The Kings of Tupelo: A Southern Crime Saga, mini docuserie true crime (Netflix, 2024) in 3 episodi (dai 54 ai 75 minuti), diretta dai fratelli Chapman e Maclain Way (già vincitori di un Emmy per Wild Wild Country). Una vicenda – definita da alcuni ‘più folle di Tiger King’ – ambientata nel Sud di William Faulkner (luogo comune, è vero! ma tremendamente significativo), che parte dalla classica faida di quartiere per assumere gli inquietanti contorni di un attacco terroristico compiuto su suolo americano da un cittadino americano.
La storia del sosia di Elvis accusato di aver attentato alla vita del Presidente degli Stati Uniti è talmente assurda da sembrare inventata. Eppure è dannatamente vera. Al centro di The Kings of Tupelo c’è la complessa e controversa figura del sosia (o ex sosia) in questione, Paul Kevin Curtis, convinto complottista. Kevin è nato e vissuto a Tupelo, Mississippi: la città natale di sua maestà Elvis Presley.
Il calvario di Curtis viene dettagliatamente raccontato, innanzitutto da lui stesso, intervistato nella sua improbabile dimora: una roulotte sperduta in una località segreta. La sua bizzarra persona, affetta dal complesso dell’eroico salvatore – che finisce sempre con il ritorcerglisi contro -, viene delineata con equilibrio e una certa prudenza, sì da non cadere nella facile tentazione di ridicolizzarlo.
Qualcosa di inquietante e inaspettato
L’ossessione di Kevin per le teorie complottiste ha una precisa data d’inizio. Prima non era che un onesto lavoratore e un tranquillo padre di famiglia. La cui passione, in comune con il fratello maggiore Frank, era ovviamente il Re del rock’n’roll. I due avevano dato vita ad un duo di sosia di Elvis. I loro spettacoli facevano impazzire le vecchiette e i loro anziani fan. Sul palco i fratelli si sentivano i Re di Tupelo (The Kings of Tupelo).
Come attività principale Kevin lavorava come inserviente delle pulizie in un ospedale locale. Oltre ad essere un podofilo maniacale (sic), era infatti anche un patito delle pulizie. Le cose insomma andavano alla grande (anche i piedi non mancavano), fino a quando – durante una fatidica festività natalizia dei primi anni 2000 – Paul Kevin Curtis non finì con lo scoprire qualcosa di inquietante e inaspettato nel freezer dell’obitorio. Qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la sua esistenza. Trovò infatti una testa mozzata e alcuni arti umani. Convinto di aver scoperto un traffico illegale di organi in quel di Tupelo, cercò di gridare questa verità ai quattro venti. Con il risultato di perdere dapprima il lavoro, poi la casa e infine la stessa famiglia.
Coincidenze? Persecuzione? Karma negativo? Fatto sta che più viene bastonato dalla vita, più Kevin si convince di essere nel giusto. La sua ossessione per le cospirazioni si allarga allora a macchia d’olio sulla rete, trasformandolo in un uomo che vive esclusivamente ‘on line’, per dibattere con i suoi nuovi colleghi complottisti. E che ritiene convintamente d’essere ‘la spada della giustizia’. Amici e familiari lo vedono sempre più alienato e distante, perso nel mondo virtuale. Kevin invece crede che soltanto dimostrando loro che ha ragione, che ha sempre avuto ragione, potrà rimettere le cose a posto.
The Kings of Tupelo: il sospettato perfetto
La bomba esplode (figurativamente) nel 2013, quando alcune lettere contenenti ricina – un veleno mortale – vengono fatte recapitare all’indirizzo dell’allora presidente Obama e ad un paio di altri politici di vario livello. Tutti gli indizi, a partire dal timbro postale di Tupelo fino alla firma in calce alle missive (sic!) puntano su Paul Kevin Curtis. Il quale viene arrestato con tanto di irruzione di FBI, NSA, polizia e compagnia bella, a favore di telecamere.
Naturalmente stampa, televisione e opinionisti vari ci vanno a nozze: a prima vista i deliri cospirazionisti di Curtis ne fanno il sospettato perfetto. Eppure, dopo ore di serrato interrogatorio stile CIA, sorge un dubbio: possibile sia stato davvero quest’uomo a minacciare la vita del Presidente con la ricina – sostanza invero assai difficile da procurarsi, di cui Kevin ignora persino l’esistenza? Colpo di scena: il bello arriva adesso. Ciò che era iniziato come un’indagine su lettere avvelenate si trasforma ben presto in un affascinante caleidoscopio di follia e cortocircuiti mentali, tra spirali di paranoia e conflitti personali, verità distorte e realtà più strane della finzione.
Il tutto narrato con indubbia maestria, con uno particolare stile true crime sospeso tra umorismo nero e teatro dell’assurdo. Un’incredulità che tende però a non prendersi troppo sul serio, ma non per questo non affronta seriamente la sua materia narrativa. Mettendo a nudo le dinamiche psicotiche e le surreali motivazioni dietro questo oscuro affresco della profonda provincia americana.
Tra Anonymous e i fratelli Marx: what the fuck?
Una sbalorditiva “corsa selvaggia” ad ostacoli tra realtà e inganni, dunque, che nei primi due episodi si immerge totalmente nella personalità borderline del protagonista e nei suoi ripetitivi e opprimenti schemi di pensiero. Viene naturalmente data voce sia ai sostenitori sia ai detrattori – spesso riuniti nella stessa persona – di Curtis. Tutti personaggi tra l’eccentrico e il bizzarro, dal rassicurante parrucchino dell’invidiato fratello – agente assicurativo di successo – alla moglie fedelmente e felicemente fedifraga (che abbiano i baffetti, la fronte spaziosa o moglie e figli, tutto per lei è fonte di eccitazione erotica). Dai figli rassegnati ad un padre che insegue i mulini a vento, per così dire, ai seriosi funzionari delle varie agenzie statali o federali che hanno seguito il caso.
Fino ad arrivare al misterioso insegnante di arti marziali, ex agente segreto, James Everett Dutschke. L’uomo, l’unico degli intervistati a rispondere alle domande dal telefono di un carcere di massima sicurezza, darà la vera svolta a questo rocambolesco thriller true crime. Perché la crescente tensione raggiunta nei primi due episodi, con l’uso sapiente e mirato di piccoli colpi di scena e personaggi sopra le righe, esplode letteralmente nell’incredibile capitolo finale.
Nel terzo episodio infatti non è solo l’intricata trama, finora imperniata su crimine e dramma umano, a trovare una degna e memorabile conclusione. Bensì è l’intero rapporto tra realtà e finzione, che nella figura di Kevin trova continue sponde per rimbalzare acrobaticamente da una prospettiva all’altra, a diventare talmente imprevedibile – addirittura esponenziale – da sfidare ogni tentativo di spiegazione logica. Negli ultimi minuti di The Kings of Tupelo si è nel regno delle serie burle di Anonymous e dei fratelli Marx, assieme ad una sana ed inevitabile sequela di “what the fuck?”
The Kings of Tupelo e la nostra psicotica realtà occidentale
Il merito dei fratelli Way, noti oltre che per il già citato Wild Wild Country anche come produttori della serie di documentari sportivi Netflix Untold (vedi i nostri pezzi su La fidanzata inesistente e Jake Paul), è di addentrarsi in questa foresta di allucinazioni e specchi deformanti, con passo sicuro e soprattutto empatico. Perché Curtis, bersaglio umoristico fin troppo facile, è intrappolato nelle sue convinzioni – di cui ignora ogni prova contraria – esattamente come altre decine di migliaia di cospirazionisti. Decine? Centinaia? Di più? Ciò che rende assurdo questo già drammatico discorso è la convinzione di tutti questi leoni da tastiera di stare combattendo il male. Di essere cioè dalla parte giusta, quella del bene e della verità.
The Kings of Tupelo ci svela le contraddizioni di un uomo segnato dagli errori che è tuttora incapace di ammettere. Diviso tra un sogno di giustizia eroica e una squallida realtà di solitudine e isolamento. E attraverso la pazzesca storia di questo individuo noi vediamo riflessa la nostra psicotica realtà occidentale. Una realtà di matrice ovviamente americana, dove si è perso il senso della misura, di qualsiasi misura.
La misura dei fatti e la misura delle parole. Dove i fatti vengono liquidati in poche parole e poche parole costituiscono un fatto. Dove si è annullata la distanza tra la realtà con gli altri condivisa e il mio delirio personale. E dove libertà significa fare tutto quello che si vuole e, soprattutto, dire tutto quello che si vuole – senza conseguenze.
In un mondo in cui fatti e parole sono diventati intercambiabili e manipolabili a piacimento, in cui pensare è diventato troppo complicato, il pagliaccio, la marionetta, il buffone – è il re.
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