Ridere sulla morte non è infrequente: così come l’entusiasmo attuale per il soprannaturale, non è altro che il sintomo di un consolatorio tentativo di rimozione. Ma la morte interpretata dal punto di vista della filosofia morale può diventare commedia? La meravigliosa The Good Place è questo. Ovvero la risposta alla domanda che tutti prima o poi si sono fatti nella vita: se Sartre fosse stato un autore di sit-comedy, cosa ne sarebbe venuto fuori?
Probabilmente qualcosa che assomiglia molto a questa fortunata e brillantissima serie targata NBC, di cui (al momento di questa uscita) trovate finalmente tutte e 4 le stagioni su Netflix. Intanto due parole sul creatore: Michael Schur è uno dei produttori e scrittori della popolare versione americana di The Office, ma soprattutto coautore di Parks and Recreation, una delle serie più divertenti degli ultimi anni. Da solo, un nome che è una garanzia nel panorama di un modo di fare capace di profondità.
Di cosa parla The Good Place?
The Good Place parla della morte: o meglio, di cosa ci aspetta dopo la morte. Lo fa raccontando la storia di Eleanor Shellstrop, che si ritrova dopo il proprio decesso nel “Good Place”, il Posto Buono del titolo, accolta da Michael, che di questo spazio è l’architetto ultraterreno: siamo in una sorta di paradiso a metà tra Disneyland e la Svizzera, premio per i giusti.
Peccato che la nostra protagonista fosse, da viva, un’egoista sfrenata e sfrontata: la sua collocazione tra i Buoni, si rende subito conto, dev’essere frutto di un errore. Riuscirà, in una complicata interazione con altri freschi deceduti e una supposta anima gemella che in vita era un professore universitario di etica, a migliorarsi e celare a tutti il proprio status di “clandestina morale”, evitando la deportazione verso il temibile Bad Place in cui le anime dei malvagi – a quanto pare – vengono torturate senza posa?
Due cose hanno decretato il successo di questa serie: il cast da una parte, e dall’altra la complessità filosofica, pur nella forma di una potabilissima commedia.
I due antagonisti sono perfetti: Kristen Bell, già protagonista di Veronica Mars e attrice di cinema, è Eleanor; mentre nei panni dell’Architetto troviamo nientemeno che Ted Danson, uno dei migliori attori comici della tv americana (un ruolo su tutti: il Sam Malone protagonista della leggendaria Cheers, in italiano a volte distribuita come Cin Cin).
Ridere con Kant, Aristotele, Kierkegaard
Quanto al secondo punto, considerate questo: quanti show conoscete che riescono a far ridere di gusto affrontando problemi morali veri e possenti? Ci trovate Kant, Aristotele, Kierkegaard, ci trovate le riflessioni dei filosofi morali contemporanei, ci trovate i dilemmi della condotta individuale e le implicazioni sul mondo delle proprie scelte. Senza che il ritmo comico perda un colpo.
Pensate che non possa reggere? Il finale della prima stagione, magistrale, porta The Good Place dalle parti del Sartre di A porte chiuse (quello de “L’inferno sono gli altri”, per capirsi). La seconda stagione è persino meglio. E poi, l’americanissima Eleanor siamo tutti noi: superficiali e grossolani, ossessionati da noi stessi. Complessità e problematicità? Non abbiamo tempo, pensiamo. Magari domani. Ma il domani, ci dice questo show, è incerto. O magari prenderà la forma di una punizione per contrappasso: un’eternità a cercare di sviscerare tutte quelle questioni che abbiamo scelto in vita di ignorare.
Dopo una terza stagione meno felice e che qua e là perde il colpo, il capitolo finale si conferma di altissimo livello: pur senza raggiungere le vette sublimi delle prime due stagioni, regala risate di rara intelligenza. Si ride, ancora, con i dilemmi morali e i rovelli teologici e filosofici con cui l’umanità si è scornata per millenni:
Qual è il significato del Male? Quale la definizione di Bene? Quale il peso del libero arbitrio?
Se non vi pare abbastanza, meritate l’Inferno di un eterno rerun dell’Ispettore Derrick.
Giudizio: divina.
Ascolta la puntata del podcast: The Good Place: la filosofia diventa sitcom
Versioni precedenti e parziali di questo articolo sono uscite il 6 maggio 2019 e il 14 febbraio 2021 su The Week, settimanale del gruppo editoriale Athesis.