orrore, mentre in basso sono possibili, naturalmente come illusione rituale, una purezza senza tempo, l’innocenza della danza, l’uguaglianza nei vizi incolpevoli, l’ebbrezza liberata da pensieri e retropensieri.
La discesa agli inferi di Beat, tra Dismisura e ambivalenza
Tuttavia nel bene, o apparente tale, del tunz-tunz da sballo si insinua il male, il male totale: l’omicidio. Da un corpo smembrato appeso al soffitto della pista da ballo inizia un crime drama dalla trama fittissima e ben congegnata (qualche criticone ha lanciato l’accusa di eccessivo accumulo, ma è proprio l’eccesso, la Dismisura, il nume tutelare dell’intera vicenda).
Il filo conduttore è il protagonista, attorno al quale tutto ruota e tutto assume una direzione ben precisa: la discesa agli inferi del passato di un ragazzo abbandonato dai genitori (per motivi diremmo storico-politici, ma non spoileriamo) che ha dovuto abbracciare la via dionisiaca, sofferta e destituita di speranza, pur di sopravvivere a un’assenza primigenia: l’amore materno (e paterno).
Scoprirà quasi tutto ciò che deve sapere, alla fine del suo viaggio dentro il male. Ma lo farà, come sempre accade, a prezzo di atroci perdite, a cominciare dal suo fratello minore acquisito, il giovanissimo efebico pupillo, inghiottito da un affetto momentaneo individuato là dove sta il maggior pericolo.
L’ambivalenza, il tema del doppio, si ripropone incessantemente. Doppio è il suo alter ego Jasper Hoff (interpretato da uno stralunato, grottescamente didascalico Kostja Ullmann), vittima e carnefice allo stesso tempo, speculare a Beat perchè identico all’origine e opposto nell’esito di una vita sprecata, rosa dall’autodistruttività. Maschera molto stilizzata ma indovinatissima, quest’ultima, nell’economia del testo, funzionale a incarnare ciò che Beat poteva essere ma non è diventato: poter contare su una figura paterna ma inadeguata, come è stato per Jasper, può tradursi in una condizione ancora più degradante di non averne mai avuta neppure mezza.
Caratteri scolpiti, un chiaroscuro nettissimo, inquietanti doppi
Inquietanti contorni da doppelgänger si trovano anche in Philipp Vossberg (quel marcantonio di Alexander Fehling, che sembra uscito da Olympia della Riefenstahl), l’antagonista. Cattivo che è davvero cattivo, prigioniero totale e senza ritorno di un’anaffettività dura come il marmo, questo ricco angelo del nichilismo dove arriva miete come la falce: inquina amicizie, ricatta moralmente e corrompe persone perbene, supera in malvagità efferati delinquenti di professione, devasta tutto ciò che tocca. Mente di un traffico dei più abietti, finirà come ci si aspetta e non come sarebbe stato più azzeccato finisse, vale a dire come il dostoevskjiano Stavrogin, finendosi da sè.
Nel finale, diciamolo, la sceneggiatura ci cade nel didattico. Bisogna però sottolineare che i caratteri sono scolpiti in equa misura in modo trasparente, perchè a dettarlo era la scelta fondamentale di rendere evidente e immediatamente percepibile ciascun passaggio, senza nessun sostanziale coup de théâtre. Il chiaroscuro, qui, o è chiaro o è scuro, ma è nel sistematico compenetrarsi dei due toni che lo si afferra come un unicum. Lo si vede bene nella sotto-storia del medico seviziatore, tutt’altro che un Mengele (il magnifico Karl Markovics, una spanna sopra a tutti), un buono che conoscerà i suoi bravi e ovvi rimorsi e tenterà, come da fabula edificante, di salvare il fatale bambino – ennesimo doppio di Beat – e salvarsi l’anima.
Le presenze femminili non mancano, ma non scocca alcuna scintilla, nel cuore tachicardico di un Beat ambisessuale preda di contraddizioni e convulsioni e troppo preso dalla ricerca di sè. Servono più a svelargli le sue parti mancanti (la nonna, evocatrice della madre svanita nel nulla; Emilia, la dolce Karoline Herfurth, agente segreta che gli mostra il lato positivo, d’aiuto, della Legge e Ordine rappresentati ambiguamente da Richard Diemer, il Christian Berkel divenuto famoso con l’uniforme da nazista in Bastardi senza gloria e Operazione Valchiria).
Beat: una chicca che meriterebbe un seguito
Azione, dramma psicologico, noir: c’è di tutto un po’, in questa chicca che meriterebbe un seguito, tra incantevoli sfondi berlinesi e atmosfere claustrofobiche. Purché non smarrisca per strada la fonte bruciante del suo marchio: l’oscillare tragico, non moralistico, fra bene e male, fra misura e sfrenatezza, fra istinto di vita e istinto di morte.
“Un volo oltre ogni limite. Una vita sotto un raggio di luce. Questo sono io, Beat”: così l’Icaro degli ipnotizzanti bassifondi di una grande Germania da godere.
Nella capitale tedesca è ambientata anche Babylon Berlin, di cui parliamo qui.