Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio è un documentario in 5 episodi (Netflix, 2024) diretto da Gianluca Neri. Attraverso testimonianze, interviste ad esperti, familiari e giornalisti che all’epoca seguirono il caso, e avvalendosi di materiali inediti e di repertorio, la docuserie ripercorre e la vicenda in sé – la sparizione e l’omicidio di Yara Gambirasio -, e le controversie investigative che hanno portato – attraverso tre gradi di giudizio – alla condanna all’ergastolo per Massimo Bossetti. Ma la sua colpevolezza è stata davvero provata al di là di ogni ragionevole dubbio?
Gianluca Neri (già autore di SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano) ha iniziato per Il caso Yara il lavoro di documentazione nel 2017. Quattro anni dopo, assieme a Carlo Gabardini e Elena Grillone, comincia la scrittura vera e propria della docuserie. Che ha utilizzato, raccolto e analizzato un’enorme quantità di materiale, pari a 60 faldoni (60.000 pagine tra documenti audio e video). Materiale proveniente da venti diversi archivi, sfociato infine – all’interno della docuserie – in una sintesi di quasi due ore.
Strazianti – e discutibili – gli audio dei messaggi lasciati dalla madre di Yara nella segreteria del suo cellulare. Usati senza l’autorizzazione dei diretti interessati, che si sono detti “indignati”. Spiazzante anche l’inedita intervista dal carcere a Massimo Bossetti, che non ha mai smesso di proclamare la propria innocenza.
L’eco mediatica de Il caso Yara
Il caso Yara ha suscitato non poche polemiche. Soprattutto per il presunto orientamento innocentista della serie. Ad esempio il genetista Giardina, intervistato dal Fatto Quotidiano, afferma che in montaggio le sue dichiarazioni sono state manipolate e banalizzate. Su questa linea, in molti hanno accusato la docuserie di aver volutamente travisato diversi dati processuali. Perché Il caso Yara agisce principalmente sulle ricostruzioni di due differenti piani temporali: uno inizia dalla scomparsa della ragazza, l’altro dall’arresto del manovale. E la domanda fondamentale che rimane sullo sfondo di ogni episodio è: può l’enorme pressione esercitata dall’eco mediatica del caso aver inciso su indagini e verdetto, sì che quest’ultimo non sia propriamente stato espresso al di là di ogni ragionevole dubbio?
Ad ogni modo, questa docuserie è stata divisiva ancora prima della sua uscita. È giusto rimettere in discussione un verdetto che è stato già confermato in tutti e tre i gradi di giudizio? (Per inciso, assolutamente sì). Due settimane prima della sua uscita su Netflix (16 luglio 2024), il settimanale Oggi rivela che il documentario contiene un’intervista esclusiva a Massimo Bossetti (condannato il 12 ottobre 2018). La sera stessa il programma In onda, condotto da Luca Telese e Marianna Aprile (che ha firmato l’articolo su Oggi), mostra in anteprima il trailer de Il caso Yara.
Questa è, paradossalmente, l’ennesima conferma del potere dei media. L’uscita della docuserie non sarebbe stata un fatto di cronaca se giornali e TV non l’avessero da subito trattata come tale. Come diceva Luttazzi, probabilmente parafrasando qualcun’altro: “Trovo stupefacente che nel mondo accadano ogni giorno tanti fatti quanti ce ne stanno in un quotidiano“.
Un oscuro romanzo pulp
I media, si diceva, hanno fin dal principio rivestito un ruolo chiave in questa triste vicenda. L’atavica fame popolare di notizie e dettagli, meglio se pruriginosi, ha trasformato in oscuro romanzo pulp la morte di Yara Gambirasio. Con la complicità di una moltitudine di plastici, grafici e millantati esperti, la cui vanvera catodica ha contribuito non poco a guidare gli stessi eventi. Di più, questo fenomeno di massa ha portato alle luci della ribalta, per tutta la durata delle indagini, il pm Letizia Ruggeri. Resa protagonista da suddette luci, la Ruggeri ha forse talvolta forzato il percorso della giustizia, affinché una giustizia qualsiasi fosse infine fatta? Questo il terribile sottotesto interrogativo della docuserie.
Velocemente: Yara Gambirasio, tredicenne di Brembate di Sopra (Bergamo) scompare la sera del 26 novembre 2010. Il cadavere viene casualmente ritrovato il 26 febbraio 2011, a 10 chilometri di distanza. Dopo anni di travagli investigativi e assurdi colpi di scena, nel 2014 viene arrestato per il delitto un muratore della zona, Massimo Bossetti.
La prova regina a suo carico – e in generale buona parte di questa storia – ruota intorno al DNA. Sugli slip di Yara ne viene infatti trovata una traccia che rimanda a uno sconosciuto, denominato in via provvisoria Ignoto 1. Per individuare Ignoto 1 sono stati analizzati i profili di diecimila persone: la più grande ricerca genetica mai avvenuta in Italia. I cui esiti hanno dato vita ad una serie di coup de theatre a dir poco sconvolgenti, con riesumazioni, figli illegittimi e quant’altro…
Come ingarbugliare una matassa gordiana
Da lì il caso di cronaca nera è divenuto un vero e proprio ipnotico vorticoso calderone mediatico, la cui pressione si è fatta ad un certo punto insostenibile. Si doveva trovare il colpevole. Si doveva trovare un colpevole, a tutti i costi. Bisognava mettere un punto a questa storia. Ma questo punto è stato messo al di là di ogni ragionevole dubbio? Il caso Yara mette criticamente in discussione esito processuale e procedure investigative, evidenziando lacune e incongruenze nelle prove, assieme ad ipotetici errori e anelli deboli nella catena di eventi ricostruita dalla pm Ruggeri.
Paradossalmente, la divisione tra colpevolisti e innocentisti in Italia è ancora una volta una questione eminentemente mediatica. L’immagine di Bossetti – ben delineata nell’intervista in esclusiva – non corrisponde per niente all’efferato mostro costruito a priori dalla macchina dell’informazione. Qualcosa sembra non tornare.
Ne Il caso Yara Massimo Bossetti è un uomo qualsiasi, lampadato e umiliato a più riprese, ridicolmente tinto e ripetutamente tradito dalla moglie Marita (che ha modo di confessarlo nella sua stessa intervista), un operaio edile senza particolari qualità, che alla fine scoppia anche a piangere, apparentemente crocefisso dagli eventi – sicuramente più grandi di lui. Gli eventi in questione poi, dal prelievo di massa del DNA alla rocambolesca individuazione di Ignoto 1, da Mohammed Fikri fermato in acque internazionali alla sua lapidazione mediatica (anche questa a priori) avvenuta in un lampo, dal dignitoso riserbo dei Gambirasio (anche riguardo questa serie il loro avvocato ha dichiarato che non hanno in alcun modo partecipato alla sceneggiatura, “ben contenti di non averlo fatto”) agli intrighi da soap intorno alla trapassata figura di un paesano tombeur de femme… Tutti questi eventi concorrono ad ingarbugliare una matassa già di per sé oltremodo gordiana.
Dichiarazioni inopportune e opportuniste
La docuserie chiude con la notizia dell’iscrizione del pm Letizia Ruggeri nel registro degli indagati per depistaggio. E con Bossetti in lacrime. Forse perché, oltre ai tre gradi di giudizio che hanno confermato il suo ergastolo, anche il suo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stato respinto. Il caso Yara mostra poi l’assedio mediatico vissuto dalla famiglia Gambirasio dalla scomparsa della figlia, così come quello della famiglia Bossetti dall’arresto di Massimo.
Ci sono dichiarazioni di tutte le parti in causa, ad eccezione della Ruggeri e, naturalmente, dei Gambirasio. Non mancano poi mitomani, millantatori e dichiarazioni inopportune da parte di personaggi altrettanto inopportuni. Ci sono anche interventi, per così dire, più opportuni (talvolta addirittura opportunisti), come quello del comandante provinciale dei Carabinieri o quello del medico legale.
Ci sono infine gli immancabili riferimenti alle sfuggenti figure di Silvia Brena, l’insegnante di ginnastica, e Valter Brembilla, il custode della palestra. Questi due nomi sono al centro di tante teorie alternative della rete – ve ne sono anche di esoteriche! – su cosa sia realmente accaduto quella sera. Il caso Yara si limita, più prudentemente, a farvi riferimento senza cadere in pindariche speculazioni.
L’aleatoria realtà de Il caso Yara
“Una serie televisiva non può ribaltare la certezza della colpevolezza di Massimo Bossetti” si dice da qualche parte, commentando questo documentario. Si fa notare che non tutto ruota intorno al DNA (elemento la cui acquisizione è nella serie fortemente contestata); vi sono a carico di Bossetti altri indizi (per altri ‘prove’). Il caso Yara cerca puntualmente di smontare o quantomeno di contestare tali prove o tali indizi a suo carico. Cerca in sostanza di insinuare un dubbio – a nostro parere assolutamente legittimo – laddove la giustizia italiana ha già posto il proprio inappellabile marchio tombale.
Certo, rimane invarcabile la distanza tra l’aleatorietà di un documentario e la solidità del procedimento processuale. Ma sarà poi davvero così solida questa supposta solidità? E davvero così aleatorie le tesi della docuserie? Bossetti resterà in carcere a scontare l’ergastolo, questo non cambia. Ciò che invece può cambiare è la nostra coscienza di questo stesso ergastolo. E della sua ragion d’essere, al di là d’ogni ragionevole dubbio.
Dello stesso autore de Il caso Yara: SanPa
Luci e ombre in un’altra celebre scomparsa: Vatican Girl
Vatican Girl – mafia, KGB e pedofilia nello stato pontificio