Solo in uno sciagurato Paese come il nostro un eccitante, raffinato, imperdibile masterpiece come Babylon Berlin (dal 2017 su Sky, in chiaro dal 2019 su Rai 4) può essere sminuito in un mortificante sabato sera alle 23:30. Quando la gente ben nata, che sa vivere, è fuori di casa a godersi quel poco di vita sociale che ancora ci è concessa.
Con questa serie tedesca, tedeschissima nella concezione e nella confezione, la più costosa della storia dei serial germanici (40 milioni di euro), siamo di fronte a una riuscitissima composizione di arte, storia e, potremmo dire, psicanalisi del tormento da grande potenza che affligge il subconscio dell’ex Reich.
Di cosa parla Babylon Berlin
Anzitutto, la scelta dell’ambientazione temporale: il tramonto dei ruggenti anni ’20. Quando Berlino era il fiore all’occhiello di quella Repubblica di Weimar molto avanzata nei diritti politici (la Costituzione weimariana era la più democratica del mondo) e soprattutto nei costumi e nella cultura di massa (fu proprio nella capitale che il sessuologo Magnus Hirschfeld fondò l’Istituto per la Ricerca Sessuale elaborando la teoria del “terzo sesso”, pura dinamite per le convinzioni maschiliste e omofobe dell’epoca).
Centro attrattore di Babylon Berlin è infatti il Moka Efti, locale dove si respira l’aria di libertà di divertimento e accoppiamento che oggi ricordiamo con un velo di tristezza, pensando alla successiva morsa del moralismo nazista che vi pose brutalmente fine nel breve volgere di pochi mesi, nel fatidico 1933. Qui nottetempo lavora come prostituta d’alto bordo la co-protagonista, la dolce e risoluta Charlotte, di giorno dattilografa alla sezione omicidi in trincea per la sopravvivenza materiale. Esattamente come molti concittadini che di lì a poco diverranno milioni e milioni di affamati, dopo il cataclisma del “Venerdì nero” di Wall Street, il 29 ottobre 1929.
Ed è alla questura berlinese che viene trasferito da Colonia un giovane investigatore di razza, il protagonista Gereon Rath, spedito a far luce sull’omicidio di un’attrice che lo introdurrà nel mondo, magico e inquietante, del cinema tardo-espressionista tedesco. Il poliziesco a foschissime tinte noir si intreccia con la spy story di un misterioso carico di gas nervino che coinvolge una cellula trotskista russa che, ovviamente, vorrebbe far la pelle a Stalin. Non senza mettere in mezzo un complotto dell’estrema destra reazionaria di generali e industriali, fra questi ultimi incluso un fragile e insicuro Alfred Nyssen, calco di quel Fritz Thyssen che sarà uno dei main sponsor del partito nazista.
Un racconto complesso e perfetto, come l’affresco della Repubblica di Weimar
Il racconto di Babylon Berlin è talmente colmo di ingranaggi narrativi, rovesciamenti, colpi di teatro che ci voleva davvero poco, per gli sceneggiatori, a scivolare e rendere la trama un groviglio da mal di testa automatico. Invece no: ogni tassello si incastra alla perfezione con il successivo. E ogni personaggio, ottimamente delineato, ha la sua giusta collocazione, in una galleria intarsiata di citazioni che non fanno mai sbottare anche l’occhio più filologicamente severo. A un certo punto, per esempio, salta fuori una camicia bruna, uno squadrista nazionalsocialista che presenta tutti i connotati di quell’Horst Wessel, reietto comune abitante in regolare squallida e laida stanzetta, che fu il martire per antonomasia della “rivoluzione” hitleriana, tanto da fornire il nome all’inno che diventerà poi quello ufficiale della Germania (dopo, s’intende, la classica Deutschland über alles).
Il pregio più terrificantemente centrato della Berlino tratta dai romanzi di Volker Kutscher è infatti l’abilità nel tenere costantemente sullo sfondo, ma uno sfondo prominente, avvolgente, da suspense, il contesto politico e sociale.
Miseria, economica e morale. Atmosfera greve da violenza di strada (in cui rossi e bruni si confondono, a volte letteralmente, e questo fa capire quanto il brodo di coltura del nazismo fosse la frustrazione sovversiva, senza la quale i marchi dei Thyssen non avrebbero combinato molto). L’antisemitismo già molto diffuso (il questore ebreo Benda assassinato su commissione di un rivale altolocato e formalmente rispettabilissimo, l’anima nera Wendt, simbolo vivente della borghesia che credette di usare i nazisti finendone invece usata). Il disagio acutissimo lasciato dalla Grande Guerra (Rath stesso, ex reduce traumatizzato, mantiene la lucidità grazie a robuste iniezioni di morfina e agli esperimento di ipnosi di un dottore dall’identità rilevatrice).
L’ombra della svastica e il sogno dell’impero
Un tutt’unico rigorosamente in abiti e ricostruzioni stilisticamente impeccabili che avvince lo spettatore anche se nulla dovesse sapere di quel periodo di transizione che andrebbe studiato meglio, a cominciare dai banchi di scuola. In quanto – se l’historia è, teoricamente, magistra vitae – incubatore del drago che strisciava nelle profondità di Babilonia: la svastica. Che venne issata al potere non da colpi di Stato o trame di parrucconi nostalgici del Kaiser, ma dal voto e dall’adesione crescente di tedeschi comuni, con famiglie comuni, con facce comuni e con sofferenze e impoverimento comuni.
Come il poliziotto Wolter, normalissimo e bonario ma al tempo stesso fanatico nazionalista. Come un altro picchiatore delle SA che finirà trucidato a sangue freddo, conosciuto in prima battuta come un qualsiasi ragazzo amante dei bagni nel lago dove si innamorerà, o fingerà di innamorarsi, di una commovente Greta, comunista quasi per caso, capro espiatorio designato per una esecuzione capitale particolarmente barbara, a colpi di accetta, come usava allora. O come il figlio neanche adolescente di Rath, che per sottovalutazione dei genitori finisce nelle file della Gioventù Hitleriana, ancora somigliante più a un gruppo di boy scout dediti alle scampagnate che alla futura macchina di educazione ideologica del nuovo regime alle porte.
Non crediamo di azzardare troppo se interpretiamo il fulmicotonico itinerario nel torbido di Babylon Berlin come un’inchiesta di enorme livello narrativo sui motivi che hanno portato un popolo all’avanguardia come quello tedesco (giunto perfino a sdoganare, almeno nelle enclave come Berlino, il tabù dell’omosessualità), ad abbracciare poi, e con entusiasmo, il sogno megalomane dell’Impero millenario. Dandosi con la solita efficienza al sangue, ai lager e alla conquista militare dell’Europa.
La quarta stagione di Babylon Berlin, in arrivo
Non sappiamo cosa ci riserverà la quarta stagione di Babylon Berlin, in uscita nel 2022. Ma per l’intanto possiamo ricordare così, a mo’ di spunto, quel che avrebbe scritto anni dopo un inglese che di totalitarismo avrebbe dimostrato di intendersene. George Orwell, autore di 1984, di contro alle letture riduttiviste di destra e soprattutto di sinistra che mostrificavano Hitler e morta lì, spiegò la malìa fascinatrice del dittatore con il bisogno di eroismo, di sacrificio, di grandezza, sia pur distorta, cioè di quella volontà di potere e sopraffazione che alberga potenzialmente in chiunque, anche nell’ominicchio mite e indifeso come anche nell’edonista più dissoluto.
Quell’arcaica necessità di obbedire a un capo per riuscire, grazie a Lui, a comandare via via sui nemici della porta accanto, sugli stranieri, sugli “inferiori” e su tutti coloro la cui esistenza non è ammissibile per il trionfo della propria egoistica volontà. E Triumph des Willens si intitolerà infatti il filmone (perché è un gran film, non si discute) con cui il nazismo vittorioso celebrerà se stesso, in un’orgia di parate, discorsi, torce e rauchi appelli alla ferocia, quando il tragitto all’inferno sarà compiuto.
Vale a dire solo cinque anni dopo le vicende tumultuose di questa Babylon Berlin che avrebbe meritato la prima serata secca su una delle tre reti principali, se non avessimo lo scadente servizio pubblico che invece ci tocca subire.
Un altro noir ambientato a Berlino: Beat, di cui abbiamo scritto qui.