Quando in tutto il mondo sono rimbalzate le immagini ipnotiche del ponte di Baltimora che collassa sotto la spinta di una grande nave da trasporto impazzita, i fan di The Wire (cioè chiunque l’abbia guardata) hanno potuto vedervi un beffardo richiamo a quella serie sempreverde. Nel movimento apparentemente al rallentatore della grande nave container ormai incapace di correggere la rotta, e nel pigro accartocciarsi della maestosa infrastruttura dopo l’impatto, si poteva scorgere un’allusione al senso profondo dello show-capolavoro di David Simon, andato in onda dal 2002 al 2008.
L’inevitabile declino, fino al crollo, di un sistema indebolito da una corruzione endemica. Il manifesto di una società al collasso. Il fallimento non solo di una città, Baltimora appunto, ma dell’intera impresa umana. Colpita – e affondata – dall’irresistibile inerzia di un modello politico ed economico cieco ma non per questo meno catastrofico nella sua traiettoria.
Sia come sia, la (rara) occasione di ribalta mondiale per l’americana Baltimore, maggiore città del Maryland, ci ha dato anche il pretesto per parlare di The Wire. Serie magnifica di cui era impensabile non essersi occupati qui su Mondoserie. Visto che incarna alla perfezione lo spirito di questa testata. E cioè da un lato indicare agli appassionati di serie i prodotti più degni di occupare il loro tempo prezioso, e non importa se recenti o “antichi” – anzi, il recupero di serie di anni fa permette di evitare le trappole sempre più irritanti dell’hype, della spinta di marketing che ci costringe a guardare le stesse cose nello stesso momento. Dall’altro, provare a leggere nei grandi racconti seriali la rappresentazione di trend e pulsioni che innervano segretamente il nostro tempo.
The Wire, come vedremo, fa tutto questo. Egregiamente. Ergendosi come capolavoro senza tempo. Vent’anni fa sconvolgente per il suo realismo. Oggi, per il suo spirito profetico.
Un posto speciale nella storia della tv
The Wire è una serie televisiva statunitense prodotta dall’emittente statunitense HBO dal 2002 al 2008, nell’arco di cinque stagioni per un totale di 60 episodi. Oggi in Italia la potete rinvenire su Sky e NOW. Il titolo si riferisce alle cimici e a tutti gli strumenti di intercettazione utilizzati nelle indagini di polizia, che nella serie hanno sempre un notevole rilievo. In uno stile crudamente realistico si intrecciano racconto crime, poliziesco, spaccato sociale, dramma politico.
A crearla è stato David Simon, che lavorò come giornalista del Baltimore Sun per dodici anni (1982-1995) ed è l’autore dei libri “Homicide: A Year on the Killing Streets” (1991) e “The Corner: A Year in the Life of an Inner-City Neighborhood” (1997), scritto con Ed Burns. Sul primo è basata la serie NBC Homicide (1993–99), di cui Simon è autore e produttore. Mentre il secondo libro è stato adattato dalla HBO per la miniserie The Corner (2000). Di The Wire Simon è il creatore, produttore esecutivo, autore e showrunner per tutte e cinque le stagioni.
Sebbene non abbia vinto premi importanti, né riscosso un grande successo commerciale fuori dagli USA (in Italia resta poco vista), è spesso stata definita una delle migliori serie televisive di tutti i tempi.
A testimonianza della sua influenza, lo show ha lanciato la carriera di tanti attori notevoli: Idris Elba e Dominic West (The Crown) su tutti, ma poi anche Wendell Pierce (visto di recente in Jack Ryan), Lance Reddick (che riprenderà il ruolo di capo dell’unità di polizia in Fringe), Amy Ryan (The Office, Sugar), Aidan Gillen (il machiavellico “Ditocorto” di Game of Thrones), Michael K. Williams. Alcuni di loro (Reddick, Williams) ci hanno lasciati, ed è insieme triste e consolante vederli qui, al momento della loro affermazione attoriale.
Realismo e anti-retorica
The Wire è un racconto duro, realistico e spietato della società americana nel suo rapporto con il crimine legato al traffico della droga. Mostra i legami tra povertà, l’indotto del commercio della droga, la morte della classe operaia americana, le istituzioni, il sistema educativo, i mass media. Ne risulta un quadro pessimista ed estremamente critico. La struttura della serie è interamente orizzontale: non ci sono “casi di puntata”, ma un unico arco narrativo di stagione. Anzi, le storie traboccano nelle stagioni successive, con richiami anche “lontani” ma di grande impatto e significato.
Il racconto parte dall’indagine di polizia su una singola organizzazione criminale (stagione 1), ma ben presto si estende a tutto ciò che ruota intorno al traffico di droga: mandanti, fornitori, riciclatori di denaro sporco (dalla stagione 2), disfunzioni delle istituzioni preposte alla legalità e all’istruzione (stagioni 3 e 4), storture del sistema dei media (5). Secondo l’autore David Simon, The Wire è solo in apparenza uno show poliziesco. Poiché in realtà la serie accende i riflettori sullo stile di vita delle metropoli americane, l’influenza che le istituzioni esercitano sugli individui e i compromessi che chiunque è costretto ad accettare. Tutti: poliziotti, scaricatori di porto, trafficanti di droga, politici, giudici, giornalisti, avvocati o persino attivisti per la comunità.
Un racconto di questo tipo richiedeva, per funzionare, un realismo assoluto, sporco, anti-retorico. Nei contenuti, nei dialoghi, nel casting (alcuni attori hanno trascorsi criminali o di strada) nella costruzione dei personaggi, nello stile. Anche dal punto di vista formale e strutturale: niente voci fuori campo, niente flashback… Persino la musica è sempre diegetica, cioè interna alla narrazione, alle scene (es.: si sente una canzone perché una radio la sta riproducendo). Fanno eccezione solo i finali di stagione.
Baltimora, la sua società e il suo linguaggio
La serie è interamente ambientata a Baltimora, maggiore città dello Stato Atlantico centrale del Maryland, nel nord-est statunitense. Pur essendo solo mediamente popolosa, ha un numero di omicidi sette volte maggiore della media nazionale, seconda solo a Detroit. Ogni stagione si concentra su un aspetto differente della città americana: il traffico di droga (prima stagione), le dinamiche sindacali e criminali del porto (seconda stagione), la burocrazia e l’amministrazione cittadina (terza stagione), il sistema scolastico (quarta stagione), e l’apparato dei media (quinta stagione). Non per caso molti definiscono Baltimora la vera protagonista della serie.
Simon identifica come istituzioni comparabili le organizzazioni presenti nello show. Il Dipartimento di Polizia di Baltimora, il Municipio, il sistema scolastico pubblico di Baltimora, il network criminale dedito al traffico di droga dei Barksdale, il quotidiano Baltimore Sun e il sindacato dei portuali. Tutte sono disfunzionali in qualche modo, e i personaggi vengono tipicamente delusi o traditi – se non stritolati – dalle istituzioni che definiscono le loro vite. “La merda scorre verso il basso”, dice un detective della Narcotici – e la frase ben descrive come i capi, in tutte le organizzazioni, hanno a cuore la propria sopravvivenza più di ogni altra cosa. Lo stesso showrunner ha descritto The Wire come “cinica verso le istituzioni” e invece umanistica nel suo approccio verso i personaggi.
Caratteristica particolare di questa serie è l’idioma adoperato dai personaggi, il baltimorese, un dialetto dell’inglese americano medioatlantico ricco di espressioni crude, sporche e volgari. Lo usano tutti, dai politici agli spacciatori. Ed è un elemento fondamentale nella creazione di questo elaborato, minuzioso, realistico affresco metropolitano. Chi ci segue sa che è una nostra battaglia, ma qua il ricorso alla versione originale con i sottotitoli non è solo una scelta giusta: è essenziale.
La peculiare struttura di The Wire
The Wire, serie che ha ridefinito il genere poliziesco, si immerge nelle profondità di Baltimora, esplorando con occhio critico le complesse dinamiche tra società, legge e criminalità. Attraverso le sue cinque stagioni, come vedremo meglio nei prossimi capitoli, la serie evolve da un semplice dramma poliziesco a un’esplorazione onnicomprensiva delle istituzioni americane e del loro impatto sugli individui. La prima stagione introduce il tema del narcotraffico, seguendo la squadra di polizia guidata dal tenente Cedric Daniels nel suo tentativo di smantellare l’impero della droga di Avon Barksdale. La narrazione si espande rapidamente per includere le vite dei trafficanti di droga, degli abitanti dei quartieri poveri e degli stessi poliziotti, tutti intrappolati in un sistema fallimentare.
Nella seconda stagione, l’attenzione si sposta sul porto di Baltimora, dove corruzione e contrabbando si intrecciano con le vite degli operai portuali. La serie continua a tessere una rete di narrazioni che esplorano il declino dell’industria americana e l’impatto devastante sulla classe lavoratrice. La terza stagione ritorna al tema del narcotraffico, introducendo l’audace esperimento di “Hamsterdam”, una zona di tolleranza per la vendita di droga. La quarta stagione si focalizza tanto sulla politica quanto sul sistema educativo, mostrando come l’educazione sia un altro campo di battaglia nella guerra contro la droga. Infine, la quinta e ultima stagione chiude il cerchio esaminando il ruolo dei media nella percezione e nella rappresentazione della realtà.
Come sempre, le indagini della polizia fanno da legante orizzontale delle diverse trame della serie. Ogni episodio inizia con un cold open che non rispetta un codice estetico o narrativo fisso. E serve a calare il pubblico nell’atmosfera sporca e caotica della serie. Una frase, riportata a fine sigla, introduce al conflitto principale di puntata. La ritroveremo nell’episodio, quando assumerà un significato particolare per la storia.
The Wire, stagione 1. Polizia e criminali
La prima stagione di The Wire si apre con un’immersione nel cuore pulsante di Baltimora, dove la guerra contro la droga è in pieno svolgimento. La narrazione segue la squadra speciale della polizia, guidata dal tenente Cedric Daniels (Reddick), che si imbarca in una missione quasi impossibile: abbattere l’impero della droga di Avon Barksdale. La serie non si limita a mostrare la lotta tra bene e male, ma dipinge un quadro più sfumato. Le linee tra giusto e sbagliato sono spesso sfocate. I personaggi sono profondamente umani, con i loro difetti e virtù, e lo show esplora in profondità le loro vite personali e professionali.
La trama si snoda attraverso le strade di Baltimora, dove i trafficanti di droga, come D’Angelo Barksdale e Stringer Bell (Elba), operano con un misto di astuzia e brutalità. Il narcotraffico è radicato nella comunità, con conseguenze che vanno ben oltre la criminalità. I temi della stagione sono potenti: la corruzione all’interno del dipartimento di polizia, l’inefficacia delle strategie di contrasto al narcotraffico e l’impatto devastante della droga sui cittadini. The Wire non si limita a raccontare storie di crimini, ma esplora le cause profonde e le complesse dinamiche sociali che alimentano il ciclo della violenza e della disperazione. Le storie personali dei personaggi si intrecciano con la trama principale, come quella di Jimmy McNulty (West), un detective ribelle e alcolizzato, o quella di Bubbles (Andre Royo), un informatore tossicodipendente preziosissimo per la polizia.
Queste storie aggiungono profondità e realismo alla narrazione. La prima stagione di The Wire è un viaggio sorprendente, emozionante e insieme sconvolgente nella realtà della strada. E getta le basi per le stagioni successive, definendo la serie come un’indagine senza precedenti sulle istituzioni americane e sulla loro influenza sulla vita quotidiana delle persone.
La stagione 2 di The Wire: la crisi economica
La seconda stagione di The Wire si allontana, almeno apparentemente, dalle strade di Baltimora per portarci al porto. Il potente sindacato dei lavoratori del porto, guidato da Frank Sobotka, è al centro della trama. La serie esplora le vite dei portuali, segnate dalla speranza – declinante – di salvare un’industria morente e dalla tentazione della corruzione come mezzo per sopravvivere. Il porto diventa un crocevia di traffici illeciti, e la squadra di Daniels si ritrova a indagare su un giro di contrabbando che si intreccia con la criminalità organizzata.
È la stagione che forse più esplicitamente racconta la crisi del sogno americano. Affrontando temi come la globalizzazione, la perdita di posti di lavoro e l’impatto della tecnologia sull’industria. La disoccupazione e la povertà spingono alcuni personaggi a compiere scelte disperate, mentre altri cercano di resistere alla tentazione di cedere alla criminalità. La narrazione si espande per includere le dinamiche di potere all’interno del sindacato e la politica locale, mostrando come le decisioni prese ai piani alti influenzino direttamente le vite degli operai. La serie non si tira indietro nel mostrare le conseguenze di scelte eticamente discutibili – e il prezzo umano della corruzione.
I personaggi sono ritratti con una profondità che va oltre i cliché, con storie personali che rispecchiano le sfide e le speranze di una classe lavoratrice in lotta tanto per la propria anima quanto per la semplice sopravvivenza materiale. La stagione 2 di The Wire è una potente riflessione socio-economica, che mette in luce le crepe nel sistema e le vite di coloro che vi sono intrappolati. Dopo la stagione d’esordio, lo standard si alza ulteriormente: e non si abbasserà mai per i successivi tre capitoli.
The Wire, stagione 3: le molte facce della droga
La terza stagione di The Wire segna un ritorno alle strade di Baltimora, ma con una svolta rivoluzionaria. La serie introduce l’idea di “Hamsterdam”, una zona di tolleranza non ufficiale per il commercio di droga, ideata come esperimento sociale dal coraggioso e controverso comandante Howard “Bunny” Colvin (Robert Wisdom), prossimo alla pensione. La serie esplora così le conseguenze di un tale esperimento, mettendone in luce benefici e complicazioni. La zona diventa un microcosmo che riflette le più ampie problematiche della guerra alla droga, esaminando l’efficacia (e soprattutto l’inefficacia) delle politiche di contrasto e le loro ripercussioni sulla comunità.
Parallelamente, assistiamo all’ascesa di Marlo Stanfield, un nuovo e spietato giocatore nel giro della droga, la cui ambizione e freddezza rappresentano una nuova minaccia per l’organizzazione di Avon Barksdale. Unitamente alle ritorsioni terroristiche di Omar Little (Williams), lo spietato e insieme poetico sicario sfregiato e omosessuale che terrorizza i malviventi di Baltimore West con il suo fucile a canne mozze, celato sotto l’iconico spolverino. La lotta per il potere tra le fazioni criminali diventa sempre più intensa e pericolosa. La stagione si addentra anche nelle istituzioni “alte”: assistiamo all’inizio della scalata al potere del giovane e ambizioso consigliere comunale Tommy Carcetti (Gillen). La politica diventa un altro campo di battaglia, dove le promesse e le alleanze sono spesso sacrificate sull’altare dell’opportunismo.
I temi trattati sono profondi e provocatori: la legalizzazione della droga, la riforma della polizia e la politica urbana. La terza stagione di The Wire sfida le convenzioni del genere poliziesco e invita a una riflessione critica sulle politiche sociali e sulla loro attuazione. Con una scrittura incisiva e personaggi indimenticabili, la serie continua a tessere la sua complessa rete di storie urbane.
La stagione 4 di The Wire: la scuola e i ragazzi
La quarta stagione di The Wire si concentra sul sistema educativo di Baltimora, offrendo uno sguardo senza precedenti sulle sfide che i ragazzi affrontano sia dentro che fuori dalle aule scolastiche. La serie si addentra nelle vite di quattro adolescenti, raccontando come il loro ambiente e le loro esperienze influenzino le loro prospettive e scelte future. La serie non si limita a criticare il sistema, ma offre anche momenti di speranza e ispirazione attraverso le piccole vittorie e i progressi degli studenti. Personaggi come Roland “Prez” Pryzbylewski (Jim True-Frost), un ex poliziotto diventato insegnante, incarnano il desiderio di cambiamento e l’impatto positivo che un singolo individuo può avere.
Con il suo consueto approccio corale, la stagione segue anche, in un parallelo sottilmente critico e beffardo, due ascese: quella di Marlo Stanfield nel mondo del crimine, e quella di Carcetti nella scena politica di Baltimora. Entrambi lottano per affermare la propria posizione, entrambi essendo a loro modo degli innovatori in guerra contro una vecchia guardia ancorata a schemi ormai superati ma per nulla disposta a cedere il trono. La politica del narcotraffico si intreccia così alla politica tout court e alla vita quotidiana dei cittadini, mostrando come il crimine influenzi ogni aspetto della società.
La stagione 4 di The Wire è una potente meditazione sulle istituzioni educative e sul loro ruolo nella formazione delle future generazioni. Costrette a confrontarsi con la violenza, la povertà, la pesante eredità familiare e le tentazioni del narcotraffico. Con una narrazione coinvolgente e personaggi profondamente realistici, quasi commoventi nella loro autenticità, la serie continua ad affrontare temi sociali complessi con straordinarie intelligenza e sensibilità.
The Wire, stagione 5: media, manipolazione, consenso
La quinta e ultima stagione di The Wire, mentre continua a raccontare gli intrecci tra politica, polizia, affarismo, criminalità, mette al centro della scena il mondo dei media. Seguendo diversi giornalisti del Baltimore Sun, il quotidiano in cui lavorò per 12 anni lo stesso creatore dello show, Simon. In questo capitolo la serie esamina il ruolo dei media nella società e le sfide che affrontano nell’era dell’informazione digitale – e di budget sempre più ridotti. La stagione mette in luce le pressioni – consapevoli o meno – che i giornalisti subiscono per cercare o finanche produrre storie sensazionalistiche.
Non si perde, come da tradizione, il focus sul dipartimento di polizia. Vecchie conoscenze della serie mettono a rischio la propria carriera, prestandosi a falsificare le statistiche sul crimine per soddisfare le richieste che arrivano dai piani alti… Una sottotrama quasi parodistica – incentrata su un fantomatico serial killer – intreccia le vicende della polizia e del giornale cittadino. Denunciando entrambe le istituzioni come schiave dei meccanismi di marketing e costruzione del consenso.
C’è chi lotta per mantenere integrità e schiena dritta, in tutti i campi – ma sono mosche bianche, rottami di un’epoca ormai al tramonto. I temi della quinta stagione sono attuali e provocatori: la manipolazione delle informazioni, l’impatto dei media sulla percezione pubblica. Dopo aver messo sulla graticola, oltre ai trafficanti di droga, tutte le istituzioni cittadine, The Wire non risparmia ora neppure il quarto potere. Con una critica profetica. Mostrando un’industria dei media che privilegia le notizie che vendono rispetto a quelle che informano, lo show anticipa il declino della stampa nel tempo dei social media.
Il finale della serie riannoda i fili delle tante storie incontrate in cinque stagioni. Tasselli di un unico mosaico: l’elegia di una città in declino, il tramonto dell’american dream.
Un mare di corruzione – e una storia di redenzione
A questo punto dovrebbe essere chiaro: il filo conduttore di The Wire è la messa in scena della corruzione. Attenzione: non della corruzione come un processo drammatico, una scelta faustiana, un atto singolare. Ma come un fenomeno carsico, lento e capillare, che una goccia alla volta finisce per erodere – o far marcire – qualsiasi cosa. Anche chi è animato di buone intenzioni (l’ex pugile che apre la palestra di quartiere, l’ex poliziotto divenuto insegnante) deve fare i conti con un sistema rotto – e, appunto, ineludibilmente corrotto. Ma i più non sono neppure rassegnati: sono compiacenti. Ingranaggi di una macchina alla deriva. Se non addirittura parte del problema.
In questa serie non c’è un happy ending. Ma c’è una storia di redenzione. In mezzo a mille storie di caduta, di ascesa, di morte, tutte nel segno di una permanenza violenta sulla scena della vita – c’è una singola parabola positiva. La storia, struggente, di Bubbles.
Reginald “Bubbles” Cousins è uno dei personaggi più toccanti e complessi di The Wire. Lo conosciamo come eroinomane senzatetto, che si procura i soldi facendo l’informatore per la polizia – e intrecciando così la sua storia a quella di molti personaggi della serie. Dapprima personaggio di contorno, utile per mostrarci il punto d’arrivo del grande gioco del narcotraffico, poco alla volta diventa molto più del “povero tossico”. Il suo tentativo di riprendersi la vita – realistico, doloroso, costellato di cadute e tragedie – diventa il filo conduttore emotivo che innerva l’intero show.
E sarà proprio nella stagione finale, dopo aver toccato il punto più basso, che Bubbles troverà finalmente la forza del riscatto. Disintossicatosi, ospite poco gradito e molto sorvegliato nello scantinato della sorella, diventerà volontario in una cucina da campo per senzatetto e drogati. Qui un giornalista lo conoscerà, e dedicherà tempo e pazienza a raccoglierne e poi raccontarne la storia: l’articolo che uscirà, “The road home” (la strada verso casa), sarà il culmine della sua parabola di redenzione. Un atto di condivisione, nel segno della vulnerabilità e del coraggio. Il riconoscimento della propria ferita, e del bisogno degli altri, per Bubbles. E il parallelo riconoscimento di questo ex invisibile da parte della comunità.
Nella sua apparizione finale nella serie, Reginald viene accolto dalla sorella al piano di sopra, per cenare con lei e i figli. Riammissione simbolica di struggente e semplicissima dolcezza. Dopo tanto gelo, fisico e spirituale, l’ex tossico ha ritrovato il calore di un focolare.
Un capolavoro senza tempo e profetico
Ma la redenzione di Bubbles non muta il segno di una serie che non rinuncia mai al proprio tono. Non sono i buoni a prevalere. Sono i più forti, i più furbi, i più spietati. La quinta stagione ce lo mostra in ciascuna delle organizzazioni che la serie ha esplorato: politica, polizia, scuola, editoria – e persino il mondo criminale. Insomma, The Wire si conferma fino alla fine come un affresco urbano antiretorico e senza sconti. Come abbiamo discusso anche nel podcast dedicato.
Uno show forse in anticipo sui tempi. Ma che avrebbe lasciato un’impronta indelebile nella storia della televisione. Proponendo fra l’altro un modello di autorialità televisiva alternativa a quella che si era fin lì affermata. Pensiamo al ritratto della malavita offerto da una serie di culto come I Soprano (a cui abbiamo dedicato un ampio speciale), che aveva debuttato tre anni prima, nel 1999. Se David Chase impone il modello del “super-autore” (solo parzialmente raggiunto dieci anni prima da David Lynch in Twin Peaks), Simon sceglie la modalità dell’autore “invisibile”. Che c’è, eccome. Ma non si staglia mai davanti alla propria opera.
Ma The Wire ha anticipato i tempi anche dal punto di vista della lettura della realtà. L’idea centrale dello show – quella di una sorveglianza pervasiva da cui poi viene il titolo, delle intercettazioni, di tutta la tecnologia con cui tanto la polizia quanto noi spettatori entriamo in mondi segreti e sconosciuti e altrimenti inaccessibili – assume una forza quasi angosciante nella società di oggi. In cui tutto è accessibile, e manipolabile.
Una grande serie che, vista o rivista oggi, risulta ancora più coinvolgente. E forse persino più sconvolgente. Pensavamo fosse un ritratto realistico, cinico, crudo. Guardando le nostre città, oggi, viene da pensare che fosse qualcosa di più: profetico.
A The Wire abbiamo dedicato anche questa puntata del podcast
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