Il tema è difficile quanto attuale: il cambiamento climatico tra finzione e realtà, nel cinema e nella tv. Ma proviamo a partire da un’immagine. Emblematica.
Il 9 settembre 2020, nella Bay Area di San Francisco, i cieli divennero arancione. Il fumo generato da una catastrofica serie di incendi, che in quella secchissima estate avevano martoriato il lato occidentale del Nord America, dalla California al Canada, aveva alterato la dispersione della luce solare. Permettendo solo ai colori più caldi di raggiungere la superficie terrestre. Appunto: cieli arancione. E siccome il sole era largamente nascosto dal fumo, anche durante il giorno le luci stradali erano accese. Le immagini fecero il giro del mondo, e anche oggi, a riguardarle, danno la pelle d’oca. Ma per una ragione diversa.
Cieli arancioni, luci accese, grattacieli e grandi strade: sembrava un film. E più precisamente sembrava Blade Runner 2049, il sequel (uscito nel 2017) del glorioso caposaldo fanta-distopico con cui Ridley Scott nel 1982 aveva portato su schermo Do Androids Dream of Electric Sheep, uno dei più importanti romanzi del grande cantore dell’inquietudine umana in salsa sci-fi, Philip K. Dick. In Blade Runner 2049 Denis Villeneuve aggiornava l’immaginario distopico costruito dal film originale: la sua visione del futuro partiva dalla indimenticabile megalopoli notturna, piovosa, nero-blu, scintillante di neon, che ritroveremo più avanti in questa nostra esplorazione, ma ci affiancava questi clamorosi paesaggi desertici di città in rovina, di spettrali catastrofi ecologiche, in cui il cacciatore di androidi si perdeva, alla ricerca di antichi segreti. E appunto: cielo arancione, luci artificiali, un’atmosfera aliena anche di giorno.
Una visione che il film aveva potentemente immaginato nel 2017. E che, tre anni più tardi, in quel disturbante giorno californiano del settembre 2020, trovava traduzione tangibile. Concreta. La fantasia era diventata realtà.
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Il cambiamento climatico tra realtà, finzione, allarmi: Carl Sagan vs Homer Simpson
Sempre più spesso, nel nostro tempo accelerato, realtà e finzione si inseguono, si scambiano di posto, si confondono. Fino a rendere sempre più difficile dire quale influenzi di più l’altra. Ma è particolarmente vero guardando a come la cultura pop dell’ultimo mezzo secolo ha trattato il tema del cambiamento climatico. Qui, gli scenari apocalittici disegnati dalla finzione hanno finito per corrispondere in modo disturbante agli allarmi della scienza ufficiale. Insomma: ciò che ci era stato proposto dal cinema come intrattenimento “catastrofico” rischia tutto sommato di essere una drammatizzazione neppure troppo fantasiosa di possibili – prossimi, apocalittici – futuri.
Ma non è che non fossimo stati avvertiti. Una semplice ricerca su google, o su You Tube, su “allarmi sul climate change” restituisce un elenco che sarebbe persino comico. Se non fosse drammatico. Un elenco infinito di varie testate, fonti, scienziati, l’Onu, ong varie, che, anno dopo anno, “lanciano l’allarme”. Qua vedete il grande astrofisico e popolare divulgatore Carl Sagan in una sua celebre audizione davanti al Congresso americano. Dà i brividi ascoltarlo oggi, e rendersi conto che questa clip è del 1985: 40 anni fa.
Ma la nostra realtà ci racconta di ormai costanti catastrofi legate alla crisi ecologica e al cambiamento climatico. Non passa anno, o mese, senza nuove angoscianti notizie: alluvioni, esondazioni, tornado, incendi devastanti.
Dai roghi che hanno semidistrutto Los Angeles a inizio 2025 – e che seguono anni di siccità radicale – alla serie di tornado che ha messo in ginocchia la Florida. Dai fiumi d’acqua che hanno travolto Valencia a fine 2024 alle ormai costanti esondazioni che flagellano città e regioni italiane. Ed è così ovunque.
Insomma: non mancano gli allarmi. Urgenti, autorevoli, persino apocalittici. E come abbiamo risposto? Più o meno come fa Homer Simpson…
Gli anni ‘60, tra paura e speranza. I romanzi di Herbert e Ballard
Se negli anni ‘50 la paura della fine del mondo assume la forma del fungo atomico, evocando lo spettro della distruzione globale e nucleare, è nel decennio successivo che vediamo emergere con forza il tema del cambiamento climatico. Gli anni ’60 vivono la coesistenza di grandi speranze, rapide trasformazioni (tecnologiche, sociali e di costume), ferite violente. Dai grandi assassinii politici (i Kennedy, Martin Luther King) alla guerra del Vietnam. In questo tempo caratterizzato da grandi luci e ombre altrettanto intense emerge dunque anche il tema del climate change. Nuovo catalizzatore di inquietudini psicologiche e culturali.
Nel 1962 esce un libro molto influente: Primavera silenziosa (Silent Spring) di Rachel Carson. È il primo saggio a popolarizzare i temi della crisi ambientale, con un’enfasi particolare sull’impatto dei pesticidi. Parliamo di un libro che ha contribuito in modo decisivo a ispirare il movimento ambientalista moderno. Per chi ha letto il romanzo di fantascienza Il problema dei tre corpi (romanzo a cui abbiamo dedicato questa puntata del podcast), è anche l’opera che influenza la giovane astrofisica Ye Wenjie, contribuendo a formare quella coscienza ecologica che sarà una delle cause del “tradimento” anti-umano compiuto dalla scienziata cinese.
Nel breve volgere di un triennio J. G. Ballard pubblica tre importanti opere fanta-distopiche, che trattano tutte di disastri naturali legati al clima. Il vento dal nulla (1961), primo romanzo dell’autore inglese, racconta di una civiltà devastata da venti che diventano potentissimi uragani: pensate agli Stati Uniti. L’anno dopo, in Mondo sommerso (1962), Ballard mette in scena un altro futuro catastrofico: il riscaldamento globale provoca lo scioglimento dei ghiacciai. Le nostre città finiscono tutte sott’acqua. Una profezia di finzione che la scienza sembra confermare. Nel 1964 il terzo romanzo immagina una catastrofe di segno opposto, ma anche questa evocativa di realtà che ben conosciamo: Terra bruciata racconta un mondo in cui l’inquinamento industriale, e in particolare lo sversamento in mare di agenti chimici, ha distrutto l’equilibrio del ciclo delle precipitazioni. Portando a un’implacabile siccità, che devasta progressivamente pianeta e civiltà umana.
C’è un pianeta deserto anche al centro di un romanzo spartiacque della fantascienza novecentesca: Dune, pubblicato dall’americano Frank Herbert nel 1965. Dune ispirerà film, serie tv, videogame. Alcuni li abbiamo raccontati qui: dal tentativo di David Lynch del 1984, sfortunato ma visionario, a una orrenda miniserie tv dei primi anni 2000, passando per il folle progetto abortito di Jodorowsky (che ne sognava una versione cinematografica di 14 ore). Fino ovviamente ai blockbuster di questi anni, i monumentali film di Denis Villeneuve. Cui abbiamo dedicato questo articolo ma anche questa puntata del nostro podcast.
Ma prima di tutto, Dune è uno straordinario romanzo di fantascienza planetaria, considerato pioniere della narrativa climatica per i suoi temi di ecologia e ambientalismo. Il libro vince i massimi riconoscimenti della narrativa fantascientifica, diventando il più venduto romanzo di genere della storia. Cosa per noi importante, è stato definito il “primo romanzo di ecologia planetaria su larga scala”, e non a caso arriva pochi anni dopo la pubblicazione di quel saggio di cui vi parlavo, Primavera silenziosa. Raccontando di un mondo la cui già estrema desertificazione non inibisce le grandi famiglie dell’impero dal cercarne di spremerne fino all’ultima risorsa.
Gli anni ‘70: crisi energetica e cambiamento climatico. Mad Max, Conan
Gli anni ‘70 portano un nuovo senso di incertezza, causato in primis da nuovi timori di instabilità economica e politica. I due shock petroliferi del 1973 (guerra dello Yom Kippur) e del 1979 (rivoluzione iraniana) portano a una crisi energetica, a una profonda recessione e a una presa di coscienza sulla vulnerabilità delle economie occidentali. E non è un caso che questo decennio veda la nascita di movimenti ambientalisti e pacifisti, che cercano di rispondere a queste paure con un nuovo impegno verso la sostenibilità e la pace globale.
Come non stupisce che sia il cinema, con la sua vocazione alla spettacolarizzazione, a produrre i più significativi lavori di fiction sul tema del cambiamento climatico. Due film si stagliano sugli altri.
Nel 1973 Soylent Green mette in scena l’incubo distopico dell’ecocidio. Impressionando gli spettatori con un thriller ambientato nell’anno 2022: in cui gli effetti cumulativi della sovrappopolazione, del riscaldamento globale e dell’inquinamento hanno portato a gravi carenze di cibo, acqua e alloggi. La civiltà è sull’orlo del collasso. La soluzione: gli esseri umani in eccesso vengono trasformati da una multi nazionale in cibo. Il Soylent Green del titolo.
https://youtu.be/bwcADuJZDNA?si=012lCXMZT_2yZFrLSiamo invece ben oltre il collasso nello scenario immaginato dall’australiano George Miller per il primo capitolo di quello che diventerà un franchise di enorme successo: Mad Max (1979). Un trionfo di pubblico subito seguito da un secondo (1981) e terzo (1985) capitolo. La saga presenta un mondo post-apocalittico, arido e devastato, in cui la guerra per le risorse è quotidiana (a partire dall’acqua e dalla benzina). Un’eco evidente delle preoccupazioni ambientali e insieme economiche ed energetiche del periodo. Ma ancora così attuale da aver portato al trionfale ritorno del franchise proprio in questi anni.
Ma non c’è solo il cinema. Già alla fine degli anni ‘70 il piccolo schermo accoglieva un racconto profondamente e potentemente ecologista: le 26 puntate di Conan il ragazzo del futuro. Prima opera firmata pienamente dal leggendario maestro giapponese Miyazaki e gran successo nell’Italia di quegli anni. In un mondo sfigurato da un conflitto tecno-militare, dallo sfruttamento e dalla manipolazione della natura, il piccolo protagonista incarna la ritrovata capacità di alcune comunità di vivere invece in armonia con la natura.
Gli anni ‘80 tra euforia e inquietudini. Da Blade Runner a Miyazaki
Le crisi energetiche e le conseguenti incertezze degli anni Settanta avevano portato a riaccendere i timori ambientali. È invece un clima di generale euforia a caratterizzare gli Eighties, producendo un effetto sostanzialmente opposto. Incarnato dalle leadership neoliberiste di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il decennio promette dinamismo, accelerazione, prosperità collettiva, arricchimento individuale. Libero mercato e deregulation, anche in campo ambientale, sono le parole d’ordine. Regna l’ottimismo di una crescita senza fine: illusorio, d’accordo, ma lo scopriremo solo più avanti. Eppure, attraverso la chiave della fantasia distopica, non mancano le opere capaci di riflettere sul cambiamento climatico negli anni ‘80.
La graphic novel francese Snowpiercer nel 1982 esplora un mondo post-apocalittico devastato dalla crisi ambientale e dalle sue conseguenze (anche sociali). In un pianeta totalmente coperto dalle nevi e piagato dal gelo, un gigantesco treno è l’ultimo rifugio dell’umanità (quasi una moderna Arca di Noè). L’opera diventerà popolarissima anni dopo, nel 2013, nella versione cinematografica diretta dal regista sudcoreano Bong Joon-ho, futuro premio Oscar per Parasite.
Al cinema il decennio è segnato dall’uscita di un film epocale: il Blade Runner di Ridley Scott (1982). L’estetica del film diventa un pezzo centrale del nostro immaginario collettivo. Questa megalopoli cupa, notturna, costantemente piovosa, acida nei colori dei suoi neon e dei riflessi sul cemento, dei fumi che perennemente eruttano da sottoterra, di una totale e completa eliminazione del naturale a favore dell’artificiale. In Blade Runner non si parla apertamente di cambiamento climatico: ma il mondo in cui è ambientato è un mondo che quel cambiamento climatico l’ha visto, eccome.
Ma sono due opere di animazione a costruire un messaggio di segno diverso. Entrambe del già citato e amato maestro Miyazaki, affrontano esplicitamente il nostro tema – ma senza rassegnazione. Anzi, indicando una via alternativa. In Nausicaä della Valle del Vento (1984), tratto da un fumetto dello stesso autore, la protagonista (una scienziata – guerriera) lotta per impedire agli umani lo sterminio di una razza di giganteschi insetti mutanti. La nostra eroina prova cioè a educare la nostra specie a riscoprire compassione e rispetto per la vita. Nausicaä della Valle del Vento ha un messaggio chiarissimo: il pianeta va educato, non aggredito.
Una morale molto simile a quella di un altro gioiello dello stesso decennio del mangaka e regista giapponese: Il Mio Vicino Totoro (1988), quasi un manifesto pedagogico sull’importanza della creazione di un rapporto equilibrato e armonioso tra l’essere umano e la natura.
Gli anni ‘90: globalizzazione e cambiamento climatico. Waterworld
Gli anni ’90 iniziano sull’onda di un rinnovato ottimismo. La caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda segnano il superamento delle grandi paure collettive associate al conflitto tra le superpotenze nucleari. Lasciando spazio per nuove e diverse preoccupazioni. La globalizzazione – con il boom di Internet e la sua promessa di rivoluzione “democratica” – porta con sé grandi speranze. Ma al contempo ci restituisce un mondo “più piccolo”, in cui le conseguenze anche lontane delle nostre azioni diventano evidenti. Consumismo, deregulation, sviluppo selvaggio non sono – scopriamo – privi di implicazioni. Torna a crescere la consapevolezza ecologica. Si diffonde sempre più la sensibilità verso i rischi del cambiamento climatico.
In televisione sono i Simpson, il popolarissimo cartone “adulto” in onda ininterrottamente dal 1989, a portare con crescente frequenza la preoccupazione ambientale nella loro satira della società americana. Mostrandoci una cittadina grettamente dominata dalla centrale nucleare dell’avido capitalista Montgomery Burns, responsabile delle contaminazioni ambientali che producono pesci a tre occhi, inquinamento, rifiuti.
Al cinema possiamo menzionare almeno due film. Il primo è un kolossal ambizioso, persino fascinoso nella sua imperfezione: Waterworld (1995). Con l’allora super divo Kevin Costner protagonista di un’epica avventura in un mondo sommerso dalle acque e sprofondato nella barbarie. Un Mad Max dove al posto dei deserti la terra è stata inghiottita dagli oceani, e così le nostre città. Proprio come nel romanzo già citato di Ballard, “Mondo sommerso”, la causa è chiara: lo scioglimento dei poli, a sua volta figlio del riscaldamento globale.
Il secondo è, di nuovo, un gioiello di animazione firmato da Miyazaki: La principessa Mononoke (1997), ancora oggi uno dei film più amati e potenti sul cambiamento climatico. L’anime illustra le conseguenze della distruzione della natura da parte dell’uomo – qui, un’antica foresta minacciata dallo sfruttamento industriale.
Il nuovo millennio: The Day After Tomorrow, La strada, Wall-E
Ed entriamo nel nuovo millennio. In cui si moltiplicano gli esempi di prodotti della cultura pop – film, serie tv, videogame… – profondamente legati ai temi del cambiamento climatico.
Il cinema recepisce chiara e forte questa mutata sensibilità globale. In pochi anni, in campi diversi, escono opere che segnano l’immaginario collettivo. Il film-manifesto del periodo è The Day After Tomorrow (2004), autentico blockbuster che ancora oggi, a 20 anni di distanza, resta la pellicola a cui è più facile pensare come esempio cinematografico di messa in scena del cambiamento climatico.
Con le sue scene spettacolari di letali gelate improvvise e catastrofi globali ha attirato una grande attenzione popolare sul tema. Il film usa una indubbia spettacolarità, che da un lato rende molto visibile il tema, aumentando la consapevolezza del pubblico, ma dall’altro lo lega, secondo i critici, a una ipersemplificazione tipicamente hollywoodiana.
Ma il nuovo millennio vede anche l’ascesa di una forma inedita di documentari, che poi esploderanno nell’ultima decade: narrativi, profondamente coinvolgenti. A segnare il momento storico nel 2006 è il celebre An Inconvenient Truth. L’Oscar non ripaga Al Gore della sconfitta elettorale contro Bush di sei anni prima, ma offre all’ex vicepresidente di Clinton una piattaforma prima nazionale e poi internazionale in cui rilanciare il suo messaggio ambientalista. L’appassionato documentario si conclude con l’appello di Gore: se “ciascuno di noi è causa del riscaldamento globale, [anche] le soluzioni sono nelle nostre mani”.
Ma come non citare uno degli ultimi e più commoventi romanzi di Cormac McCarthy? La strada (The Road, del 2006, che diventa film nel 2009) sconfina dall’abituale ambientazione neo-western dei suoi racconti classici. Qui il grande autore americano inscena l’odissea di un padre e di un figlio in un’America irriconoscibile, devastata da una catastrofe ambientale non specificata. Ma anche se non menziona esplicitamente il cambiamento climatico, il libro – ambientato in un mondo orfano della biosfera – può essere considerato tra i migliori romanzi sulle conseguenze del disequilibrio tra uomo e natura.
Anche l’animazione americana e commerciale fiuta il nuovo vento. Con Wall-E (2008) Pixar realizza un cartoon digitale il cui protagonista è un robot-spazzino. Lasciato da solo a cercare di ripulire una Terra abbandonata secoli prima dall’umanità, dopo essere stata trasformata in una vera e propria discarica…
Il cambiamento climatico nel cinema recente: Interstellar, Mad Max, Dune
Gli anni a noi più vicini, quelli dopo il 2010, confermano la tendenza a una maggiore attenzione al tema, e vedono moltiplicarsi esempi a vario titolo memorabili. La novità è che il cambiamento climatico entra in tante storie, anche senza bisogno di esserne protagonista, come una potente e molto presente nota collaterale: in altre parole, il cinema e le serie tv, come anche videogame e fumetto, sembrano aver assimilato il rischio ambientale come un dato di fatto ormai ineludibile.
Cito a volo d’ uccello alcuni esempi evidenti. Come Interstellar di Christopher Nolan (2014), la cui storia prende il via in un pianeta Terra in cui inquinamento e cambiamento climatico hanno quasi annullato la produzione agricola e messo a repentaglio la sopravvivenza umana.
Abbiamo richiamato in apertura Blade Runner 2049 (2017), coraggioso sequel firmato da Denis Villeneuve. A parte il profetico “cielo arancione”, le scene ambientate fuori dalla metropoli rimandano a una natura avvizzita. Ed è lo stesso regista canadese ad aver diretto i due recenti capitoli di Dune, con questo pianeta desertico che aspetta di essere riportato alla vita.
Ma un altro grande ritorno è quello del franchise distopico futuribile di Mad Max, che aggiorna il vecchio classico degli anni ‘70 con due nuovi film: nel 2015 Mad Max: Fury Road e poi, nel 2024, Furiosa.
Di Snowpiercer abbiamo detto: era stato un fumetto di grande impatto, diventato con grande successo film nel 2013. In anni più recenti ne viene prodotta – cosa che ci introduce al prossimo capitolo – anche una serie tv: distribuita dal 2020, è giunta alla sua quarta stagione.
Cambiamento climatico e serie tv: The Last of Us, Il problema dei 3 corpi, Extrapolations
Impossibile in questo campo non citare The Last of Us, uno dei più grandi successi del 2023. Show che, come Fallout (2024), adatta un celeberrimo videogame post apocalittico. La cui premessa narrativa è qui una letale pandemia causata da un fungo che si è adattato alle mutate condizioni climatiche, frutto a loro volta dell’azione dell’uomo. Non solo: The Last of Us mette anche in scena l’idea di una natura tornata quietamente padrona degli spazi un tempo dominati dall’uomo – o verrebbe da dire contaminati dall’uomo.
La più importante opera di fantascienza cinese di sempre, Il problema dei tre corpi (che in realtà, come raccontiamo in questa puntata del podcast, è il titolo del primo volume della trilogia Memoria del passato della Terra), è diventata nel 2024 una serie tv. Il tema del cambiamento climatico emerge in una doppia modalità.
La prima è esplicita: durante gli anni della Rivoluzione Culturale maoista l’astrofisica Ye Wenjie assiste a una radicale distruzione ecologica (e legge il già citato saggio Primavera silenziosa, del 1962). Ed è proprio questo uno dei fattori che la spinge a scegliere di agevolare l’eliminazione dell’umanità, che considera irrimediabilmente vocata all’autodistruzione (e appunto alla distruzione ecologica). La seconda modalità in cui lo show parla del nostro tema è metaforica. Perché la questione centrale che pone – come affrontare una civiltà aliena e più avanzata che di qui a 400 anni raggiungerà e invaderà la Terra – può certamente essere letta come una potente allegoria del cambiamento climatico. Cioè una minaccia che incombe sul nostro futuro, e che solo in una logica unitaria e globale possiamo – forse – sperare di riuscire ad affrontare.
Nel 2023 ha poi visto la luce Extrapolations, miniserie tv che è presumibilmente la più costosa mai realizzata sul tema del riscaldamento globale. L’ambizione era immensa: raccontare come potrebbe essere la vita sul nostro pianeta nei prossimi 40 anni, tra tentativi di risolvere la crisi ambientale e le oggettive difficoltà nel tornare indietro. Parlando dell’estinzione dei grandi mammiferi. Dell’adattamento all’innalzarsi dei mari. Dell’intreccio tra religione, politica ed economia. Di nuove malattie infantili causate dai vasti incendi che hanno divorato parti importanti del mondo… Anche solo dal trailer capirete la complessità dei temi – e lo sforzo produttivo enorme, a partire dal cast stellare.
Peccato non se la sia filata nessuno!
Tra finzione e realtà: i documentari, Trump, Don’t Look Up
Anche in campo documentaristico il tema si conferma sempre più presente – e coinvolgente. Leonardo DiCaprio produce e narra nel 2016 un’opera sugli effetti del cambiamento climatico in tutto il mondo dal titolo eloquente: Before the Flood, prima del diluvio. Il documentario chiede ai leader mondiali di impegnarsi per un futuro più sostenibile ma indica anche agli spettatori i contributi concreti che ciascuno può mettere in campo.
Sempre in campo documentaristico il decennio si chiude con la nobile figura di David Attenborough: in A Life on Our Planet (2020) il grande divulgatore inglese, all’epoca 93enne, firma quasi un testamento spirituale – che è un atto d’accusa dai toni per lui insolitamente duri. Raccontando da testimone diretto, attraverso 60 anni di viaggi naturalistici, i cambiamenti devastanti subiti dal nostro mondo.
E la nostra risposta collettiva? Più che accogliere l’appello accorato del grande naturalista, è forse quella raccontata nel 2021 dal film Don’t Look Up. La satira apocalittica di Adam McKay racconta la surreale vicenda di due astronomi (DiCaprio e Jennifer Lawrence) che scoprono una cometa in rotta di collisione con la Terra. Accorgendosi che non basta sgolarsi, non basta l’accuratezza dei calcoli, non basta la natura catastrofica dell’impatto previsto per convincere un’umanità distratta. Politici, media, opinione pubblica non vogliono ascoltare – non vogliono sapere. Scelgono di guardare il dito anziché la luna. A partire dalla presidente americana interpretata, come si può vedere in questa clip, in stile trumpiano da Meryl Streep.
E se pensate che sia eccessivo, che sia una parodia esagerata e non credibile della realtà, beh, è proprio la trionfale rielezione di Trump a doverci aprire gli occhi. Con la sua diffidenza per la scienza e la reiterata definizione del cambiamento climatico come o un imbroglio o un fenomeno perfettamente naturale, in cui l’impatto dell’uomo non c’entra.
Il cambiamento climatico: spettacolarizzazione e rifiuto
Insomma: tra film, serie, romanzi, fumetti, il tema del cambiamento climatico è massicciamente presente nell’immaginario collettivo. Con una rilevanza e frequenza che è andata crescendo negli anni, mentre aumentava la consapevolezza di massa, mentre si accumulavano le evidenze scientifiche. E non è un fatto nuovo, una moda recente. La climate fiction è popolare da ben prima che il tema entrasse seriamente nella discussione politica, e persino da prima del moltiplicarsi degli allarmi scientifici. Lo abbiamo visto: 60 anni se pensiamo ai romanzi di Ballard, al Dune di Herbert. Mezzo secolo dagli incubi cinematografici di Soylent Green e Mad Max.
Il problema, dunque, non è una carenza di rappresentazione popolare. Anzi. Viene quasi da pensare che una certa inflazione di immagini spettacolarizzate abbia contribuito alla nostra incapacità di prendere sul serio il tema. Offrendo al crescente movimento negazionista la più facile delle obiezioni: il cambiamento climatico è un imbroglio, perpetrato dall’élite liberal politico-hollywoodiana ai danni del cittadino medio. Una questione di effetti speciali, un tentativo cinico di capitalizzare sulle paure collettive. Insomma: proprio perché spettacolare, è irreale.
E gli studi fatti in questi anni sembrano confermarlo. La scelta delle grandi narrazioni hollywoodiane a sfondo ambientale di calcare su una sola emozione primaria, la paura, non ha alimentato la consapevolezza. Al contrario, ha gonfiato la sfiducia di vaste porzioni del pubblico
E così, proprio mentre si moltiplicavano i moniti tanto della finzione quanto della realtà – tanto della fantascienza quanto della scienza -, anche quando la cometa ha iniziato ad apparire nel nostro cielo, visibile a occhio nudo, molti hanno scelto – per pavidità, per opportunismo, per dispetto – di ignorarla. Come se bastasse, per scamparla, “don’t look up”: non guardare su.
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Questa riflessione riprende alcune parti del saggio dallo stesso titolo che ho pubblicato nel volume collettivo Change! Ieri, oggi, domani. Il Po (Silvana Editoriale, 2024), in occasione della mostra omonima prodotta a Palazzo Madama dalla Fondazione Torino Musei.
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