American Vandal è una serie mockumentary ovviamente USA (Netflix, 2017-2018) in due stagioni da 8 episodi. Gli autori sono Tony Yacenda (che firma anche la regia di tutti gli episodi) e Dan Perrault – coppia con all’attivo alcuni corti per il sito Funny or Die -, con Dan Lagana nelle vesti di showrunner. Nel 2018, nonostante due candidature ai Critics’ Choice Award e una nomination all’Emmy per la miglior sceneggiatura, Netflix ha cancellato la brillante serie – da allora alla ricerca di altre reti.
Il mockumentary (da ‘to mock’ fare il verso) è in sostanza una finzione documentaristica. Genere sfuggente e poco frequentato nel mondo del cinema (su tutti Zelig di Woody Allen) e seriale (What We Do in the Shadows), il mockumentary è in grado di toccare strabilianti vertici di connubio realtà-finzione. Come nell’impareggiabile film di Casey Affleck del 2010 I’m Still Here, mockumentary sui generis con un inenarrabile Joaquin Phoenix – che prese per i fondelli Hollywood e compagnia bella per oltre un anno. O più semplicemente come nel celeberrimo mock seriale The Office, la cui narrazione si svolge attraverso delle finte riprese per un improbabile documentario.
Nel panorama streaming dell’ultimo periodo particolare fortuna ha avuto il format documentaristico true crime, con titoli come The Jinx (HBO) e Making a Murderer (Netflix). E proprio a quest’ultimo in parte si ispira l’intelligente e sofisticato (oscenità a parte) American Vandal, a metà tra satira parodistica e reinvenzione tout court del genere true crime (genere a cui abbiamo dedicato anche un podcast).
Il concept è dunque quello della (finta) documentazione di una vera e propria indagine scolastica in progress, parodiando lo stile true crime. Con l’obiettivo di scagionare un innocente ingiustamente accusato, trovando il vero colpevole del crimine (che poi è un atto vandalico). Questa la premessa di uno show realizzato con attori molto giovani e poco conosciuti, e con un budget assai ridotto (almeno per la prima stagione). Il cui orizzonte narrativo è però, almeno in apparenza, totalmente demenziale. Con tanto di – e tanti! – peni al seguito.
La prima stagione di American Vandal
Il 15 marzo 2016, alla Hanover High School, il liceo locale di Oceanside in California, vengono rinvenuti nel parcheggio dell’istituto 27 grandi peni, realizzati con una bomboletta spray e adornanti altrettante auto del corpo insegnanti. I video della telecamera di sicurezza sono stati cancellati. I danni ammontano a circa 100.000$. Il consiglio scolastico non ha dubbi: il colpevole è Dylan Maxwell, il buffone della scuola già noto per simili bravate infantili. A suo carico la testimonianza di un altro studente, che dice di averlo visto sul luogo del delitto.
Nonostante il ragazzo continui a proclamarsi innocente, la dirigenza scolastica vota all’unanimità per l’espulsione, oltre che per il risarcimento dei danni. Il futuro di Dylan sembra segnato. Ma due studenti non sono del tutto convinti della sua colpevolezza e decidono di indagare. Sono Peter Maldonado, il conduttore del telegiornale scolastico, e l’amico Sam Ecklund, aspiranti film maker che corrispondono perfettamente alla tipologia del nerd sfigato.
L’insolito atto vandalico li spinge quindi a girare un documentario in stile true crime, che segua la loro indagine per scagionare Maxwell e scoprire il vero colpevole. Who drew the dicks? Chi ha disegnato i peni? Questa la domanda chiave degli otto episodi, di circa 30 minuti l’uno, che costituiscono l’opera di Peter e Sam. Ovvero la stessa prima stagione di American Vandal.
Discorsi metanarrativi e cazzi ovunque
Partendo dalla premessa che Dylan è in effetti il perfetto capro espiatorio, causa il suo debole per le cretinate e la sua abitudine a disegnare cazzi ovunque, sono diversi i punti che non tornano nell’accusa. Come i peli che lui disegna sempre sulle palle dei suoi fallici ritratti, peli che mancano invece sui disegni incriminati. O come la dubbia integrità di Alex Trimboli, il testimone chiave: per smontare questo teste vengono riportate – e minuziosamente analizzate – altre sue dichiarazioni. Come quella sulla sega che gli avrebbe fatto Sara Pearson, la ragazza più attraente e popolare del liceo. O come la sua mitica ubriacatura a una festa alcolica di poco tempo addietro. Tutte versioni che vengono impietosamente smontate, con tanto di schemi e grafici esplicativi (sic).
Se vi sembrerà una perfetta parodia del true crime (Making a Murderer et similia), è perché lo è. Anche se qui il reato in questione è un atto di vandalismo fallomaniacale. Ma attenzione, la narrazione di American Vandal funziona proprio perché il genere in questione viene rispettato fin nei minimi dettagli, a discapito dell’idiozia della materia di partenza. A discapito anche dell’idiota di partenza, ovvero l’accusato: uno che adora vestirsi da suora, ingroppare gli alberi e (oh god) scoreggiare dentro le culle dei neonati…
Eppure la stessa vicenda di Dylan ci racconta in fondo la storia di migliaia di altri buffoni della scuola, incastrati in un ruolo che hanno sicuramente contribuito loro stessi per primi a creare, non avendo poi avuto più la forza di ribaltare. La serie è anche un viaggio dentro le apparenze e la verità di un adolescente che ama mostrarsi agli altri nelle vesti di stupido pagliaccio. In questo senso American Vandal apre diversi altri seri discorsi sull’adolescenza in seno alla narrazione. Assieme ad altri discorsi, come dire, più metanarrativi.
American Vandal: who drew the dicks?
Vero che la prima metà della stagione, proprio per la volontà di aderire fedelmente al genere di riferimento, può essere un po’ macchinosa, talvolta addirittura ripetitiva. Moventi, alibi e testimonianze di tutti coloro – studenti o insegnanti – che possono aver giocato un ruolo nella vicenda, vengono minuziosamente catalogati e confrontati. Alla ricerca di un indizio, una contraddizione, un je ne sais pas. La stessa informazione viene quindi data in voice over, attraverso un’intervista e mostrata anche con un grafico. Ridondante – ma una volta che il gioco ingrana, American Vandal decolla. Dimostrandosi ben più che un volgare mockumentary che ha ‘cazzo’ (dick) come parola chiave, e in “who drew the dicks?” la domanda fondamentale.
Perché questa originale docuserie è anche un teen drama, che al tempo concorreva con un’altra serie teen drammatica di successo: 13 Reasons Why (Netflix, 2017). Certo, la storia di Dylan è comica e grottescamente surreale. Eppure è un prisma attraverso cui il mondo scolastico teen viene descritto con grande realismo. Satira e goliardia si alternano ad un registro drammatico nelle cui venature scorrono le note dinamiche pregiudiziali assieme alle tensioni più o meno latenti insite nel corpo studentesco. Rivalità, gelosie, ipocrisia si nascondono nei riti collettivi e nelle elaborate gerarchie del microcosmo scolastico.
Si passa da coloro che mentono per essere popolari agli attivisti ottusi ad oltranza, dalle solite tresche sessuali al puro ‘nerdame’ (Peter e Sam non sono esenti dalla loro stessa indagine). Fino a giungere ai punti di vista umani troppo umani di professori e presidenza. E l’analisi di questo crudele mondo teen va di pari passo con le false piste, le rivelazioni scioccanti e i colpi di scena di un giallo coinvolgente e ben calcolato.
Lo sdoppiamento digitale e la mise en abyme
Appurata dunque la duplice natura dell’inchiesta di American Vandal – quella sull’adolescenza patologica e who drew the dicks? – torniamo ora al suo aspetto principale: quello di essere innanzitutto un mockumentary. Perché non va dimenticato che qui sono tutti attori: Peter Maldonado (Tony Alvarez, Orange is the New Black), Sam Ecklund (Griffin Gluck) e financo Dylan Maxwell (Jimmy Tatro). Nei titoli di testa si ringrazia persino l’inesistente Hanover High School TV Department! Eppure tutto scorre così fluidamente da sembrare dannatamente reale. Tutto talmente assurdo che deve essere reale, perché a nessuno verrebbe mai in mente di girare una cosa del genere! E invece…
American Vandal riesce anche nell’intento di simulare un’investigazione, riuscendo sempre a mantenere un intrigante equilibrio. Tanto che ci si può smarrire tra le finte interviste, le assurde dichiarazioni e le ricostruzioni professionali totalmente fuori luogo rispetto al crimine – l’atto vandalico – che si vuole risolvere. Senza dimenticare lo sdoppiamento digitale proprio del mondo social, dove il privato è pubblico, con tutti i suoi pericoli ed effetti collaterali. Nemmeno il potenziale impatto che questo genere di produzioni documentaristiche ha con la realtà (vedi ancora Making a Murderer) viene dimenticato. L’indagine che i protagonisti portano avanti si inserisce ad un certo punto nella narrazione stessa di American Vandal. Diventando così oggetto e soggetto capace di influenzare direttamente lo sviluppo del plot.
Questi ultimi due aspetti, il mondo social e la mise en abyme della serie, verranno ripresi e ampliati nella seconda folle stagione. Riassumendo: American Vandal è un finto documentario girato da finti filmmaker che racconta di un finto crimine vandalico avvenuto in una finta scuola con finti studenti. Il tutto spacciato come assolutamente vero.
American Vandal S2: St. Bernardine Catholic High School
L’anno successivo (2018) l’ambiziosa serie ritorna con la seconda stagione. La formula è sostanzialmente la stessa, a partire dalla coppia di protagonisti – Peter Maldonado e Sam Ecklund. Il loro American Vandal ha riscosso un enorme successo, addirittura nel circuito nazionale!, tanto che Netflix ha deciso di acquistarne i diritti, modificarlo e pubblicarlo nella sua piattaforma (qui siamo nella realtà o nella finzione?). Decidendo altresì di produrre una seconda stagione (naturalmente nella finzione! ma il confine è sottile…)..
Questo fantastico gioco metanarrativo introduttivo giustifica e introduce la miriade di richieste che pervengono ai due, perché indaghino sui casi più disparati (tra queste, un reale caso di omicidio!). Viene scelto il turpe mistero della St. Bernardine Catholic High School di Bellevue, Seattle (stato di Washington), dove i giovani investigatori filmmaker si recano in trasferta. Lo scandaloso e oltraggioso evento consumatosi nella scuola cattolica privata è tristemente noto come il ‘Brownout’. Di cui ci limiteremo a dire che un potente lassativo messo di nascosto nella limonata ha innescato una catastrofe fecale senza precedenti.
Opera di un criminale che si firma The Turd Burglar (nella versione italiana, il Bandito della Cacca), rivendicando fieramente su Instagram i diversi attentati. Perché questo misterioso copromaniaco tormenterà il liceo, arrivando ad attribuirsi ben tre distinti atti vandalici. Tutti di natura squisitamente scatologica. In American Vandal S2 l’atmosfera delittuosa è ancora più triviale e grottesca che in S1, ma ora in gioco non c’è solo il destino di uno studente, bensì il buon nome di tutto uno storico istituto (che ricordiamo essere un liceo cattolico privato).
Chi è il Bandito della Cacca?
Rispetto alla stagione precedente i social media sono ora ancora più centrali per l’indagine. A tal proposito, Peter dirà: “Noi siamo la prima generazione di persone che vivono due volte”. Come in S1, un delicatissimo e sempre precario equilibrio tra forma e contenuto permette di non trasformare in caricature i protagonisti. Che in questo caso sono l’introverso e bullizzato studente Kevin McClain (Travis Tope) e la star del basket (la cui squadra è da tempo immemore argomento di vanto per il liceo) DeMarcus (Melvin Gregg).
Il primo si era autoaccusato del gravissimo atto vandalico (40 persone defecatesi addosso in un inedito ‘flash mob fecale’), salvo poi ritrattare la confessione. Sul secondo, invece, puntano diversi indizi. Ma seguono altri due orribili attentati all’happening dell’incontinenza. E i registi di American Vandal (sia reali sia immaginari) si impegnano moltissimo per comprendere le motivazioni di tanta scherzosa depravazione fecale. Il Bandito della Cacca scatena un vero e proprio inferno escrementizio in un mondo che considera popolato letteralmente da stronzi.
Who is the Turd Burglar? Peter e Sam hanno affinato i loro strumenti investigativi. E i soldi di Netflix hanno permesso un upgrade agli strumenti della video inchiesta. Ora le interviste nascondono imboscate a trabocchetto e i grafici fanno vedere cose che prima erano nascoste…
Una metafora ‘full of shit’
Rievocazioni, vecchi filmati e foto, dettagli colti dal web: tutto concorre a dipingere nuovamente il malinconico affresco di una generazione ansiogena e incasinata, in una perenne situazione di merda. Perché la merda di American Vandal S2, da un certo punto in poi si fa metafora. Non è più la degradante orrida materia che secerniamo ogni giorno (giorno più giorno meno) per il solo fatto di essere vivi – e di poter mangiare regolarmente (cosa non sempre scontata).
La merda diviene dunque una metafora dell’esistenza dentro il mondo della St. Bernardine, dove tutti sono ‘full of shit’ (letteralmente pieni di merda, ma anche bugiardi, bastardi ecc). E il Brownout non ha fatto altro che certificare ontologicamente questa condizione. Kevin, o anche Dylan ad esempio, non sono altro che la versione di sé che sono stati dagli altri costretti a diventare. Complici, in primis, loro stessi. Ma questo non vale forse per tutti, nell’età dell’adolescenza – e anche oltre?
Emarginazione, popolarità, bullismo e ipocrisia sono nuovamente i temi ricorrenti del microcosmo scolastico in questione. L’essenza di American Vandal rimane quindi intatta, con tutti i suoi punti di forza. Fino alla sorprendente e amara conclusione, da cui scaturisce una considerazione insolitamente positiva: “Creiamo tutti una certa versione di noi stessi per sembrare i padroni del nostro destino […] questa finzione non fa di noi delle persone false: è l’immaginazione a renderci umani. Ci permette di capire quale versione di noi ci piace di più”.
In un mare di merda…
Quali e quanti pregiudizi dominano le nostre considerazioni sul prossimo? Quanti giudizi sono in realtà pregiudizi? Queste domande, assieme a Who drew the dicks? e a Who is the Turd Burglar? guidano le indagini di Peter e Sam. Attraverso interviste e timeline, in una suspense crescente in entrambe le stagioni, fino alla scoperta della verità – che non coincide certo con il lieto fine.
Realtà, giudizi, finzione e pregiudizi sono mescolati in questo spassosissimo mockumentary che fa la parodia allo stile true crime con una leggerezza che non s’era mai vista prima. E con una lucidissima serietà, quella della docu-inchiesta, che non è certo seconda a Making a Murderer e affini. American Vandal mette in atto un geniale sabotaggio narrativo che lega il reportage true crime alle commedie sboccate per teenager. Che analizza lo spirito dietro le stragi alla Columbine nelle scuole USA, sostituendo le armi con il lassativo. Che unisce in un grottesco tutt’uno forma e contenuto. Raccontandoci un mondo che forse sta giungendo alla fine del mondo (il riferimento è alla serie The End of the F***ing World).
Ventisette cazzi in un mare di merda… (sic).
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