Making a Murderer è una docu serie true crime in due stagioni di 10 episodi ciascuna (Netflix, 2015 e 2018), dai 57 ai 77 minuti di durata. La distribuzione della prima stagione, realizzata da Laura Ricciardi e Moira Demos (premiate con 4 Emmy), è stata una vera e propria scommessa per la piattaforma di Netflix.
Il progetto era infatti stato in un primo tempo rifiutato da PBS e da HBO: quest’ultima rete aveva da poco lanciato con successo uno dei primi show del genere, ovvero The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst. Questa docuserie investigativa, diretta da Andrew Jarecki, ripercorre – tra interviste e ricostruzioni – la vita del milionario (e presunto serial killer) Robert Durst, accusato di ben tre omicidi e in attesa di giudizio.
Making a Murderer, incentrata invece sull’odissea giudiziaria di Steven Avery, ha per protagonista un presunto innocente: lo stesso titolo (making sta per costruire, fabbricare – a murderer: un assassino) dichiara da subito la propria peculiare prospettiva difensiva.
Le due giovani autrici e registe di questa serie, incontratesi come studentesse universitarie di cinema presso la Columbia University, erano venute a conoscenza del caso Avery tramite un articolo del New York Times del 2005. Da quella lettura nasce il progetto Making a Murderer, che impiegherà ben dieci anni prima di vedere la luce alla sua anteprima al DOC NY Film Festival (2015).
L’incredibile successo di questa prima stagione indurrà la piattaforma Netflix a produrne poco dopo una seconda (2018).
Il principio di una storia piena di irreali colpi di scena
Dieci anni di realizzazione, dicevamo, per cominciare il racconto della surreale storia di Steven Avery, incarcerato nel 1985 per un’aggressione sessuale nello stato del Wisconsin.
Dopo 18 anni di carcere, e grazie al test del DNA – nel frattempo divenuto accessibile ed affidabile – Steven viene scarcerato per non aver commesso il fatto.
Ma questo non è che l’antefatto di Making a Murderer. La storia di Steven Avery e famiglia – in particolare il processo a suo carico, e quello a carico del nipote Brendan Dassey – è piena di irreali ed imprevedibili colpi di scena. Difatti la sua colpevolezza viene fin dal principio perseguita dalle forze dell’ordine locali praticamente con ogni mezzo a loro disposizione. La colpevolezza di Steven Avery è per loro un dato di fatto.
Da qui la storia si snoda seguendo una stratificazione narrativa quasi obbligata, che vede l’abuso di potere da parte della polizia e le enormi falle nel sistema giudiziario dell’America più provinciale. Fino a giungere alla concreta influenza del racconto mediatico sull’evoluzione di indagini e processo. Un’influenza che, con l’uscita della prima stagione, travolgerà come uno tsunami i rappresentanti della legge e dell’ordine nel tranquillo stato del Wisconsin.
Ma chi è e cosa ha fatto Steven Avery? La famiglia Avery, da sempre trattata per sfuggenti ragioni con diffidenza ed isolata dal resto della comunità, possiede uno sfasciacarrozze nella contea di Manitowoc, Wisconsin. E Steven è fin da subito quel che si dice una testa calda: piccoli furti, risse, bravate di vario genere… niente di che. Ma il suo nome è ben noto alle forze di polizia locali.
Making a Murderer e il risarcimento milionario
Così, quando il giovane uomo viene condannato nel 1985 per lo stupro e il tentato omicidio di Penny Beerntsen, nella contea nessuno è particolarmente stupito. Del resto il ragazzo era già stato incarcerato due volte: per aver svaligiato un bar e per aver lanciato un gatto in un falò (sic). Eppure questa volta Steven ha un alibi e continua a proclamarsi a gran voce innocente. Viene scagionato solo grazie all’intervento dell’Innocence Project e ad un pelo pubico trovato nel corpo della vittima appartenente ad un altro uomo.
Scarcerato dopo 18 anni – Making a Murderer inizia proprio da qui -, Steven intenta una causa civile contro lo sceriffo Tom Kocourek e il procuratore distrettuale Denis Vogel, i funzionari della contea di Manitowoc che erano dietro il suo arresto e la successiva condanna. Una causa da 36 milioni di dollari.
Ed è proprio ad un paio giorni dalla formalizzazione del risarcimento che Avery viene nuovamente arrestato: questa volta con la pesantissima accusa di omicidio. L’omicidio di Teresa Halbach, una giovane fotografa scomparsa subito dopo essere stata nella proprietà di Steven, ovvero la vasta rimessa di automobili di famiglia. Dove doveva scattare delle foto per una rivista specializzata ad una sua auto usata da rivendere. È il 2005.
Ed è proprio questa la notizia che le due studentesse di cinema newyorchesi leggono sul giornale. Incuriositesi, riescono ad entrare nelle grazie della famiglia Avery e a filmare, nei dieci anni successivi, tutti i gradi del processo – che si conclude con la condanna all’ergastolo per l’imputato.
Il terribile interrogatorio di un minore ‘minorato’
La storia di Steven Avery, e della sua duplice condanna, fa sorgere più di un dubbio: se non era colpevole la prima volta, perché dovrebbe esserlo nel caso dell’omicidio di Teresa? Oppure è stato incastrato da chi aveva sbagliato la prima volta – in buona o in cattiva fede – e vuole ora vendicarsi per aver perso la causa milionaria?
Si potrebbe far risalire la genesi del concetto di true crime americano al mastodontico Cold Blood (A Sangue Freddo) di Truman Capote – romanzesco resoconto del massacro della famiglia Clutter in Texas. Ad oggi le produzioni documentaristiche sul genere sono davvero molte. Basterà nominare, per spaziare in ambiti diversi, The Staircase, Vatican Girl, Madoff – il Mostro di Wall Street… Questo perché, dopo The Jinx e Making a Murderer, il genere documentario true crime ha conosciuto una straordinaria fortuna, dando luogo ad una miriade di produzioni filmiche e seriali. Ed entrambe queste serie delle origini, per così dire, di questa nuova primavera hanno avuto un impatto notevole sul reale destino degli imputati protagonisti.
A seguito del lavoro di ricerca di Jarecki e della sua troupe, Robert Durst è stato nuovamente arrestato. La prima stagione di Making a Murderer ha creato un clamore mediatico globale senza precedenti intorno alla storia di Steven Avery e del nipote Brendan Dassey. Perché fu proprio l’interrogatorio di Brendan, al tempo sedicenne con un quoziente intellettivo ben al di sotto della media, condotto senza la presenza di un avvocato e tanto meno di un genitore, a decretare la colpevolezza dello zio. La registrazione della cosiddetta confessione, estorta a Brendan da due agenti particolarmente cinici e manipolatori, ha in seguito suscitato polemiche ed indignazione, fino ad essere oggetto di discussione della Corte Suprema.
Se a ciò aggiungiamo l’inqualificabile difesa d’ufficio di Len Kachinsky – che sarà in seguito per questo perseguito – che si accorda con i detective per incastrare il suo stesso problematico cliente, ne viene una pressione psicologica di una violenza sconcertante. Condotta su un minore.
I due ergastoli di Making a Murderer
I due detective, in combutta con l’avvocato, riescono a farsi dire dall’ingenuo ragazzo tutto quello che vogliono. Aggiustandone continuamente la versione, dato che Brendan continuava ovviamente a ‘non ricordare‘. E dunque a sbagliare i dettagli del raccapricciante omicidio a sfondo sessuale di Teresa. In questa storia forzatamente inventata, lo zio avrebbe ucciso Teresa dopo averla violentata, sadica violenza a cui avrebbe costretto il nipote a partecipare. Una testimonianza assurda, lacunosa e contraddittoria: che diventa però per la procura la prova schiacciante contro Steven e lo stesso Brendan.
Due processi separati (affinché lacune e contraddizioni nella versione del ragazzo non possano interferire con il processo a Steven). Due sentenze di ergastolo. Gli avvocati della difesa di Avery giocano diverse valide carte, alcune anche molto convincenti, per cercare di scagionare il loro cliente. Tra queste, una delle più eclatanti riguarda il sangue di Steven, trovato sul veicolo della vittima. La difesa accusa apertamente la polizia di Manitowoc di aver manomesso le prove ed aver piazzato ad arte il sangue di Steven, contenuto in una fiala tra le prove del 1985. Fiala trovata con i sigilli rotti e un sospetto foro nel tappo: segno di un ago che avrebbe prelevato il sangue dalla fiala.
Questa è solo una delle manipolazioni di cui viene accusata la polizia della contea in Making a Murderer. Con il forte sospetto che si volesse fin da subito incastrare Steven Avery, come punizione per la causa intentata contro il dipartimento. Risulta comunque subito chiaro come lo stesso dipartimento dello sceriffo della contea di Manitowoc avesse un innegabile conflitto d’interessi nel seguire il caso dell’omicidio Halbach.
Un conflitto che, assieme ai metodi d’indagine più che discutibili e a delle prove che sembrano talvolta fabbricate ad hoc, ha fatto letteralmente impazzire il web.
Causa per diffamazione e seconda stagione
Da tutto il mondo si sono levati cori in difesa di Steven e Brendan, con vivaci manifestazioni che sono andate avanti per giorni davanti al tribunale della contea e alla sede della polizia. Fino ad arrivare alle pesanti offese e alle minacce di morte nei confronti di procuratori ed agenti implicati nel caso. E così Andrew Colborn, ex detective della contea di Manitowoc, ha citato in giudizio per diffamazione Netflix e le due autrici di Making a Murderer.
Secondo il poliziotto in pensione, il documentario è stato costruito ad arte per far apparire lui e altri agenti delle forze dell’ordine come poliziotti corrotti e senza scrupoli che hanno falsificato e piazzato prove con il solo scopo di incastrare Steven Avery per omicidio. A dire il vero la docu serie in questione, pur avvalorando da subito una tesi ben precisa, si serve esclusivamente di filmati (da notare ad esempio l’assenza di una voce narrante), presi dal processo o dagli interrogatori, e di interviste – fatte soprattutto ai famigliari e agli avvocati di Steven e Brendan. Questo perché i parenti di Teresa Halbach e i rappresentanti della procura e delle forze dell’ordine si sono rifiutati di partecipare alla realizzazione di Making a Murderer.
“[…] abbiamo contattato tutti i livelli, da quello della Contea al Procuratore Generale dello Stato, per capire se avrebbero partecipato e condiviso la loro prospettiva con noi: hanno scelto di non partecipare e abbiamo dovuto trovare modi di includere comunque il loro punto di vista…” dicono Ricciardi e Demos a proposito di questa seconda stagione.
Una stagione comunque realizzata condensando il tempo, accorpando riprese, montaggio e post-produzione, per avere la certezza trascorresse il minimo indispensabile prima dell’uscita di S2.
I nuovi vecchi protagonisti di Making a Murderer, stagione 2
Questa seconda stagione, logica conseguenza dell’eccezionale successo della prima, inizia proprio dal racconto delle ripercussioni mediatiche e dell’impatto nella realtà – per così dire – di Making a Murderer. Dalle prime pagine delle testate nazionali alle numerose proteste di piazza… “Non credevo che a tanta gente potesse importare una cosa così piccola” – dice Steven Avery, visibilmente commosso.
Una cosa così piccola… ma il punto cruciale di questo documentario non è solo la caparbietà dello Stato nel non volersi mettere in discussione, riconfermando continuamente la validità delle due sentenze di ergastolo – narrazione che già così non sarebbe piccola… Una caparbietà che si esprime anche a fronte di nuove evidenze probatorie che dovrebbero ragionevolmente scagionare i due imputati. O quantomeno far ripensare daccapo l’intero dibattimento giudiziario.
Vi è anche, naturalmente, il viaggio nei meandri burocratico-kafkiani della giustizia americana, e il viaggio nei meandri sentimentali della complicata famiglia Avery…
Nella seconda stagione viene difatti approfondito il legame tra la detenzione di Steven e Brendan, e la vita dei loro famigliari. Allan e Dolores, genitori di Steven. Chuck e Earl, fratelli di Steven. Barb, sorella di Steven e madre di Brendan. Scott, nuovo marito di Barb e patrigno di Brendan.
Una sconcertante ipotesi alternativa
Dolores è molto invecchiata. I lunghi viaggi per andare a trovare il figlio sono a dir poco sfiancanti. Si muove a fatica, parla lentamente – talvolta a singhiozzo. Sempre più burbero e silenzioso appare Allan, il vecchio patriarca. La lunghissima carcerazione di Steven, e la sua reputazione da maniaco omicida, hanno nel tempo mandato in rovina l’attività di sfasciacarrozze. Nonostante il vano impegno quotidiano di Chuck e Earl, il fallimento è inevitabile. Ma la posizione indubbiamente più difficile – al limite dell’insostenibile – è quella di Barb: madre di Brendan e sorella di Steven, come si diceva più su.
Perché nella seconda stagione di Making a Murderer entra prepotentemente in scena una nuova protagonista: Kathleen Zellner. Avvocato assai noto per aver ribaltato 17 ingiuste sentenze, ottenendo la scarcerazione di altrettanti clienti innocenti. La Zellner accetta finalmente di assumere la difesa di Steven Avery, che le scriveva da anni, essendosi nel frattempo fatto più di 10 anni (oltre ai 18 già trascorsi per la precedente ingiusta condanna) dietro le sbarre.
Kathleen è un vero e proprio mastino: ricomincia da zero tutte le indagini, nonostante i tanti anni trascorsi dal fatidico momento della scomparsa di Teresa, e in breve tempo arriva ad una sconcertante verità alternativa. Che era completamente sfuggita ai detective. Suffragata da diversi indizi e logicamente molto più verosimile, questa alternativa ipotesi delittuosa vedrebbe la Halbach torturata ed uccisa proprio da Bobby, altro figlio di Barb – dunque nipote di Steven e fratello di Brendan – e da Scott, colui che pochissimo tempo dopo sarebbe diventato il marito di Barb…
E qui, come si può immaginare, le comunicazioni tra Steven e la sorella, registrate dal carcere e contenute in Making a Murderer, sono a dir poco pazzesche…
Making a Murderer e l’arte che imita la vita
Gli indizi a sostegno di questa assurda versione della storia – tracce, tempistiche, testimonianze – sono assai validi. C’è in più il contenuto del computer di Bobby, di cui la polizia di Manitowoc era fin dall’inizio al corrente, e che era stato bellamente ignorato. Un’immensa e spaventosa collezione, maniacalmente catalogata, di foto e video di donne torturate ed uccise nei modi più ripugnanti. Barb si ritrova nella paradossale situazione di dover scegliere, o per lo meno di doversi districare nella scelta. Tra un marito e un fratello. E – cosa ancora più difficile – tra i due suoi figli…
Ma l’obiettivo della Zellner non è certo la pace e la tranquillità famigliare. L’obiettivo è uno e uno soltanto: invalidare l’ingiusta condanna di Steven Avery. E tutta la seconda stagione, tra gli appelli richiesti dal nuovo team difensivo di Brendan – convinto della coercizione subita dal giovanissimo ‘ritardato’ -, e le astute mosse della Zellner, concentrata unicamente sulla scarcerazione del suo cliente, e che le prova davvero instancabilmente tutte, scorre con un ritmo frenetico e nuovi numerosi inaspettati colpi di scena.
Questa è davvero la realtà che dà gratuite lezioni di complessità e profondità narrative all’arte… Ad esempio, la legge del contrappasso con cui è stato colpito il procuratore distrettuale incaricato dell’accusa a Steven Avery, che è talmente perfetta da sembrare un artificio letterario. L’avvocato dell’accusa, che durante il processo insisteva sulla sessualità perversa e deviata di Steven, sarà in seguito costretto alle dimissioni, per poi finire in carcere, a causa delle sue stesse aggressioni sessuali ai danni di donne vittime di abusi familiari.
Donne che lui aveva il compito di rappresentare e difendere… L’ennesimo perverso segno dei tempi.
La faccia del sistema giudiziario americano
Così com’è un indiscutibile segno dei tempi l’incredibile successo della prima stagione di Making a Murderer. Che ha spudoratamente e con ogni evidenza messo sotto i riflettori polizia e procura di una piccola realtà della provincia americana. Abituata da generazioni a gestire le cose, come dire, forse troppo privatamente.
Se questi riflettori hanno da una parte contribuito a sbugiardare alcuni funzionari di dubbia moralità della contea di Manitowoc, dall’altra hanno addirittura creato un vero e proprio dibattito globale. Che ha per tema l’innocenza di Steven Avery. Un dibattito che giova ed al contempo nuoce allo stesso Steven.
Giova perché, avendo tenuto la soglia dell’attenzione pubblica molto alta per diversi anni (sicuramente tra il 2015 e il 2018), ha costretto canali d’informazione ed opinionisti più tradizionali a trattare la vicenda in primo piano, con la logica conseguenza di pressione dell’opinione pubblica nazionale in concomitanza di appelli e altri ricorsi legali. Ed è proprio in quest’ambito che si mostra anche l’altro volto della medaglia.
La faccia del sistema giudiziario americano che, per così dire, non può andare perduta…Non potendo in sostanza la giustizia statunitense perdere la faccia, è impossibile rinnegare le condanne di Steven Avery e del nipote Brendan. Significherebbe sconfessare l’intero sistema di procura e polizia, rischiando così di perdere un alto numero di voti e consensi, a prescindere dall’appartenenza politica.
Making a Murderer: due uomini in prigione e due pazienti documentariste
E così, in questo finale di partita, si ha la triste sensazione che il gioco possa essere truccato. In attesa di una fantomatica terza stagione, questa storia – Making a Murderer – finisce con due uomini in prigione. Il primo, Steven Alery, con ogni probabilità incastrato per ben due volte per omicidi e tentati omicidi da lui con ogni evidenza non commessi. Il secondo, Brendan Dassey, con l’unica colpa di essere il giovane e tonto nipote di Steven: l’uomo che stava per ricevere un risarcimento da 36 milioni di dollari, alla faccia dei distretti di polizia e procura della contea.
Making a Murderer – fabbricando un assassino, è un’agghiacciante testimonianza di come un giovane individuo, inviso per altre ragioni alla società civile – nella fattispecie alla piccola comunità in cui è cresciuto e vissuto nel Wisconsin – possa divenire un vero e proprio bersaglio. Vittima di una persecuzione spudorata e senza precedenti.
Una persecuzione che non aveva però previsto l’arrivo di queste due giovani registe, curiose ed alle prime armi, nella contea di Manitowoc… Il loro arrivo nello stato del Wisconsin, e il loro paziente lavoro, si è intrecciato al destino di Steven Avery e suo nipote. Se questo intreccio avrà ulteriori importanti sviluppi, immagino potrà dircelo solo l’agognata terza stagione targata Netflix…
Ma se fosse stato proprio il loro paziente lavoro a falsare la percezione globale sull’innocenza di Steven Avery? Se cioè Making a Murderer avesse scientemente omesso il racconto di importanti prove incriminanti Steven, solo per seguire una linea narrativa decisa in partenza a tavolino?
Questo è il pericolo del true crime: per quanto convincente possa sembrare la versione di una storia, non dovremmo mai dimenticare che è solo una versione della storia…
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