A Man in Full (Un uomo vero – Netflix, 2024) è una miniserie drammatica americana in sei episodi. La serie è basata sul secondo omonimo romanzo del noto giornalista e scrittore Tom Wolfe, già autore di The Bonfire of the Vanities (Il falò delle vanità, 1987), da cui fu tratto lo sfortunato film di Brian De Palma. Creatore e showrunner di A Man in Full è il veterano David E. Kelley (Big Little Lies, Boston Legal, The Undoing…).
A Man in Full racconta la storia di Charlie Croker (uno strepitoso Jeff Daniels), ex stella del football e ora potentissimo magnate immobiliare di Atlanta. Sfacciatamente ricco e spaccone, Charlie ama vivere nel lusso sfrenato, tra ranch di proprietà e jet privati, e non è abituato a perdere. Così, quando la banca esige la restituzione di un prestito diventato negli anni astronomico – pari ad un miliardo di dollari -, si scatena una vera e propria guerra. Alla quale partecipano anche soci e concorrenti, la politica locale, l’opinione pubblica e la famiglia – ex moglie compresa.
Nell’arco narrativo di dieci giorni, alla storia principale delle vicissitudini finanziarie e legali di Croker si aggiungono diverse altre sottotrame. Il legale di fiducia dell’azienda (Aml Ameen – Sense8) viene generosamente mandato da Charlie a difendere Conrad (Jon Michael Hill – Elementary), il marito della sua segretaria ingiustamente accusato di aggressione a pubblico ufficiale. Raymond, uno dei bancari più agguerriti contro Croker, ne circuisce l’ex moglie. Il sindaco Wes Jordan (William Jackson Harper – The Good Place) cerca di sfruttare i problemi di Croker per trarne sottobanco un vantaggio politico.
Grande Jeff Daniels, grandi temi (e qualcosa che non funziona)
L’atmosfera ricalca non poco diversi aspetti già presenti ne Il falò delle vanità (romanzo). Il narcisismo sociopatico proprio di certi miliardari, l’invidia e il senso di rivalsa dei censori della classe media. Il razzismo latente nel perbenismo, gli assurdi ingranaggi della giustizia, il moloch del politicamente corretto. Temi questi ultimi, cari allo stesso Kelley, come anche la disparità sociale e la discriminazione delle minoranze. I sei episodi sono stati quindi opportunamente affidati a due noti registi, Regina King (Shameless) e Thomas Schlamme (The West Wing), ovvero una donna nera e un uomo bianco. Con lo scopo di ampliare i punti di vista, potendo contare su due differenti sensibilità narrative.
Eppure, esattamente come accade allora con la trasposizione filmica del primo romanzo di Wolfe, anche nella miniserie A Man in Full qualcosa non ha funzionato. Da Rotten Tomatoes – “For a show with excellent pedigree and a Tom Wolfe novel to draw from, A Man in Full is disappointingly half-baked in its exploration of masculinity” (A Man in Full, un uomo vero, potrebbe infatti volgarmente tradursi in Un Uomo con gli Attributi). Questo caustico giudizio nonostante la magistrale interpretazione di Jeff Daniels (American Rust, The Comey Rule), già vincitore di 2 Golden Globe per Godless e The Newsroom. Il suo Croker è grottesco, quasi caricaturale. E allo stesso tempo realistico, assolutamente credibile.
Charlie Croker è un uomo straordinario, da sempre abituato ad essere l’eroe – vedi il suo glorioso passato da quarterback -, e ora in piena decadenza fisica (i problemi al ginocchio) ed esistenziale. Un essere pieno di sfaccettature, che vanno dal cinismo più sfrenato alla più disinteressata generosità (l’aiuto al marito della sua assistente). Charlie si sente imbattibile e immortale. Rifiuta non solo di stare invecchiando, ma anche di poter ammettere un fallimento. Davanti agli altri come davanti a se stesso. La resa ai suoi nemici bancari non è per lui – uomo vero – un’opzione.
A Man in Full: Charlie Croker, trumpiana contraddizione
Emblematica e irresistibilmente farsesca la scena in cui, per convincere un possibile investitore ad aiutarlo, e contro il parere di tutti, costringe questi e la svenevole moglie ad assistere alla monta di un purosangue. Con gli uomini del suo ranch che devono tenere ferma la cavalla, mentre aizzano lo stallone a fare il suo dovere. E la svenevole signora, anziché svenire, urla allo stupro in preda ad una crisi isterica.
Croker è un uomo che non sa mai quando fermarsi. Che anzi per tutta la vita non si è mai fermato, scontro dopo scontro, successo dopo successo. I dieci giorni di A Man in Full raccontano l’ultima grande battaglia di Croker. In gioco c’è nientemeno che la sua eredità (legacy), trumpianamente incarnata dal più alto grattacielo di Atlanta. La torre d’avorio, dalla quale Charlie pianifica la sua guerra, rischia di essere svenduta per poter ripagare parte dei suoi immensi debiti. Del resto Croker ha non poco del Trump imprenditore anni ’90 (periodo in cui Wolfe ha scritto il romanzo).
Sullo sfondo, la città di Atlanta, in preda – come si accennava più su – a razzismo e corruzione. Una città, va da sé, piena di contraddizioni. E dal sindaco all’ex modella ora imprenditrice, tutti i personaggi di questa metropoli vivono nella contraddizione. Quella tra la persona e l’immagine che questa vorrebbe proiettare all’esterno. La stessa paradossale contraddizione di Charlie. Paradossale perché il tycoon, che vuole a tutti i costi dare di sé l’immagine dell’uomo vero, è soltanto un uomo. Un uomo addirittura generoso, e con una sua sorprendente moralità. Ma in guerra non sembra esserci spazio per generosità e moralità.
Tra Billions e Succession, una serie “frivola”
Jeff Daniels è circondato da un cast eccezionale (come siamo soliti aspettarci nelle grandi produzioni americane). Diane Lane (House of Cards) è l’ex moglie Martha. Lucy Liu (Curb Your Enthusiasm) è la sua migliore amica. Bill Camp (The Queen’s Gambit) è Harry Zale, che guida il team legale della banca incaricato delle riscossioni e degli espropri. Team di cui fa parte Raymond Peepgrass, perfettamente interpretato da Tom Pelphrey (Banshee, Ozark), vera e propria nemesi di Croker.
Peepgrass è il bancario che è stato per anni costretto a subire l’arrogante tracotanza di Charlie, costretto a concedergli proroghe e dilazioni varie. Raymond si sogna Croker di notte, lo ama e lo odia, vorrebbe rovinarlo ed essere come lui… Addirittura ossessionato dalle misure dei suoi attributi, Raymond cerca spudoratamente di portarsi a letto persino la sua ex moglie. Il loro scontro, che in fondo è il tema portante della miniserie, arriverà ad una tragicofarsesca, forse un po’ troppo frettolosa, resa dei conti nel finale (“Big red dog indeed!“).
Secondo qualche critico A Man in Full è una specie di Billions meno sottile e sfumato, più grezzo, urlato e trash. Secondo la critica del Guardian invece, è “un degno erede di Succession“. Questa è però l’unica voce positiva in un coro di stroncature. Il Telegraph, riprendendo il paragone, parla di “una Succession scadente”. Per quasi tutti gli altri critici valgono le parole del Time, dove ci si stupisce che da un romanzo che tratta temi fondamentali come denaro, potere, razza, mascolinità sia uscita una serie così “frivola”.
A Man in Full: big red dog, indeed!
Come prima ricordavamo, questo era già successo con Il falò delle vanità. E se il problema fosse proprio l’idea di trasporre filmicamente un romanzo di Tom Wolfe? Anche allora il film con Tom Hanks e Bruce Willis parve frivolo, nonostante – o forse proprio a causa di – gli incredibili piani sequenza di De Palma (su tutti, quello iniziale).
Forse allora non è la trama ad essere la componente principale in un’opera di Tom Wolfe. Potrebbero invece esserlo le sue digressioni, così satiriche e raffinate. Potrebbero quindi esserlo, in senso metafisico e letterale, le sue parole. Fatto sta che la miniserie A Man in Full, per quanto a tratti assai spassosa, alla fine sembra piuttosto inconcludente. La profondità di questa narrazione sembra perdersi lungo gli episodi, nonostante i temi pazzeschi e le interpretazioni stellari.
E quando uno spettatore arriva a chiedersi “ma perché diavolo mi avete raccontato questa storia?”, quando ha la sensazione di avere perso tempo, questo è un peccato mortale. Nel mondo seriale ancor più che in quello cinematografico. E questa purtroppo è la domanda che a molti viene spontanea alla conclusione dell’ultimo episodio. Ve ne sarebbe anche un’altra, meno canonica e sicuramente più maliziosa, riguardo il sopracitato “big red dog”. Ma a tale proposito non voglio – e probabilmente nemmeno posso – dirvi di più…
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