American Gods (Prime Video 2017-21) è una serie televisiva statunitense ideata da Bryan Fuller (Hannibal, Pushing Daisies, Wonderfalls) e Michael Green (Kings, Logan), e basata sull’omonimo romanzo scritto da Neil Gaiman (che è anche produttore esecutivo). La serie è stata purtroppo cancellata dopo la terza stagione (26 episodi) dal canale via cavo Starz (già produttore di Outlander, Black Sails e Power).
Protagonista è Shadow Moon (Ricky Whittle – The 100) che, dopo tre anni di prigione, viene assunto come autista e guardia del corpo dall’enigmatico Mr. Wednesday (Ian McShane – John Wick, Ray Donovan). Laura Moon (Emily Browning – Sucker Punch), la giovane moglie di Shadow, è appena morta in un ambiguo incidente stradale. Il protagonista, che non ha più niente a cui tornare, si ritrova – in questo misterioso, visionario e magico viaggio on the road negli USA – al centro di un’imminente guerra tra le vecchie e le nuove divinità.
Perché il mondo in cui all’improvviso Shadow si trova catapultato è e non è più lo stesso di prima. In questo mondo gli dèi camminano tra gli uomini. Tra le antiche divinità, esistenti da secoli o addirittura da millenni, troviamo Odino, la regina di Saba, il leprecauno, Anubi, il jinn… Si tratta di esseri provenienti da mitologie e culture molto diverse tra loro. Tutti però in qualche modo importati negli Stati Uniti d’America. Se la loro esistenza è intimamente connessa al credo della gente, il loro potere pare invece essere più legato alla devozione. Devozione che si esprimeva – anticamente – attraverso tradizioni, sacrifici e rituali…
Vecchi e nuovi dèi
Totalmente apolidi sono invece i nuovi dèi, il cui potere è al massimo grado. Mr. World (Crispin Glover) ovvero globalizzazione, Media (Gillian Anderson – X-Files, The Fall) ovvero radio, cinema e televisione, e Technological Boy (Bruce Langley). Questi, espressione dello zeitgeist contemporaneo, non hanno certo la storia degli altri. Che difatti rappresentano il passato dell’umanità, in contrasto con un futuro che di loro non sembra avere più bisogno. Per questo Mr. Wednesday gira in lungo e in largo a caccia di alleati per una guerra che sembra inizialmente volere lui soltanto. Wednesday, per sua stessa ammissione, è un bugiardo e un imbroglione. Alcuni – come Mad Sweeney (Pablo Schreiber – The Wire, Law & Order SVU), il leprecauno irlandese, o l’arabeggiante jinn (Mousa Kraish) sono costretti a seguirlo per antichi giuramenti o per più banali ricatti. Altri per orgoglio, come lo slavo Czernobog (Peter Stormare – Prison Break, Monk) o la germanica Ostar (Kristin Chenoweth – West Wing). Ma vi sono anche quelli che cercano di restare neutrali, come Bilquis (Yetide Badaki), e i traditori, come Vulcan (Bruce Langley – Psych).
Shadow Moon – un uomo che non ha più niente da perdere – è un’ideale tabula rasa in attesa di poter finalmente credere in qualcosa. Senza l’uomo non ci sarebbe dio da venerare, da invocare, da temere… Perché questi dèi sono in fondo vulnerabili, invidiosi, fallibili. Sono ossimori che camminano tra gli umani, non potendo vivere senza loro.
Questa veloce introduzione a dimostrazione della ricchezza tematica di American Gods. Ogni divinità ha infatti la sua storia nel passato e il suo ruolo nel presente. A chiudere la passerella non possiamo non citare Mr. Nancy (Orlando Jones) – il dio trickster africano Anansi che assume le sembianze di ragno -, e Mr. Ibis (Demore Barnes) – il dio egiziano custode di storie Thot, narratore della serie.
American Gods: il destino degli dèi (e di Shadow Moon)
A questa stupefacente complessità mitologica si contrappone l’esiguo numero di nuovi dèi. Cui, oltre ai già citati, vanno aggiunti Mr. Town (Dean Winters – Law & Order Criminal Intent, Joe vs Carol) e Mr. Road (Neil Girvan), entrambi con l’aspetto di agenti governativi. Il mellifluo e multiforme Mr. World, leader della compagine, è capace di assumere diversi aspetti a seconda delle occasioni. Si trasforma indifferentemente in Mrs. World (Dominique Jackson – Pose) o in Mr. World2 (Danny Trejo – Breaking Bad, Sons of Anarchy).
Queste divinità possono rigenerarsi, se hanno ancora un seguito di fedeli. In caso contrario, possono morire. Mentre i nuovi dèi godono pienamente del loro potere, molti tra quelli antichi si celano dietro esistenze del tutto ordinarie. Chi lavora in un macello, chi fa il dentista, chi serve alla tavola calda… Alcune tentano di obnubilarsi affogando nell’alcool, altre vivono in strane dimensioni nascoste in questo mondo. Ma tutte sono ancora in grado di compiere i propri peculiari e vigorosi miracoli, tornando per un momento a risplendere nella loro gloriosa forma originaria…
In questa grottesca follia allucinatoria si dipana l’evoluzione di Shadow Moon. Il suo buon senso vagamente nichilista dopo un po’ non basterà più a spiegare i continui fenomeni che contraddicono ogni leggi fisica. Il suo è anche un viaggio personale verso l’accettazione di un destino inscritto tra queste divinità e la loro guerra. Tutti sembrano cercare e volere qualcosa da lui. La sua vera identità e il suo ruolo andranno svelandosi poco a poco. Non sarà però solo in questo peregrinare esistenziale. Verrà ad esempio affiancato da Laura, la moglie morta che perde pezzi per strada.
L’incantesimo si spezza (S2 – S3)
Quest’ampia teoria di miti e leggende, talvolta più reali della stessa realtà, rivaleggia dunque con l’ultra nichilistico presente. Ogni dio è tale in virtù della fede umana riservatagli. Nell’episodio finale di S1, alla festa data da Oster – dea della primavera e della resurrezione, da cui Easter (Pasqua) – nella sua sontuosa abitazione, vediamo una moltitudine di Gesù. Africani, asiatici, sudamericani. Ogni Cristo ha, per così dire, la sua comunità di riferimento. “I vecchi dèi arricchiscono e danno significato, mentre voi riempite semplicemente il tempo” dirà Wednesday agli avversari.
In questa bizzarra ricerca di adepti e adorazione al passo con i tempi si svolge la trama di American Gods. Al suo debutto, pubblico e critica impazzirono. Visivamente impeccabile, sonoramente sublime. Una storia semplicemente pazzesca e ad un ritmo frenetico. Oltre all’estetica sfavillante, nei contenuti la serie riusciva a coniugare sacro e profano, sorprendenti metafore e culti religiosi, trascendenza mistica e pop pornografico. Questo lo si deve all’opera di Gaiman. Che esplora l’anima più contraddittoria dell’America, con una storia corale e fascinosa, dai toni gotici e cupi. In cui ogni parte del mondo sembra confluire sotterraneamente negli States, come un’oscura linfa da cui il paese trae nutrimento.
Ma già in S2 qualcosa sembra andare storto. L’incantesimo sembra spezzarsi. I personaggi sembrano viaggiare continuamente in tondo, senza destinazione. E gli archetipi mitici ancestrali iniziano a smarrire il loro senso. La serie entra in una spirale di decadenza dalla quale non si riprenderà più. Fino alla frettolosa chiusura dello show, nel bel mezzo della narrazione. Negli ultimi anni, ad altri lavori (come 1899 o Raised by Wolves), che sulla carta dovevano essere sicuri trionfi, non è nemmeno stato concesso il lusso di avere una S2. Che l’universo seriale sia sovraccarico? Che abbia come sempre vinto la logica commerciale?
American Gods: la parabola decadente
Tornando al nostro show, dopo S1 American Gods perde gli straordinari showrunner Fuller e Green per divergenze riguardo al budget (ogni puntata costava tra i 7 e gli 8 milioni di dollari, quasi quanto Il Trono di Spade per la HBO) e alla direzione creativa. Al loro posto, Jesse Alexander. Sulla carta (perché in realtà impegnato in Good Omens) sarà coadiuvato dallo stesso Gaiman, non troppo contento delle libertà prese in S1. Anche se sarà lui stesso a creare dal nulla il personaggio di Vulcan, il dio romano forgiatore di armi. Ma nel cast anche Gillian Anderson e Kristin Chenoweth decidono, per solidarietà, di abbandonare la nave. Bisogna quindi riscrivere tutta la sceneggiatura daccapo. In più di un’occasione, gli stessi attori si scrivono le battute. Contrasti con il sindacato degli sceneggiatori (si è nel periodo giusto).
Ne esce una seconda stagione sgangherata e assai deludente. Inconcludente e senza significato. La storia della guerra – che non comincia mai – viene tirata inverosimilmente per le lunghe. Una miriade di scene e personaggi inutili. Pur confermandosi l’eccezionale livello qualitativo della produzione. Ma non basta. Alexander lascia, in preda alla depressione. Al suo posto, per la scrittura di S3, Charles ‘Chic’ Eglee (Dexter, The Shield, The Walking Dead). E le cose vanno di male in peggio… Eglee licenzia l’Anansi di Orlando Jones, uno dei personaggi più riusciti della serie (protagonista anche del romanzo spin-off I Ragazzi di Anansi). Reo a suo dire di recare un messaggio ‘sbagliato verso la comunità nera d’America’. Ne consegue un drastico calo di pubblico (S3 ha il 65% di spettatori in meno rispetto a S1), in particolare nella comunità afroamericana.
Triste destino
A nulla vale l’entrata in scena del mitico Marilyn Manson, nelle vesti di berserker fedele ad Odino e leader di una gothic metal band che ne canta la grandezza. Shadow Moon, in conflitto con il suo destino, si rifugia nella tranquillissima cittadina di Lakeside, dove prova a condurre una normale esistenza. Ritrovandosi però ad essere l’unico nero in una comunità bianca, quando una ragazzina del posto scompare, lui è il primo dei sospettati… Ma tutto questo apparentemente non ha più niente a che vedere con la guerra tra nuove e antiche divinità. Guerra che continua a restare sullo sfondo, in una (sempre più intollerabile) reiterata imminenza.
In sostanza, nonostante il disperato – e fallimentare – tentativo di riprendere il filo di una narrazione che S2 aveva già totalmente disgregato, American Gods si condanna da sé ad una fine prematura. Avendo smarrito la centralità dell’irresistibile tema sul rapporto tra civiltà e mitologie, tra tecnologia e tradizioni. Il tema del ‘processo di costruzione semiotica della cultura contemporanea’. Questa disfatta è dovuta senza mezzi termini al conflitto di poteri tra l’autorialità filmica e l’onnipotente produzione (come si è visto in Game of Thrones e The Walking Dead, portati alla fine a sembrare quasi la loro stessa parodia). Quest’ultima si arroga diritti decisionali che vanno al di là del bene e del male. Nell’ingenua convinzione che i trionfi di un debutto assicurino la continuità di un percorso seriale vincente. Così l’aver cambiato la squadra creativa ha trasformato American Gods in un vero e proprio disastro (da imputarsi in toto alla Fremantle Media, la società di produzione). Triste destino.
Trump & American Gods
Una serie dalla partenza eccezionale. Complice l’eccezionale ispirazione dell’omonimo e pluripremiato romanzo, che è una potente metafora dell’attuale società americana (nonostante sia stato scritto nel 2001!). Un libro che scava in modo originale alla ricerca delle radici della cultura statunitense. Nella consapevolezza che quelle stesse radici siano tuttora indissolubilmente intrecciate con i frutti di quella stessa cultura. Un’opera che non aderisce ad un genere definito, passando dalla commedia grottesca al mistery thriller, senza soluzione di continuità. E che si nutre delle sue stesse sottotrame, spesso incastonate ad inizio puntata, in cui le diverse storie di come le divinità siano giunte in America vanno ricomponendo il mosaico dell’identità storica e razziale del paese. Sublime ad esempio il Cristo ucciso da un agente cristiano, mentre cerca di passare illegalmente il confine con un gruppo di messicani.
Le storie degli dèi di Neil Gaiman sono prima di tutto storie di immigrati. Anche se lui stesso ha precisato di non aver avuto alcun intento di polemica politica durante la stesura del romanzo. “Scrivere di servitù a contratto, della tratta degli schiavi o di un mercante musulmano gay che incontra un jinn che guida un taxi a New York (…) è giusto, se stai parlando dell’America. Poi all’improvviso è arrivato Trump e ora leggo articoli su Vanity Fair che dicono che ‘questo è lo show più politico che abbiate mai visto’. Immagino sia così, ma non è che ci siamo seduti e abbiamo detto ‘Siamo l’opposizione’. Abbiamo solo iniziato a raccontare la nostra fottuta storia e poi il mondo è cambiato”.
Il mondo è davvero cambiato: sublime anche la scena in cui Shiva vede in TV il suo altare distrutto dall’ISIS.
Dal teatro Kabuki a MTV (somewhere in America…)
Sublime a suo modo, anche se a lungo andare narrativamente suicida, il viaggio di Shadow Moon e Wednesday tra stazioni di servizio e squallidi motel, alla ricerca di vecchie divinità ormai dimenticate da assoldare per una guerra contro i nuovi e potenti dèi.
Sublime Media che compare in vesti sempre diverse, da Marilyn Monroe a David Bowie, con un discorso composto da titoli e versi del Duca Bianco (peccato questo accada solo in S1). Media, in seguito alla defezione della Anderson, ovviamente scompare dalle scene, rimpiazzata da New Media (Kahyun Kim). Che dire, una soluzione a metà tra il brillante e l’imbarazzante. Ma anche estremamente significativa. Il romanzo, scritto solo nel 2001, già prefigurava una società iperconnessa come quella attuale. Una società in cui – tutti potenzialmente disponendo di un sapere universale tascabile – non vi è più spazio per il senso del mistero, che è prerogativa essenziale alla fede. “Si crede agli dèi quando non si riesce a spiegare qualcosa” dice ancora Mr. Wednesday.
Le antiche divinità combattono anche contro il dispotismo culturale della globalizzazione. Odino, Mad Sweeney e Anansi vorrebbero privare l’umanità degli agi tecnologici, per riportarla ad un rapporto di dipendenza dalle divinità. Gli antichi vogliono togliere per rendere devoti, i nuovi preferiscono dare per rendere riconoscenti.
Tutto questo viene trasposto attraverso un’estetica ipnotica e, in un certo senso, anarchica. Come alcuni stranianti commenti sonori derivati dal teatro kabuki giapponese. O come la fotografia maniacalmente poetica e dai toni volutamente acidi, spesso incline a soffermarsi su microscopici dettagli. A suggerire un sostrato di latente realtà lisergica nascosta sotto l’ovvietà del quotidiano. La sigla d’apertura, un ammaliante cocktail di simboli sacri e pagani, tra luci al neon e musica trance, è una perfetta sintesi dell’estetica di American Gods. Non è un caso se, tra i registi della serie, si ritrovano nomi provenienti dal mondo dei videoclip musicali. L’industria televisiva stava allora (Legion, Twin Peaks S3) ancora audacemente puntando alto. E più in alto si riesce ad arrivare, più rovinosa sarà la caduta.
“Gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda…”
Potrebbe interessarti anche: Preacher