Boris è un cult seriale composto da 4 stagioni e un film, da un soggetto di Luca Manzi e Carlo Mazzotta. Sceneggiate da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, le prime tre storiche stagioni (14 episodi l’una) vanno in onda dal 2007 al 2010. Dopo l’uscita al cinema di Boris – Il film (2011), scritto e diretto dallo stesso trio, e a ben 15 anni dal debutto, nel 2022 Disney+ ospita gli 8 episodi della quarta (nella sua attesa avevamo realizzato questo podcast).
Le prime tre, uscite sui canali satellitari Fox e FX, in seguito in chiaro su Cielo, non ebbero inizialmente grande risonanza. Boris divenne una serie culto – addirittura con numerose citazioni entrate nell’uso comune – grazie al passaparola e alla pirateria informatica di allora. Quindici anni fa non esistevano piattaforme streaming. Doveva ancora affermarsi il fenomeno dei social network. E in Italia prevaleva ancora il pubblico delle classiche fiction generaliste nostrane, in opposizione agli amanti del made in USA.
Bizzarra, anarchica e dirompente, Boris – sottotitolo: La fuori serie italiana – mette in scena il dietro le quinte di un’immaginaria soap televisiva italiota. Nello specifico: Gli occhi del cuore 2 (Gli occhi del cuore è anche il titolo della sigla, firmata Elio e le Storie Tese), posticcia sbobba ambientata nel melodrammatico mondo degli ospedali. Di deriva comunque americana: dopo l’ubriacatura con E.R. – Medici in prima linea, era infatti da poco iniziato Grey’s Anatomy.
Boris: un’altra televisione è possibile (a cazzo di cane)…
Protagonista è dunque la troupe, capitanata dal mitico regista René Ferretti (un fantastico Francesco Pannofino), alle prese con questa stucchevole e improbabile produzione. E con l’illusorio e consolatorio mantra che “un’altra televisione è possibile”. Rituale scaramantico di questo regista depresso e disilluso, incastrato sempre più nel compromesso e nella mediocrità – e che sempre più vede in lui spegnersi qualsiasi ambizione artistica – è avere sul set il suo pesce rosso. Chiamato per l’appunto Boris (in onore a Becker, il tennista).
Una simpatica – e soprattutto muta – mascotte d’acqua dolce, costretta ad assistere a nefandezze e turpiloqui d’ogni sorta attraverso la lente deformata della sua boccia d’acqua. Che diventa ora improvvisata sfera di cristallo ora (semplice?) allegoria del piccolo schermo. Di tanto in tanto si risveglia però la selvaggia passione per il cinema di Ferretti. Lo vediamo esaltarsi vulcanicamente (“Dài, dài, dài!”), sbraitare contro l’ottusa realtà che lo circonda (“cagna maledetta!”) e infine arrendersi all’evidenza della ‘monnezza’ che sta girando. Che richiede una peculiare involuzione filosofica, estetica e metodologica: bisogna infatti pensare a agire “a cazzo di cane”, perché questo vuole il pubblico televisivo. No, un’altra televisione è impossibile. A cazzo di cane! E tornare a parlare al pesce rosso. E a convivere con la propria vergogna.
I prodotti seriali del duopolio di allora – Mediaset e RAI – erano rivolti ad un pubblico di massa votato all’esclusivo intrattenimento dopolavoristico. Anni di televisione commerciale e dunque di televendite, seminudi femminili e demenzialità, avevano abbassato di molto il livello generale. Il risultato? Un posto al sole e I Cesaroni: macchine narrative abusate e stucchevolmente consolatorie. A proposito, sublime ironia della sorte: Sermonti, l’attore che interpreta Stanis – che ne Gli occhi del cuore 2 interpreta il dottor Corelli – è il dottor Zanin in Un medico in famiglia…
Gli improbabili protagonisti di Boris
“Non la vuole nessuno una fiction diversa! Ma tu ti rendi conto cosa succederebbe se veramente qualcuno facesse una fiction più moderna? Ben scritta, ben recitata, ben girata… Tutto un intero sistema industriale fondamentale per il nostro paese da un giorno all’altro dovrebbe chiudere!” (Lopez). Ed è in questo preciso momento di amara consapevolezza di René che interviene sornione il cocainomane Duccio (Ninni Bruschetta): “che faccio maestro, smarmello tutto?”. L’aplomb fancazzistico del pur talentuoso (in potenza) direttore della fotografia si riassume in: “io qua mi trovo a mio agio perché ti chiedono di lavorare poco e male e ti pagano bene”.
Vi è poi Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti), divo dalla vanità psicopatica (“Io considero Kubrick un incapace! Lo considero il classico esempio di instabilità artistica. È uno che affrontava un genere, falliva e passava a un altro genere.”). E Corinna (Carolina Crescentini), la “cagna maledetta” incapace di pronunciare la parola ‘gioielliere’. Non potendosi liberare in alcun modo dei due attori raccomandati dall’alto, il regista è costretto a chiedere al maestro Serpentieri (il compianto Roberto Herlitzka praticamente nei panni di sé stesso) di recitare alla cazzo di cane. Affinché il dislivello tra lui e i protagonisti della soap non sia così sfacciato.
Tra i raccomandati c’è pure l’inamovibile e alcolizzata Itala (Roberta Fiorentini), la segretaria di edizione, probabilmente l’unica che segue, commuovendosi, Gli occhi del cuore. Di trash in trash si arriva a Biascica (Paolo Calabresi), il romanissimo e gretto capo elettricista, con schiavo al seguito – Lorenzo (Carlo Luca De Ruggieri) – il cui soprannome è appunto ‘schiavo’.
“Occhi del Cuore esisterà sino a quando esisterà un paese chiamato Italia”…
Attraverso le situazioni surreali e carnevalesche di quest’opera sostanzialmente corale, siamo guidati da quella che è l’ultima ruota del carro: Alessandro, lo stagista (Alessandro Tiberi). Il primo episodio coincide con il suo primo giorno di lavoro. E infatti lavorerà (anche lui) come uno schiavo. Alle dipendenze di Arianna (Caterina Guzzanti), l’efficientissima e implacabile assistente alla regia. Senza la sua solerzia e lucidità crollerebbe in un istante tutta la baracca.
Per incrementare ulteriormente la tensione metatelevisiva della serie, nel documentario backstage (Gli occhi di Boris) scopriamo che anche la vera assistente alle regia si chiama Arianna. E che al suo modo di fare si è molto ispirata Caterina Guzzanti. E che alcuni tecnici de Gli occhi del cuore fanno in realtà parte della troupe di Boris. Brillante e spericolata mise en abyme in cui, assieme all’ingenuo stagista, viviamo lo sbalordito spiazzamento di fronte agli oscuri e ridicoli meccanismi produttivi di una fiction italiana.
Per completare allora il quadro di questa infernale macchina autoreferenziale mancano il delegato di produzione Sergio (Alberto Di Stasio), meschinamente preoccupato di spendere il meno possibile, non certo per amore del risparmio. E il mellifluo manipolatore Lopez (Antonio Catania), il delegato della fantomatica rete agli ordini del misterioso dottor Cane. Che non viene mai inquadrato in volto ma che più o meno profeticamente dice: “Occhi del Cuore esisterà sino a quando esisterà un paese chiamato Italia”…
Il grottescamente verosimile di Boris
Vi è infine l’assurdo trio di sceneggiatori scansafatiche (Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo e Andrea Sartoretti) – “4.000 euro a settimana per scrivere ‘sta merda!” – impreca spesso Ferretti, a cui si deve il mitico continuo ricorso al tasto F4 (a cui corrisponde l’espressione ‘basito‘ con cui caratterizzano praticamente ogni personaggio in ogni situazione).
Colpevole cialtroneria e scaltra inettitudine sono le caratteristiche di questi soggetti, strapagati per concepire forme sempre nuove del brutto e dell’ovvio. Che prendono vita in quegli anonimi capannoni ripresi dall’alto nelle scene iniziali (veri teatri di posa romani). Tra stralunati studi di posa, piccoli uffici improvvisati e camerini sperduti dentro giungle di cemento…
Boris (che avrebbe dovuto inizialmente chiamarsi Sampras!) è un memoir di testimonianze e leggende di quanto realmente accadeva sui set romani e milanesi. Rigorosamente incredibile, e a suo modo vero. Oppure grottescamente verosimile. E con notevole audacia: se la Magnesia è una parodistica Magnolia, ecco che le fiction RAI di allora – Capri e Vento di Ponente – diventano, non certo velatamente, Libeccio e Caprera.
Ad ogni modo questa intelligente e mai scontata satira dello show business nostrano agisce narrativamente sia sul piano verticale che su quello orizzontale. Ogni episodio ha una sua relativa autonomia e parallelamente si sviluppa un’evoluzione della storia e dei personaggi. Alla fine anche noi, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, in compagnia dello stagista sempre più smaliziato, impariamo a destreggiarci e sguazzare con maliziosa cognizione di causa in questo labirintico folle mondo.
Boris – Il film
Oltraggioso e burlesco specchio della realtà seriale italiana di allora, il tema delle prime tre stagioni di questo gioiello – il dietro le quinte di una soap – non aveva da noi precedenti. Gli USA avevano invece sullo stesso tema prodotto l’irresistibile 30 Rock e addirittura David Lynch vi si era cimentato, purtroppo senza successo, con la surreale On The Air. Ci si poteva fermare lì, alla fine della terza stagione. E invece, un paio d’anni dopo (2011), esce un lungometraggio al cinema: Boris – Il film, scritto e diretto dai tre sceneggiatori originali. Che non è una trasposizione cinematografica della serie, quanto piuttosto un sequel cinematografico.
Perché, continuando con il sublime senso di mise en abyme di questo progetto, nel film il nostro René Ferretti riesce finalmente a realizzare il suo sogno di dirigere proprio un film. D’autore, anzi: “alla Gomorra”. Si tratta di inscenare nientemeno che il bestseller La casta di Stella e Rizzo (famoso libro inchiesta sulla corruzione del potere in Italia). Il suo sogno di poter lavorare finalmente con dei professionisti andrà però sgretolandosi passo dopo passo. Costretto dagli eventi a dover alla fine rivolgersi alla sua vecchia troupe di sempre, eccoli tutti (più o meno) felicemente alle prese con una pellicola. E noi con il dietro le quinte di buona parte dei meccanismi del cinema nostrano.
Tra allusioni più o meno velate e/o profetiche (la più grande attrice del momento Marilita Loy / Margherita Buy, il grande attore Campo morto per overdose da eroina), e assurdità varie (“l’impepata di cozze” degli sceneggiatori, Stanis che vuole interpretare a tutti i costi Gianfranco Fini), l’opera si trasforma fino a divenire un cinepanettone: Natale con la casta. Successo clamoroso di pubblico. René Ferretti, schifato dal cinema ancora più che dalla televisione, torna alla fiction che aveva abbandonato: Il giovane Ratzinger.
Boris 4
Dopo Boris – e anche grazie a – molto è cambiato nel mondo delle serie made in Italy. L’orizzonte seriale, ora dominato dalle piattaforme e dallo streaming, da Romanzo Criminale a Bang Bang Baby passando per l’internazionalissima Gomorra, è decisamente cambiato. Dopo oltre 10 anni di latitanza – e a chiaro furor di popolo – esce la quarta (ultima?) stagione. Non solo di piattaforme e di streaming: il paese si è nel frattempo popolato anche di smartphone e social network. Molto in Italia è in effetti cambiato e Boris 4 ha l’ambizione di raccontarne odierni totem e tabù. Naturalmente sempre attraverso lo specchio del dietro le quinte.
Con la moltiplicazione delle opere televisive seriali, come raccontiamo spesso in Mondoserie, realtà e finzione sembrano sempre più vicine, se non addirittura intercambiabili. Sotto questo aspetto Boris, come finzione, aveva – inconsapevolmente? – precorso i tempi. Poi ci ha pensato la realtà: da Fox – e soprattutto dal sottomondo piratesco – attracca su Netflix nel 2020. Complice forse il lockdown, conosce una nuova primavera. Arriva allora il sopracitato furor di popolo, e Disney+ (che nel frattempo ha acquisito la 20th Century Fox) produce l’impresa (2022).
“Siamo riusciti ad essere graffianti pur stando dentro la piattaforma che criticavamo” viene detto alla presentazione. Boris 4 è la logica continuazione di sé. La stessa delirante troupe, questa volta alle prese con la vita di Gesù, prodotta dalla SNIP – So Not Italian Production – di Stanis La Rochelle (naturalmente protagonista). Il lavoro è stato commissionato per l’appunto da una megapiattaforma gestita da manager americani. I quali seguono religiosamente i dettami del misterioso Algoritmo – che ha preso il posto degli italianissimi Auditel ed Exit Poll.
Una scommessa azzardata
Ci sono davvero (quasi) tutti: in primis il combattente e combattuto René. Poi Stanis e Corinna, divenuti coppia glamour da rotocalco (meglio, da social e like). Lopez, che gestisce flussi di denaro di dubbia provenienza (non è vero: di chiarissima e mafiosa provenienza). Il serafico e ciecato Duccio, tornato da Bollywood assieme a Lorenzo. Biascica, che cerca inutilmente di seguire le nuove rigide linee guida comportamentali imposte alla produzione. Last but not least, Arianna e Alessandro – che nel frattempo è diventato il responsabile della piattaforma. La considerazione di cui gode sul set, nonostante il prestigio dell’incarico, cambia però di poco.
Ritroviamo altresì fantastici personaggi secondari: Mariano (Corrado Guzzanti), l’attore piromane e sociopatico che dalla paranoia religiosa è ora passato all’amore per le armi. Glauco (Giorgio Tirabassi), scafato regista e direttore della fotografia amico di René. La procace e ninfomane Karin (Karin Proia) e Nando Martellone (Massimiliano Bruno) l’attore comico che cerca di fare il salto drammatico… Ce ne sarebbero tanti altri, ma citarli tutti sarebbe cosa lunga. Vogliamo però ricordare che ospiti d’eccezione, nel corso delle stagioni, sono stati: Valerio Mastandrea, Laura Morante, Filippo Timi, Marco Giallini e Paolo Sorrentino.
Boris 4 è stata indubbiamente una scommessa azzardata: riuscire ad affrontare nuovi temi (l’algoritmica intelligenza artificiale, l’imposizione ovunque del politically correct, la subalternanza nostrana al mercato americano, il riciclaggio di denaro malavitoso attraverso le produzioni televisive, l’inefficace tentativo di associazionismo degli attori ecc.) mantenendo fedelmente intatte struttura e spirito dell’opera.
“L’inferno è pieno di quarte stagioni”
Cercando anche di portare la metanarrazione in territori addirittura iperbolici. Non più solo satira: vi è ora una vena quasi poetica. Data dalla consapevolezza della rilevanza culturale assunta dalla serie in oltre 10 anni di citazioni di frasi cult. Boris 4 gioca ancor più consapevolmente con se stesso. E per questo stesso motivo, rispetto alla dirompente forza degli inizi, finisce con il diventare evanescente.
Così come nel primo episodio viene celebrato il funerale del personaggio Itala, omaggiando in tal modo la scomparsa dell’attrice, anche la morte di Mattia Torre (2019), viene elegantemente inscenata da Vendruscolo e Ciarrapico, qui autori e registi. “L’inferno è pieno di quarte stagioni” ci dice la visione fantasma del personaggio sceneggiatore che corrisponde a chi non c’è più. Sublime cortocircuito, forse amara consapevolezza di stare tirando una corda che era quasi doveroso non tirare…
Proprio per questo con Boris 4 arriviamo finalmente ad un finale: la lunga estenuante battaglia di Ferretti contro il pressapochismo e la monnezza tanto volute dal mercato, e in fondo contro se stesso, arriva alla fine. Il nemico qui è incarnato dall’impersonale algoritmo e dalla piattaforma che si incarica di applicarlo. Attraverso un linguaggio fatto di vocaboli – pitch, lock, ghost, high concept, inclusion ecc. – con cui i nostri eroi sono costretti a confrontarsi all’italiana, per così dire. Parafrasando Caterina Guzzanti in conferenza stampa: quelli che prima erano i re della merda ora arrancano. Ma, come dice Ferretti riferendosi al pesce rosso: “è vecchio ma se la cava ancora alla grande”…
Un finale fiabesco (smarmellando tutto)
Paradossalmente, il vecchio regista riuscirà – con le riprese di una serie commissionata sulla vita di Gesù – a portarsi a casa invece un anarchico film d’autore intitolato Io Giuda. Protagonista Tatti Barletta (Edoardo Pesce). Un film sul traditore per eccellenza, tradendo la volontà della Piattaforma, che lo porterà a Londra per il giudizio finale. Accompagnato dal suo avvocato (Andrea Purgatori!), la sua (danza in) difesa è un momento eccezionale. In cui comico, poetico e ridicolo diventano una cosa sola. E in cui si realizza definitivamente la mise en abyme.
E così da “la qualità c’ha rotto er cazzo” giungiamo alla conclusione che, anche se americani (“sono americani ma mica sono scemi”), alla fine “l’algoritmo non può neanche rompere il cazzo”, perché in fondo “l’America non se la sono scoperti da soli”.
Insomma, il pressapochismo italiano (vedi l’introduzione del “lodimo”) vince sugli USA. E René Ferretti vince su tutti. Un finale fiabesco. In netta controtendenza con la feroce satira borisiana. Ma in perfetta sintonia con lo spirito di questa quarta conclusiva stagione. Che si sa debole in partenza. Perché l’inferno è pieno di quarte stagioni. Ma che gioca comunque alla grande le proprie carte. Smarmellando tutto. Quest’ultima volta, consapevolmente e compiutamente, alla cazzo di cane.
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