Diciamolo subito: se Fargo dovesse concludersi con questa sua quinta stagione non sarebbe un peccato. Da un lato ci priverebbe, è vero, della possibilità di future delizie. Ma dall’altro lo farebbe con un acuto memorabile, mettendosi e mettendoci al riparo dal rischio di scivoloni che ne compromettano l’eredità. Anche perché, se complessivamente la serie è tra le cose migliori prodotte in tv nell’ultimo decennio, è pur vero che la stagione 5 era chiamata a un doppio lavoro, dopo un capitolo 4 che aveva lasciato parecchi dubbi.
Missione compiuta, possiamo dire. Lo show di Noah Hawley, in Italia su Sky e Now, ha dimostrato una volta di più di saper raccogliere e attualizzare la non facile eredità delle atmosfere e delle invenzioni dei migliori fratelli Coen. Quelli di film memorabili come appunto Fargo, la pellicola del 1996 a cui si ispira alla larga la serie, o Crocevia della morte (1990), o l’amatissimo Il Grande Lebowski (1998). Con la stessa abilità nel creare formidabili cocktail di black comedy, crime e drama, capaci di abbattere le barriere di genere e dar vita a personaggi e scene indimenticabili. Senza eroismi, senza grandezze, nel positivo come nel negativo, e con un bel po’ di scale di grigi nel racconto dei propri protagonisti. Persone in fondo semplici, costrette a confrontarsi con avvenimenti più grandi di loro.
Un approccio che si è rivelato particolarmente fecondo nel catturare elementi essenziali dell’incertezza e della crisi della nostra cultura, come vedremo.
Nei capitoli che seguono esploreremo la serie stagione per stagione, analizzando il suo rapporto complessivo con il film (e con i film) dei Coen, approfondendo i temi ricorrenti e riflettendo sul suo significato filosofico. Quello di una meditazione – nei toni di una favola nera – sul destino. E, meglio ancora, sull’assurdo che permea l’esistenza umana.
“Questa è una storia vera”: una serie antologica
Fargo è una serie televisiva antologica creata da Noah Hawley (autore anche della visionaria e folle Legion) e prodotta da FX, ispirata all’omonimo film del 1996 diretto dai fratelli Joel ed Ethan Coen, che figurano anche come produttori esecutivi della serie. La serie, che ha debuttato nel 2014, si compone ad oggi di cinque stagioni (per un totale di 51 episodi). Ognuna ambientata in un’epoca e in una località diverse, con storie diverse; ma tutte collegate tra loro da alcuni elementi ricorrenti, come il tema del crimine, la presenza di personaggi eccentrici e grotteschi, l’umorismo nero, la violenza, il sangue, la neve, il Midwest americano.
E soprattutto il motto che apre ogni episodio, e che – fin dal film d’origine – rappresenta un vero marchio di fabbrica di questo peculiare universo narrativo: “Questa è una storia vera. (…) Su richiesta dei superstiti i nomi sono stati modificati. Per rispetto nei confronti delle vittime tutto il resto è stato raccontato esattamente così come è accaduto”. Frase che dietro l’apparenza innocua ci invita fin da subito a osservare queste fiabe nere con la giusta distanza, e sotto il segno dell’ironia: perché si tratta in realtà di finzione.
Fargo, come abbiamo raccontato anche in questa puntata del podcast, esplora temi come il bene e il male, il caso e la necessità, la giustizia e la vendetta, la verità e la menzogna. E ancora il modo in cui errori, inganni, ambizioni e avidità portano a conseguenze tragiche e spesso assurde.
Le sue storie sono ambientate nella provincia americana profonda: Minnesota e North Dakota per le pluripremiate stagioni 1-3 e per la 5, collocate rispettivamente nel 2006, nel 1979, nel 2010, nel 2019. Scendendo un po’ più a sud (il Missouri) e tornando più indietro nel tempo (il 1950) per la quarta. Sempre con attori fantastici: Billy Bob Thornton e Martin Freeman; Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Ted Danson; Ewan McGregor, Carrie Coon, David Thewlis; Chris Rock e Jason Schwartzman; Juno Temple, Jon Hamm, Jennifer Jason Leigh.
Fargo: il rapporto tra il film originale e la serie
Il film Fargo, uscito nel 1996, è considerato uno dei capolavori dei fratelli Coen, vincitore di due premi Oscar, per la miglior sceneggiatura originale e per la miglior attrice protagonista (Frances McDormand). Ambientato nel 1987 tra il Minnesota e il Dakota del Nord, racconta la storia di Jerry Lundegaard (William H. Macy), un venditore di auto in crisi finanziaria, che ingaggia due criminali (Steve Buscemi e Peter Stormare) per rapire sua moglie e chiedere al ricco suocero un riscatto con cui superare le proprie avversità. Ma il piano va storto e scatena una serie di omicidi e disastri. A indagare sul caso è la sceriffa Marge Gunderson (Frances McDormand), una donna incinta, intelligente e tenace.
Satira di una società americana basata sul consumismo, sul denaro, sul successo, e riflessione sul senso della vita, sul valore della famiglia, sull’etica e sulla responsabilità, Fargo il film costruisce la sua forza nel contrasto tra la pacatezza e la gentilezza dei personaggi locali, con la loro semplicità di modi e di vita, e la brutalità dei criminali.
La serie si ispira al film, riprendendone (oltre al nome e all’ambientazione prima) lo stile, il tono, il genere, i temi e alcune situazioni narrative. Ma senza esserne, e neppure nella prima stagione, una trasposizione fedele, né una continuazione, un prequel o un remake, dato che lo show crea storie originali, ambientate in epoche diverse. Eppure c’è continuità narrativa tra l’universo del film e quello della serie. Un esempio per tutti: nella prima stagione della serie, ambientata nel 2006, riemerge quella famosa valigetta piena di soldi che era stata nascosta nella neve da uno dei criminali alla fine del film, quasi 20 anni prima…
Stagione 1: il Male e la tentazione della violenza
Trasmessa nel 2014, la prima stagione di Fargo ci introduce nel mondo della serie televisiva con una storia che ne riassume subito plasticamente alcuni dei grandi temi: la tentazione della violenza, e l’insinuarsi del peccato nel “paradiso terrestre” di una piccola e quieta comunità locale contaminata dal Male.
La trama: nel 2006, lo spietato killer Lorne Malvo (Billy Bob Thornton) arriva di passaggio a Bemidji, Minnesota, incontra per caso il modesto venditore di assicurazioni Lester Nygaard (Martin Freeman) e avvelena lui e l’intera comunità con il suo mix di malizia, violenza e inganno. Nel frattempo, la vice sceriffa Molly Solverson (Allison Tolman) e il poliziotto del vicino paese di Duluth Gus Grimly (Colin Hanks) si uniscono per risolvere una serie di omicidi che credono possano essere collegati a Malvo e Nygaard.
Questa prima stagione di Fargo esplora i temi della moralità, della colpa e della corruzione. Chiarendo subito il rapporto con il film a cui è ispirata, di cui riprende il tono generale e la caratura di apologo morale ma non la trama, visto che ha nuovi personaggi e storie. E richiamando anche altri due film dei Coen: il pluripremiato Non è un paese per vecchi (2007) e A Serious Man (2009).
Al suo debutto, lo show ha vinto l’Emmy per la migliore miniserie, la migliore regia e il miglior casting; e i Golden Globe per la migliore miniserie e il miglior attore (Thornton).
La stagione 2 di Fargo: famiglia, destino, responsabilità
In onda nel 2015, la stagione 2 di Fargo è quasi – come spiegato dallo stesso showrunner Hawley – una sorta di prequel della prima, con tra i protagonisti i genitori di Molly Solverson (la poliziotta che indagava sui fatti del primo capitolo), ambientata sul finire degli anni 1970 e incentrata sul non precisato evento citato in diversi episodi della prima stagione che aveva avuto luogo a Sioux Falls.
La trama. Nel 1979, l’estetista Peggy Blumquist (Kirsten Dunst) e suo marito, il macellaio Ed Blumquist (Jesse Plemons), cercano di nascondere l’uccisione accidentale di un membro della famiglia criminale Gerhardt, che ha sede a Fargo, North Dakota, ed è guidata dalla matriarca Floyd Gerhardt (Jean Smart). Il poliziotto del Minnesota Lou Solverson (Patrick Wilson) e suo suocero, l’esperto sceriffo della contea Hank Larsson (Ted Danson), rimangono invischiati con i Blumquist, i Gerhardt e la mafia di Kansas City quando indagano su un triplice omicidio collegato ai Gerhardt e avvenuto in una tavola calda a Luverne, Minnesota.
Ambientata in un periodo turbolento della storia americana, a cavallo tra la fine dei ‘70 e l’alba del decennio reaganiano (il personaggio di Reagan appare brevemente come candidato in un episodio), la stagione esplora i temi della violenza, famiglia e destino. Oltre a Fargo, lo stile di questo secondo capitolo è debitore anche di altri due film dei Coen: Crocevia della morte (1990) e L’uomo che non c’era (2001).
Stagione 3: identità, avidità, desiderio
La terza stagione di Fargo è stata trasmessa nel 2017, e ci riporta più vicino ai giorni nostri. La trama. Nel 2010, lo sfortunato agente di sorveglianza di St. Cloud Ray Stussy (Ewan McGregor) e la sua fidanzata (in libertà vigilata) sognano una vita migliore e soprattutto più soldi. Per raggiungere questo obiettivo, tentano di rubare un prezioso francobollo al fratello gemello di Ray, Emmit (sempre interpretato da McGregor), uomo di grande successo e sedicente “Re dei parcheggi del Minnesota”. Ma il piano va storto e provoca una serie di eventi tragici e assurdi: la coppia dovrà nascondere il proprio coinvolgimento in due morti, tra cui quella del patrigno dell’ex poliziotta Gloria Burgle (Carrie Coon). Nel frattempo, Emmit vorrebbe ripagare un’organizzazione losca da cui ha preso in prestito denaro due anni prima, ma il perfido V. M. Varga (David Thewlis) ha altri piani…
Tra i riferimenti interni all’universo della serie, da segnalare due cose. Billy Bob Thornton (il Malvo di stagione 1) che fa da voce narrante nel quarto episodio. E l’apparizione del personaggio di Yuri Gurka (Goran Bogdan), uno degli scagnozzi di Varga, che sembra essere lo stesso Yuri Gurka menzionato nella seconda stagione come uno dei responsabili del misterioso massacro di Sioux Falls.
La stagione esplora il tema dell’identità, dell’avidità e della ricerca del successo, offrendo uno sguardo critico sulla cultura contemporanea e sulle sue ossessioni materialistiche. Tra i riferimenti ravvisabili dall’universo cinematografico dei Coen, le atmosfere del loro primo film (e immediato successo critico), Blood Simple (1984) e del gran successo Il Grande Lebowski (1998). Per il suo doppio ruolo, Ewan McGregor ha vinto il Golden Globe.
La meno riuscita stagione 4: l’ombra della Storia
La quarta stagione di Fargo, trasmessa nel 2020, è anche l’unica a durare 11 episodi, e ci porta molto più indietro nel tempo (oltre che più a sud). È infatti ambientata nel 1950 a Kansas City, nel Missouri, e racconta la storia di una guerra tra due famiglie criminali, i Cannon (afroamericani) e i Fadda (italiani), per il controllo del territorio.
La trama. La Cannon Limited, guidata da Loy Cannon (Chris Rock), minaccia di usurpare la famiglia Fadda, guidata da Josto Fadda (Jason Schwartzman), come organizzazione criminale al potere a Kansas City. Per mantenere la pace, i gruppi decidono di ripristinare una vecchia tradizione: quella di scambiare i figli più piccoli tra le due famiglie, destinati ad essere cresciuti dai “nemici”. L’accordo è messo a repentaglio dall’arrivo dall’Italia dell’irruente fratello di Josto, Gaetano (Salvatore Esposito), così come dalle azioni misteriose intraprese dall’infermiera Oraetta Mayflower (Jessie Buckley). Nel frattempo, la vicina adolescente di Oraetta, Ethelrida Pearl Smutny (E’myri Crutchfield), futura narratrice della storia, scopre che i suoi genitori, impresari di pompe funebri, sono in debito con la Cannon Limited, cosa che la coinvolge nelle attività criminali di Kansas City.
La stagione 4 di Fargo è quella che è piaciuta meno, al pubblico come alla critica, e a ragione. Non mancano certo le ambizioni, con la messa in scena di temi come il conflitto razziale, l’immigrazione, la lotta per il potere politico ed economico; o lo stile, con una messa in scena dinamica e a tratti picaresca che richiama anche, nel cinema dei Coen, le ambientazioni di Mister Hula Hoop (1994) e Fratello, dove sei? (2000). Manca, paradossalmente, quel tratto distintivo che ha fatto di Fargo un prodotto sempre riconoscibilissimo…
Stagione 5: Fargo al suo meglio
Per fortuna è poi arrivata (a cavallo tra 2023 e 2024) la stagione 5, che non solo riporta Fargo dove deve stare (tra le migliori serie del decennio) ma che per chi scrive arriva persino a insidiare l’ormai lontana prima stagione in vetta a un’ideale classifica interna. Una stagione eccezionale, ingiustamente snobbata ai Golden Globe 2024 a favore della pur interessante Beef – Lo scontro (speriamo nei prossimi Emmy per fare giustizia: Temple e Hamm, poi strameritano).
Ambientata nel 2019, la trama segue le vicende di Dorothy “Dot” Lyon (Juno Temple), una casalinga apparentemente normale che vive a Scandia, Minnesota, e che nasconde un oscuro passato. Dot si ritrova nei guai con le autorità dopo aver partecipato a una riunione scolastica finita male, e viene rapita da un gruppo di criminali ingaggiati dal suo ex marito, lo sceriffo Roy Tillman (Jon Hamm), che la cerca da anni per vendicarsi di lei. Dot dovrà usare la sua intelligenza e il suo coraggio per sfuggire alla maledizione del passato e agli uomini che le danno la caccia – tra cui Gator Tillman (Joe Keery), il figlio di Roy, che vuole dimostrare il suo valore al padre; e il misterioso Ole Munch (Sam Spruell).
Per ricongiungersi alla figlioletta e al tenero marito Wayne (David Rysdahl), Dot dovrà vedersela – oltre che coi Tillman, Munch e la polizia – anche con la ricca suocera Lorraine (Jennifer Jason Leigh), capa di un’agenzia di recupero crediti che sospetta che Dot abbia simulato il rapimento per estorcerle un riscatto.
Tre elementi concorrono a fare della quinta stagione di Fargo il capitolo più apertamente “politico” del franchise. Da un lato il tema della crisi esplosiva del credito (che affligge la poliziotta che indaga sui fatti e su cui basa le sue fortune la potente e spietata Lorraine, ammanicata con la politica a tutti i livelli), con il suo portato di nuove povertà figlie anche del consumismo compulsivo (il compagno-bambinone della poliziotta). E il connesso concetto sociale e morale di “debito“, che è il vero leitmotiv dell’intera stagione (il poliziotto cui Dot ha salvato la vita e che si sente appunto in debito; il rigido e quasi metafisico codice d’onore di Ole Munch fatto di debito e doveri; la logica del possesso di Roy Tillman, che vuole “recuperare” un bene che gli sarebbe stato “sottratto”).
Dall’altro la frammentazione tribalistica sempre più marcata della società americana, anche da un punto di vista geografico e persino giudiziario: Roy Tillman è un potente e corrotto poliziotto che si autoproclama “sceriffo costituzionale” della contea di Stark, nel North Dakota, che ha una milizia armata al suo servizio e che si sente custode e crociato della morale tradizionale cristiana. Rappresentazione di un fenomeno reale, quello degli “sceriffi costituzionali” che si pongono al di sopra della legge, anzi che sostengono che solo l’autorità locale di uno sceriffo eletto dal popolo possa interpretare la legge e decidere l’applicazione, di contro alle pretese degli Stati, dello Stato federale, della giustizia e delle agenzie di ordine superiore. Un fenomeno radicalmente reazionario rafforzato negli ultimi anni dai violenti rigurgiti populisti, estremisti e identitari alimentati anche dalla retorica trumpiana.
Il terzo tema “politico” è, ovviamente, quello della violenza di genere. Dot è fuggita, tanti anni prima, dagli abusi di un marito violento e portatore di una logica ferocemente patriarcale. Per Roy, la donna è solo possesso, silenziosa e fedele custode del focolare domestico, madre assoggettata all’autorità suprema dell’uomo. Al contempo, la nostra eroina non è una vittima passiva: ingegnosa, coraggiosa, indistruttibile, ribatte colpo su colpo a ogni tentativo di imprigionarla, da ovunque provenga. Emblematica in questo senso è la ripresa a rovescio di un celebre momento del film Fargo: la scena in cui i due manigoldi entrano in casa per rapire la paciosa casalinga. La serie rimette in scena esattamente lo stesso setting: casalinga sola in casa, criminali che irrompono per rapirla, tensione unita al grottesco. Ma ne stravolge l’esito: Dorothy lotta, con tutte le sue forze, rifiutando di soccombere.
Ho parlato di temi “politici”, ma non fatevi spaventare. Fargo non è diventata di colpo un manifesto dei temi socio-culturali d’oggi, e tantomeno un pulpito da predica. E però, pur nella grazia di una forma che resta smagliante e irresistibile (come sempre mescolando abilmente dramma, noir, commedia dark, grottesco), in questa quinta stagione sa dar voce in modo straordinariamente maturo alla complessità di un mondo ancora più ambiguo e in scala di grigi di quello di un quarto di secolo fa. Va anzi detto che, nonostante appunto le scelte concettuali più esplicite e l’adattamento a un tempo diverso, questo capitolo è forse quello che più di tutti richiama con potenza certi elementi del film originario. Stilisticamente, anche grazie all’allusiva evocazione musicale del tema cinematografico di Carter Burwell. Ma soprattutto nei tratti da fiaba nera che risultano qui ancora più accentuati, e che trovano sublimazione in tre elementi eccezionali.
Il primo: l’onirico racconto dell’episodio 7 che ricorre ai pupazzi per mettere in scena gli orrori del passato di Dot. Il secondo è la figura metafisica di Ole Munch, che sembra quasi il killer folle Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi collocato in una dimensione mitica e soprannaturale, da folklore gallese, irlandese, scozzese: un sin-eater, cioè una creatura che moltissimo tempo prima si è nutrita dei peccati di un morto, facendosene carico. E che da allora vaga sulla terra, ostaggio di un codice di condotta tutto incentrato sull’idea del debito e degli obblighi (il contraltare della superficiale “società del credito” satireggiata da altri elementi).
E infine, terzo elemento, il finale di stagione, che non racconterò (lo trovate qui sotto in video, SPOILER) ma che appunto porta a sublimazione proprio la logica oppressiva dei “debiti” riscattandola nella dimensione del calore domestico, dell’amore di una famiglia che sa trasformare in quiete casalinga ed happy ending anche la cupa e violentissima fiaba nera a cui abbiamo assistito.
Tra noir e fiaba: il male e gli esseri umani
Fin dal suo debutto Fargo si è presentata come una serie capace, oltre che di un intrattenimento eccellente, di una riflessione profonda e filosofica sulla condizione umana, sul bene e sul male, sulla morale e sulla giustizia, sul destino e sulla fortuna. Lo show dipinge – in un contorno tra neo-noir e fiaba dark contemporanea – esseri umani spesso guidati da motivazioni egoistiche, irrazionali, emotive. Motivazioni spessissimo connesse al denaro e più specificamente ancora all’avidità di denaro. Che li portano a scelte sbagliate, immorali, illegali, violente. Scelte che a loro volta generano conseguenze negative, se non devastanti.
In Fargo la distinzione tra Bene e Male è quasi sempre chiarissima. Ma spesso i buoni agiscono meccanicamente, quasi stupidamente; mentre è terribilmente facile trovarsi a commettere il male. Quasi come se fosse un mix di casualità e coincidenza a far pendere una vita di qua o di là. Verso il Bene o verso il Male.
Il senso della via ci sfugge, almeno nel suo complesso. Forse non c’è proprio, essendo ogni destino determinato da eventi casuali, coincidenze, errori, inganni che sfuggono al controllo. Persino il destino, appunto, non risponde a razionalità.
E proprio in questi termini si definisce il Male in Fargo. Non come qualcosa di eccezionale, demoniaco, necessariamente mostruoso (persino i grandi “cattivi” hanno tratti ridicoli), ma come la traduzione visiva e narrativa di quell’idea di “Banalità del male” che Hannah Arendt scelse come titolo al suo saggio-reportage sul processo all’ex gergarca nazista Adolf Eichmann. Chiunque, per quanto ordinario, può compiere il male. Un male che non è razionale ma irrazionale, illogico, persino stupido. Che si manifesta in modo casuale e imprevedibile. E che genera una catena di effetti sproporzionati, incontrollabili, paradossali.
Fargo e l’assurdo alla base delle nostre vite
Siamo arrivati al cuore filosofico di questa magnifica serie: l’assurdo. Sia come categoria filosofica che come genere estetico. Come condizione esistenziale dell’uomo che scopre di vivere in un mondo privo di ordine, e quindi di senso. In filosofia l’assurdismo si riferisce al conflitto fra la tendenza dell’uomo di cercare valori e significati intrinseci nella vita e la sua incapacità – o l’impossibilità vera e propria – di trovarli con assoluta certezza. Il pensatore francese Albert Camus, riprendendo nel XX secolo la lezione ottocentesca del filosofo danese Søren Kierkegaard, sosteneva che agli individui non resta altro che abbracciare l’assurdo come condizione dell’esistenza umana.
Tornando alla nostra serie: uno degli elementi distintivi di Fargo è proprio il suo uso sistematico, quasi strategico, dei meccanismi dell’assurdo. Da un lato nella frequenza con cui ci mostra come l’assurdo sia presente tanto nella vita quotidiana quanto nelle situazioni estreme (un crimine violento, una macchinazione, un’impresa…). Dall’altro nella messa in scena di personaggi chiamati ad affrontarlo con modalità diverse: l’accettazione, la ribellione, la fuga, la rassegnazione, la speranza. Tutte, però, inevitabilmente votate al riconoscimento di come il senso ultimo della nostra vita sia, alla fine, il non-senso: appunto, l’Assurdo.
Si può essere buoni o cattivi, morali o immorali, corretti o scorretti; e ancora intelligenti o stupidi, ambiziosi o modesti, coraggiosi o pavidi, taciturni o loquaci: non cambia poi niente. Siamo, come ricordava il poema omerico, foglie che nascono, muoiono, si disperdono al vento. O mosche che si agitano invano – inconsapevoli che più si dibattono e più affondano nella ragnatela beffarda dell’esistenza.
Ascolta anche il podcast dedicato a Fargo