Nelle settimane che hanno portato al collasso della candidatura Biden, nell’estate del 2024, il nome di Aaron Sorkin è tornato a suonare più forte che mai. E così quello della sua creatura più nota, The West Wing. Che proprio quest’anno compie 25 anni di età, ma che continua a mantenere un impressionante grado di attualità.
Ricordate? Dopo il disastroso dibattito con Trump, la candidatura di Biden era andata in crisi. E così era in crisi il sistema politico americano, visto che non era mai accaduto che un presidente in carica fosse costretto dalle circostanze alla difficilissima scelta della rinuncia in corsa alla nomination. Parevano ai minimi termini le speranze dei Democratici di contrastare il ritorno al potere di Trump, alla sua terza candidatura consecutiva dopo la vittoria a sorpresa del 2016 e la sconfitta del 2020. In casa Dem regnava il caos: con Biden non ce la possiamo fare; ma se si ritirasse lui, cosa potremmo fare? Come scegliere un altro candidato al volo? E avrebbe chance migliori di battere Trump?
In questo contesto assai fluido, quando ancora Biden non si era ritirato, il più importante giornale del mondo, il New York Times, si è rivolto a Sorkin. Chiedendogli di provare a immaginare – visto che lo scenario si era fatto ormai più folle del più folle script hollywoodiano – cosa avrebbero potuto fare i Democratici. Il frutto di quell’interessante esercizio di fantasia lo trovate in questo articolo, ma il succo era: Biden dovrebbe ritirarsi, e il partito dovrebbe offrire la nomination a un Repubblicano moderato, segnatamente Romney. Per lanciare un grande messaggio di unità della “America ragionevole” contro i timori del ritorno alla Casa Bianca dell’estremismo trumpiano. Sorkin aveva già immaginato, in perfetto stile The West Wing, l’epocale discorso alla convention Democratica in cui Obama avrebbe promosso il suo vecchio rivale di tanti anni prima.
Non se ne è fatto niente, diciamo, ma il punto è un altro: quando ti invitano a immaginare la realtà come se fosse un episodio di una tua serie tv, vuol dire che tu e la tua serie avete lasciato il segno. E che The West Wing rimane, a un quarto di secolo dal debutto, un modo formidabile per capire, spiegare, raccontare la politica americana. (Beh, vuol dire anche che davvero stanno collassando le barriere tra realtà e finzione, come qui a Mondoserie discutiamo spesso, ma questa è un’altra storia!).
Il senso della politica in The West Wing
Quando il 22 settembre 1999 andò in onda il primo notevolissimo episodio di The West Wing, pochi avrebbero potuto prevedere l’impatto duraturo che questa serie avrebbe avuto. Sulla televisione, certo, ma anche sulla percezione della politica e del potere negli Stati Uniti. Al contempo, probabilmente nessuno avrebbe immaginato il doppio peculiare fenomeno di cui la serie sarebbe stata involontaria e incolpevole protagonista. Quello di aver indicato un modello di politica che all’epoca era certamente ideale, e idealistico, ma forse non irraggiungibile. E che però oggi sembra essere così lontano da non sembrare neppure quasi più utopico, ma provocatorio, controfattuale. Di un altro pianeta.
A 25 anni di distanza, The West Wing si conferma qualcosa di più di un semplice (seppur ottimo) prodotto televisivo. Non solo una serie che si distinse immediatamente per la sua profondità, la qualità dei dialoghi e una brillantezza di scrittura ancora oggi ineguagliata nel panorama televisivo, ma anche e soprattutto un’opera che ha saputo tracciare un ritratto idealizzato e romantico della politica americano. E che è stata capace di mantenere intatta la sua rilevanza almeno culturale.
In un’epoca in cui il cinismo nei confronti della politica è dilagante, la serie rimane un “faro di speranza”. Continuando a raccontare una visione di leadership basata sull’integrità, l’idea di servizio, il desiderio genuino di migliorare il mondo. Nonostante la distanza temporale e i cambiamenti nel contesto politico, The West Wing resta un’opera da scoprire o riscoprire. In Italia per farlo, ahinoi, ci si deve affidare ai dvd: manca da tempo dallo streaming.
Nei prossimi capitoli esploreremo le ragioni di questo successo, la genesi della serie, la visione di Aaron Sorkin e come la sua eredità continua a influenzare – per adesione o per contrasto – il nostro modo di pensare la politica.
Disclaimer: un’altra serie del cuore
Ma prima è giusto fare un breve disclaimer, così sapete subito come la penso (se non vi interessa saltate al prossimo capitolo). The West Wing è un’altra serie del cuore. Come Lost, di cui siamo tornati a parlare anche nel podcast per il ventennale, e prima ancora come Twin Peaks (a cui abbiamo dedicato un intero speciale fatto di tanti articoli e podcast), e pur senza avere ovviamente né l’importanza e rilevanza, né la bellezza e genialità di quei due antichi capolavori, è uno di quegli show verso cui c’è amore vero. Quelli che abbiamo voglia di riguardare – a pillole, a episodi, a intere stagioni – per una ragione molto semplice: perché ci fanno stare bene.
Sarà anche per ragioni personali, biografiche: la passione per la politica l’ho sempre avuta, me ne sono occupato (e in parte ancora me ne occupo) per lavoro, ho un amore e un culto per l’oratoria pubblica come forma d’arte, come strumento reale per toccare i cuori e cambiare la testa di chi ci ascolta. Per un certo periodo l’ho persino fatta in prima persona, nella mia città, Vicenza. Ma qui, in The West Wing, la trovo nella sua forma pura, assoluta: la politica come dovrebbe essere. Cioè, detto nella forma più semplice possibile: una forza per cambiare, e migliorare, il mondo.
Ed ecco perché allo show di Sorkin perdono tutto: anche le ingenuità, anche gli errori, anche gli eccessi retorici. E, prova ancor più grande d’amore, perdono moltissimo anche allo show proseguito dopo l’uscita di scena di Sorkin (come racconteremo meglio dopo).
Insomma, proverò a raccontarvela nella maniera più oggettiva e informativa, in una dimensione critica e non partigiana. Però, lo sapete. Al cuore non si comanda.
Cos’è The West Wing: genesi e successo critico
In onda per 7 stagioni (e 154 episodi) dal 1999 al 2006, The West Wing ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Tra cui 2 Peabody Awards, 3 Golden Globe e, soprattutto, ben 27 Primetime Emmy Awards. Nei premi maggiori della tv, gli Emmy appunto, ha vinto come miglior serie drammatica per quattro anni consecutivi, dal 2000 al 2003. Corrispondenti alle prime magistrali 4 stagioni.
The West Wing nasce dall’ispirazione di Aaron Sorkin, che aveva già mostrato la sua maestria nel raccontare la politica con il film The American President (1995). Prodotta da John Wells Productions in collaborazione con Warner Bros Television, è stata trasmessa da NBC. Nonostante la difficoltà iniziale a trovare un’emittente interessata a una serie incentrata sugli intricati meccanismi della politica americana, The West Wing si affermò rapidamente come un fenomeno televisivo.
La serie si concentra sul fittizio presidente Josiah Bartlet, interpretato da Martin Sheen, e sul suo team di collaboratori, che operano all’interno del celebre “Ala Ovest” della Casa Bianca. Curiosità: Sheen era stato il capo dello staff della Casa Bianca in The American President. La caratteristica principale della serie, soprattutto nelle prime quattro stagioni, è la qualità dei dialoghi nella rappresentazione di un mondo politico in cui il confronto acceso e vibrante tra idee è centrale. Non a caso, The West Wing ricevette immediatamente il plauso della critica, diventando un punto di riferimento per il racconto televisivo sulla politica.
L’equilibrio tra dramma umano e strategia politica, unito alla capacità di affrontare temi sociali e internazionali con profondità, permise alla serie di distinguersi e conquistare un pubblico trasversale. La complessa trama politica si intrecciava infatti con storie personali, rendendo The West Wing accessibile – almeno in parte – anche a chi non aveva una conoscenza approfondita dei meccanismi del potere USA.
Aaron Sorkin e il sogno di una nuova “Camelot”
Aaron Sorkin, l’uomo dietro le prime quattro stagioni di The West Wing, ha da sempre mostrato un debole per una forma o l’altra di idealismo politico. Dando vita, attraverso diverse opere, a una sorta di “Camelot” moderna, dove la nobiltà d’animo e il servizio pubblico prevalgono sulla brama di potere. Già con The American President Sorkin aveva dimostrato la sua capacità di raccontare una politica “pulita” e ispirata, come i suoi appassionati confronti dialogici. In The West Wing, Sorkin ha creato un mondo in cui il governo e i suoi rappresentanti lavorano per il bene comune, incarnando l’ideale “liberal” di una democrazia efficiente e giusta.
Il Democratico presidente Bartlet, intellettuale colto, curioso, attento, di profonda moralità, rappresenta una visione quasi utopistica della leadership. Ma l’approccio di Sorkin non è mai privo di realismo: i personaggi affrontano crisi personali e dilemmi etici complessi. Le loro umanità, vulnerabilità, fallibilità li rendono credibili. Mentre il loro senso del dovere li rende modelli aspirazionali.
Sorkin utilizza quindi la politica come cornice per esplorare temi più ampi: il potere delle idee, la responsabilità sociale, l’importanza del dialogo civile. Questo approccio è evidente anche in altre opere dello sceneggiatore e poi regista. Come la serie The Newsroom (2012-2014) – che condivide con The West Wing la visione di un giornalismo e una politica idealizzati ma credibili. O il film A Few Good Men (Codice d’onore, 1992), in cui la giustizia e l’etica sono al centro del racconto. E il più recente impegno, anche registico, con Il processo ai Chicago 7 (2020), incentrato su una appassionante storia vera di diritti civili.
Diciamolo: Sorkin sogna un mondo migliore e usa il suo talento per portare il pubblico a riflettere su come realizzarlo.
Un racconto corale: lo staff e il “walk and talk”
Uno degli elementi più distintivi di The West Wing è il suo approccio corale al racconto. Sebbene il presidente Bartlet sia una figura centrale, la vera forza – anche ideologica – della serie risiede nel team di collaboratori che lo affianca. Leo McGarry (John Spencer), Sam Seaborn (Rob Lowe), Josh Lyman (Bradley Whitford), C.J. Cregg (Allison Janney) e Toby Ziegler (Richard Schiff) sono solo alcuni dei personaggi che rendono lo staff della Casa Bianca un gruppo affiatato e appassionato, e insieme coinvolgente per lo spettatore. Ciascuno con un ruolo essenziale nelle dinamiche politiche e personali della serie.
L’abilità di Sorkin nel costruire dialoghi veloci e brillanti è esemplificata dalla tecnica del “walk and talk”, che diventa una firma stilistica dello show. I personaggi camminano incessantemente nei corridoi della Casa Bianca, discutendo di politiche complesse e decisioni cruciali mentre si muovono da un ufficio all’altro. Questa tecnica non solo dà ritmo e dinamicità alle scene, ma traduce visivamente anche l’urgenza e la frenesia della vita politica.
Il formato corale permette inoltre di esplorare una vasta gamma di tematiche, da questioni internazionali a dibattiti etici, e di farlo attraverso punti di vista diversi. A differenza degli usuali racconti sulla Casa Bianca, non è solo il presidente a essere al centro dell’attenzione, ma un gruppo di individui impegnati e appassionati, ognuno con le proprie convinzioni e lotte personali. Questo approccio rende The West Wing molto più di una semplice serie politica: è un racconto umano sul rapporto dell’individuo col potere.
Ed è anche l’unico modo per dar corpo al concetto etico-filosofico che è l’anima dello show: l’idea che un gruppi di cittadini motivati, determinati e coesi possano davvero cambiare la società in cui vivono.
Il cast straordinario di The West Wing, tra talenti e tragedie
Uno dei punti di forza di The West Wing è il suo cast eccezionale. Letteralmente inondato di premi negli anni. Martin Sheen, che interpreta il presidente Bartlet, porta al ruolo una profondità e una credibilità fondamentali per il successo della serie. L’attore ha vinto il Golden Globe nel 2000, ma mai l’Emmy, pur essendo stato nominato come protagonista per sei delle sette stagioni. Accanto a lui, un ensemble di attori, molti già affermati, altri emergenti, che hanno dato vita a personaggi memorabili.
Se si scorrono le vittorie, ma soprattutto le nomination, di tutti i primi anni del nuovo millennio l’effetto è quasi comico. Tra i non protagonisti gli attori di The West Wing ci sono sempre, spesso in 3 o addirittura 4 a competere nello stesso anno. Tra i maschi, l’Emmy come miglior coprotagonista va nel 2000 a Schiff, nel 2001 a Whitford, nel 2002 a Spencer. Allison Janney con la sua interpretazione di C.J. Cregg, la portavoce della Casa Bianca, è diventata una delle figure più amate della televisione, vincendo ben 4 Emmy: due da non protagonista (2000, 2001) e due da protagonista (2002, 2004).
Tra gli attori più amati dal pubblico di The West Wing c’è sicuramente John Spencer, interprete di Leo McGarry, il fidato e abilissimo capo dello staff del presidente. Spencer, che aveva una lunga carriera alle spalle, portò al personaggio una gravitas e una vulnerabilità che resero Leo una figura paterna per molti membri dello staff. La sua morte improvvisa nel 2005, durante le riprese della settima stagione, colpì profondamente il cast e i fan. Quasi alla fine dello show, così, fu fatto morire anche il personaggio, che già all’inizio della stagione 6 aveva sofferto un attacco di cuore quasi fatale.
Le traversie di Sorkin e l’abbandono della serie: il declino dopo le prime quattro stagioni
Le prime quattro stagioni di The West Wing sono considerate l’apice della serie, grazie alla guida visionaria di Aaron Sorkin, che ha dato vita a dialoghi serrati, personaggi profondi e trame intrecciate con eleganza. Tuttavia, Sorkin all’epoca era notoriamente afflitto da problemi personali, tra cui una dipendenza da droghe, che influenzarono il suo rapporto con la produzione. Le tensioni aumentarono quando le sue ambizioni narrative si scontrarono con la necessità di rispettare i tempi e le logiche della televisione mainstream.
Nel 2003, alla fine della quarta stagione, Sorkin decise di lasciare la serie. Il suo abbandono segnò un momento cruciale per The West Wing, che senza la sua presenza perse una parte del suo spirito originale. John Wells, che già lavorava come produttore, prese le redini dello show. A lui va riconosciuto il merito, tutt’altro che banale, di aver saputo mantenere integra la serie. Nonostante la perdita dell’impronta di Sorkin, inconfondibile e difficilmente replicabile.
La qualità della scrittura subì un calo percepibile. I personaggi, pur rimanendo amati dal pubblico, persero parte della loro brillantezza e dei dialoghi ritmati che caratterizzavano le prime stagioni. Ma i fan, ormai legati ai protagonisti e all’amministrazione Bartlet, continuarono a seguire con passione le vicende fino alla conclusione della serie, nel 2006. Va detto alla fine che, anche senza la genialità di Sorkin, The West Wing rimase sempre un racconto politico affascinante. Magari meno incisivo di quanto fosse all’apice, ma ancora capace di inventare trame e intrecci di assoluta brillantezza. Complice anche l’appassionante arco narrativo delle ultime due stagioni…
The West Wing nelle sue sette stagioni: struttura e archi narrativi
Come molte serie drammatiche della “complex tv” delle origini, anche The West Wing si sviluppa su più livelli narrativi. Con trame che si estendono orizzontalmente per interi episodi o addirittura stagioni. Accanto a questi sviluppi di lungo termine, ogni episodio presenta comunque sottotrame più brevi, generalmente risolte nel corso della singola puntata.
La trama principale di solito ruota attorno al presidente Bartlet e al suo staff, impegnati a gestire questioni politiche o legislative. Le vicende affrontate spaziano da complesse trattative politiche con il Congresso fino a sfide personali, come il disturbo da stress post-traumatico di cui soffre Josh nella seconda stagione. A volte le vicende sono insieme sia personali che politiche, come è naturale per chi vive sotto i riflettori e lo scrutinio costante dell’opinione pubblica. É certamente il caso dell’esplosione dello scandalo che travolge l’amministrazione quando si scopre che a Jed Bartlet è stata, anni prima, diagnosticata una forma di sclerosi multipla.
La struttura degli episodi segue il Presidente e il suo team durante la loro giornata, intrecciando vari filoni narrativi accomunati da un tema centrale. Le ultime due stagioni introducono una novità. L’attenzione si divide tra le vicende all’interno della West Wing e quelle della campagna elettorale che dovrà decidere il dopo-Bartlet.
Schematicamente, le stagioni 1 e 2 mettono in scena gli anni centrali del primo mandato Bartlet. Le stagioni 3 e 4 ruotano attorno alle nuove elezioni presidenziali. Con la conferma del Nostro e l’inizio del suo secondo mandato. La stagione 5 racconta alcune importanti e difficili sfide politiche. Infine, le stagioni 6 e 7 chiudono The West Wing raccontando la lunga corsa delle primarie per scegliere i candidati Democratico e Repubblicano. Quindi la contesa elettorale. Infine la transizione con la nuova amministrazione.
A quali figure reali si ispira The West Wing?
Uno degli aspetti più affascinanti di The West Wing è la sua connessione con la realtà politica americana. Sebbene il presidente Josiah Bartlet sia un personaggio fittizio, è evidente che molte delle sue caratteristiche, così come quelle dei suoi consiglieri, traggono ispirazione da figure politiche reali. Bartlet, anche grazie all’interpretazione appassionata di Martin Sheen, richiama per alcuni aspetti il carisma e l’acume di John F. Kennedy. Ma anche la ventata di ottimismo con cui Bill Clinton era arrivato alla Casa Bianca, nel 1992. Bartlet è un leader che combina fede religiosa, profondità morale e competenza economica. Caratteristiche che lo distinguono dagli standard dei presidenti televisivi (e pure reali, spesso).
Allo stesso modo, i suoi consiglieri sembrano ispirarsi a figure chiave dell’era Clinton. Il vice-capo dello staff Josh Lyman, ad esempio, è spesso considerato un riflesso di Rahm Emanuel, battagliero consigliere di Clinton, primo capo dello staff di Obama, poi sindaco di Chicago (e attualmente ambasciatore americano in Giappone). Mentre Sam Seaborn, vice-direttore della comunicazione, ricorda un giovane David Axelrod o George Stephanopoulos, spin doctor e stratega politico di Bill Clinton.
Ma numerosi sono i casi di reali operatori politici che hanno collaborato con lo show. L’ex assistente del Senato Lawrence O’Donnell e l’ex assistente della Casa Bianca e speechwriter per le campagne presidenziali Eli Attie sono stati entrambi scrittori di lunga data della serie (O’Donnell per le stagioni 1–2 e 5–7, Attie per le stagioni 3–7). Gli ex portavoce della Casa Bianca Dee Dee Myers e Marlin Fitzwater, così come i sondaggisti Patrick Caddell e Frank Luntz, hanno lavorato come consulenti per lunghi periodi della serie. Altri ex membri dello staff della Casa Bianca, come Peggy Noonan e Gene Sperling, hanno contribuito per più brevi periodi.
Gli intrecci premonitori con la realtà: Santos – Obama, le elezioni 2008
Un elemento curiosamente affascinante di The West Wing – su cui ovviamente i fan hanno ricamato a più non posso – è il modo in cui alcuni eventi e personaggi della serie sembrano aver anticipato sviluppi reali della politica americana. L’esempio più eclatante è la campagna presidenziale di Matt Santos (Jimmy Smits, Sons of Anarchy), che nelle ultime stagioni della serie si lancia nella corsa alla Casa Bianca come un outsider carismatico e progressista. La storia di Santos (un esponente della minoranza latina) richiama in modo impressionante quella di Barack Obama, che sarebbe stato eletto presidente (il primo afroamericano) due anni dopo la fine della serie, nel 2008.
Santos, un candidato giovane e fresco, e relativamente inesperto, con la sua retorica di speranza e cambiamento, sembra una versione premonitrice di Obama. Non solo. Altri elementi della campagna fittizia delle fittizie elezioni del 2006 (così nell’universo narrativo della serie) hanno finito per anticipare fattori reali delle vere elezioni 2008. Per esempio il modo in cui, tra i Democratici, il giovane outsider sbaraglia, dopo primarie molto combattute, un’avversaria data per nettamente favorita (Obama contro Hillary Clinton). Scegliendo poi come candidato vicepresidente un politico di lungo corso ed esperto (nel caso di Obama, Biden; nello show, Leo McGarry). O, in campo Repubblicano, l’emergere di un “maverick” trasversalmente molto rispettato e proveniente da uno Stato occidentale: nella serie il senatore californiano Arnold Vinick (interpretato da Alan Alda, Emmy 2006 come non protagonista), nella realtà il senatore dell’Arizona John McCain.
Un intreccio tra fiction e realtà che mostra la capacità di The West Wing di riflettere dinamiche politiche profonde. Sia affrontando con realismo temi attuali (l’11 settembre, conflitti geopolitici, riforme normative, discussioni etiche, terrorismo interno ed estero…). Sia, come per Santos-Obama, in modo quasi profetico.
La critica: “The Left Wing”, una serie esageratamente partigiana?
Dal punto di vista del pubblico, lo show ha saputo conquistare un’audience trasversale, e mantenerla per molti anni. In termini di critica politica, invece, uno dei punti più frequenti sollevati contro The West Wing è quello del suo “sbilanciamento ideologico”. Tanto da spingere alcuni detrattori a etichettarla come “The Left Wing”, a indicare un suo essere eccessivamente di sinistra. In questa lettura, la serie presenterebbe una visione idealizzata della politica progressista. Dipingendo i personaggi e le politiche della sinistra come moralmente superiori. Mentre il lato conservatore sarebbe frequentemente rappresentato in maniera negativa, se non addirittura caricaturale.
Questa critica non è priva di fondamento. Il protagonista della serie, il presidente Josiah Bartlet, incarna un ideale liberal. Un uomo di grande intelletto, compassione e rigore morale, capace di coniugare una fede cattolica profonda con un approccio progressista alle questioni sociali, economiche e politiche. Anche se proprio la sua fede, e il suo rispettoso amore per la Costituzione e i “check and balances” istituzionali, lo hanno fatto apprezzare pure dai conservatori. Va detto che Bartlet, con i suoi consiglieri, spesso si trova a scontrarsi con l’opposizione repubblicana, rappresentata talvolta da personaggi meno carismatici o più cinici. In diverse occasioni, la serie sembra implicitamente trasmettere l’idea che la sinistra sia “dalla parte giusta della storia”. Temi come il controllo delle armi, i diritti civili, la sanità pubblica e l’immigrazione sono affrontati da una prospettiva che riflette chiaramente i valori del progressismo.
Aaron Sorkin, creatore della serie, non ha mai nascosto la sua visione politica, pur veicolandola in un grande show di impianto commerciale. La sua intenzione non era tanto di dare voce a entrambe le parti del dibattito, quanto di mostrare come la politica possa essere uno strumento positivo – e un mondo coinvolgente.
The West Wing come (raro) racconto positivo della politica
Nell’epoca della cosiddetta “complex TV”, The West Wing si distingue come un’eccezione nella sua messa in scena della politica. L’ultimo quarto di secolo è infatti stato caratterizzato da un accumularsi di narrazioni radicalmente pessimistiche sulla politica e il potere. Qualche esempio per tutti. House of Cards e Scandal su tutti. Ma poi attraverso gli anni The Wire, Designated Survivor, Boss, o per restare in Italia 1992-1993-1994. Pensiamo anche a come una serie super-eroica come The Boys abbia deciso di mettere sempre più al centro della propria satira la degenerazione del confronto politico negli Stati Uniti (è il tema della quarta stagione, di cui abbiamo parlato qui).
Tutto questo rende ancora più eccezionale la “differenza” posta dal nostro show. In un lungo e articolato approfondimento pubblicato qui su Mondoserie si esplora proprio questo aspetto: in un panorama mediatico dominato dalla rappresentazione di un potere “sporco”, violento, paranoico e narcisista, The West Wing offre una visione alternativa. È uno dei pochi racconti televisivi in cui la politica non viene vista come un’arena corrotta e manipolatrice. Ma come un luogo in cui, nonostante le difficoltà e le sfide, è ancora possibile perseguire il bene comune.
Questo approccio può sembrare ingenuo a molti spettatori contemporanei, ma ci ricorda che la politica può essere, e dovrebbe essere, uno strumento per migliorare la vita di nazioni, comunità, persone. È questo ottimismo – basato su un solido realismo – che ha reso la serie così speciale. Differenziandola da molte altre produzioni a sfondo politico.
L’influenza sociale, culturale e storica di The West Wing
The West Wing ha influenzato profondamente la narrazione politica in altre produzioni cine-televisive, offrendo un modello per show che volevano esplorare il potere a stelle e strisce. Anche non necessariamente da una prospettiva idealistica o moralmente impegnata. Ma la sua influenza non si limita al piccolo schermo. La serie ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare e nel discorso politico americano. Molti politici, giornalisti e attivisti si sono lasciati ispirare dalla serie, riconoscendo spesso il suo impatto nel risvegliare una passione per il servizio pubblico – o per le astuzie della politica.
Cosa ancora più rilevante, lo show ha saputo offrire una rappresentazione così potente, particolareggiata, complessa, realistica, da aver contribuito attivamente a plasmare la percezione pubblica del ruolo del presidente. E del funzionamento della Casa Bianca. Dando vita una molteplicità di personaggi, intrecci, situazioni che per gli addetti ai lavori o gli appassionati della politica americana tornano spesso in mente.
Citavo in apertura la richiesta a Sorkin di immaginare, prima del ritiro di Biden, cosa sarebbe potuto succedere nel campo Democratico. Ma è capitato tante volte che idee narrative di The West Wing si siano riversate nella realtà. Uno dei casi più buffi si è verificato nel gennaio 2006, quando si disse che lo show avesse avuto un ruolo nel far fallire una proposta sostenuta dal governo di Tony Blair alla Camera dei Comuni britannica, a causa del cosiddetto “West Wing Plot”. Il piano sarebbe stato ideato dopo che un membro conservatore del Parlamento britannico aveva visto l’episodio “A Good Day” (6×17), in cui i Democratici bloccano una legge volta a limitare la ricerca sulle cellule staminali, fingendo di aver lasciato Washington D.C. e nascondendosi in un ufficio congressuale fino a quando lo Speaker Repubblicano convoca il voto.
Perché vedere o rivedere The West Wing, 25 anni dopo
Vabbé, se non vi ho convinto dopo questo articolone difficilmente ci riuscirò alle ultime righe. Ma non si sa mai. Come insegna The West Wing, un singolo momento di perfetta efficacia può ribaltare il tavolo e rovesciare ogni pronostico. Come fa Mat Santos nell’episodio 6×15, “Freedonia”, ormai quasi senza fondi e con sondaggi che lo tengono ai margini delle primarie, quando registra live in una piccola emittente tv del New Hampshire un messaggio emozionante e che si mostrerà capace di risuonare con gli elettori, perché autentico e appassionato.
Posso ancora dire questo. Che a 25 anni dal suo debutto, The West Wing rimane una serie non solo potente, o attuale. Ma persino necessaria. Proprio in un’epoca dominata dal risentimento e dal disincanto, rivisitarla ci riconnette con un’idea di politica che non ha dimenticato la sua missione principale: servire il bene comune con onore, rispetto, passione, onestà. Guardare The West Wing oggi è un esercizio di speranza e ispirazione, in un mondo che offre poco dell’una e dell’altra.
Vediamola in questi termini. Che la serie sia idealistica è certo. Romantica, pure. Ma che per questo possa apparirci ingenua, irrealistica, persino non credibile nel raccontare uomini e donne che nella politica cercano la chiave per costruire un mondo migliore, al meglio delle loro capacità, beh, più che dell’invecchiamento di The West Wing è un segno di come si sia intristito il nostro tempo.
Il racconto oscuro della politica in tv e al cinema
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