“Un buco nero è più strano di qualsiasi sogno degli scrittori di fantascienza. È una regione dello spazio in cui la gravità è talmente forte che nulla può sfuggire. Una volta superato il limite, non c’è modo di tornare indietro”.
Stephen Hawking
Il documentario Buchi neri. Al limite della conoscenza Netflix (2021) non solo ci parla di uno dei più grandi misteri dell’universo, ma ce lo fa vedere. Nel 2019, grazie al progetto Event Horizon Telescope, l’umanità è riuscita a fotografare un corpo celeste fino a quel momento oggetto di infinite speculazioni astrofisiche, matematiche, mistiche: il buco nero.
Tutti ne sentiamo parlare da sempre.
Nell’immaginario collettivo il buco nero è un posto dove non si sa bene cosa succeda e dal quale è meglio tenersi alla larga. Secondo le innumerevoli declinazioni della fantascienza, è un non luogo dove spazio e tempo non sono più soggetti alle regole note all’umanità. Ultimamente poi la gente, slegata in parte dalla religione, associa il buco nero all’idea o alla manifestazione della morte.
Ma l’astrofisica – scienza che si occupa di questo fenomeno – ce lo descrive in termini più specifici e, mi si conceda il termine, più realistici. Un buco nero è il risultato di implosioni di masse sufficientemente elevate. Ed è un corpo celeste con un campo gravitazionale così intenso che dal suo interno non può uscire nulla, nemmeno la luce. La sua massa è talmente densa, e la gravità interna così alta da dominare qualsiasi altra forza. I buchi neri sono ovunque, in ogni galassia, in ogni cielo. Divorano stelle. Alcuni sono grandi come miliardi di masse solari.
Perplessi di fronte a tanta singolarità? Non siete i soli.
Stephen Hawking e i buchi neri
Negli ultimi secoli questo argomento affascinantissimo ha scatenato dibattiti senza fine. Soprattutto perché diversi scienziati, tra i quali Einstein, ne avevano addirittura negato l’esistenza.
Senz’altro il fisico più noto ad occuparsi dei buchi neri è stato Stephen Hawking (per chi non lo conoscesse suggeriamo il bel film biopic del 2014 La teoria del tutto). Il documentario Buchi neri. Al limite della conoscenza dedica moltissimo spazio ad Hawking. Grazie a lui i buchi neri sono stati sviscerati non solo nel loro carattere ‘numerico’ ma anche da un punto di vista ontologico. Il grande rammarico degli altri scienziati protagonisti del documentario sta nella scomparsa di Hawking (2018) poco prima che la fotografia del buco nero venisse ultimata e resa visibile. Hawking non ha potuto vedere la ‘vera’ immagine del buco nero ma dobbiamo a lui gran parte delle avanzate teorie che hanno contribuito ad individuarlo.
Stephen Hawking è considerato non solo uno dei più grandi scienziati degli ultimi secoli, ma un esempio di come l’umano possa superare qualsiasi limite. Dato per spacciato a ventun anni (nel 1963, appena cominciato il suo dottorato a Cambridge gli viene diagnosticata la SLA, una malattia motoria degenerativa e mortale) Hawking non si arrende alla diagnosi che gli dava due anni di vita. Anzi, dopo una breve depressione, continua il dottorato e sceglie come soggetto proprio i buchi neri. O meglio, applica le scoperte delle caratteristiche dei buchi neri all’intero universo. Nel frattempo la malattia inesorabile avanza ma non così velocemente come previsto. Hawking ci prende dentro: si sposa e fa tre figli (alcuni tipi di motricità, come gli impulsi sessuali, non sono intaccati dalla SLA). Ottiene il dottorato e prestigiosi posti sia come insegnante che come ricercatore qualificatissimo.
La sua malattia degenera a tal punto da non permettergli più né di camminare né di deambulare – a stento riesce a muovere la bocca – ma lui se ne va in giro in una sedia a rotelle elettrica e continua i suoi studi diventando sempre più famoso. Ad un certo punto, nel 1985, ha un collasso e non respira più. Gli fanno una tracheotomia, togliendogli anche la voce.
Scienza, icone, bestseller
Muto e quasi totalmente paralizzato non si dà per vinto. Un tecnico di Cambridge gli costruisce un sintetizzatore vocale, in grado prima di tradurre in voce quello che lo scienziato scriveva con piccoli impulsi delle dita e poi, quando Hawking perse anche l’uso motorio delle mani, la macchina riuscì a tradurre in parole i micromovimenti del suo viso. Galvanizzato da queste scoperte che gli permettono di comunicare ancora con il mondo, decide di darsi alla scrittura divulgativa. Con la macchina in grado di tradurre le pulsazioni delle sue dita, scrive un libro dal titolo Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo. Pubblicato nel 1988 vende più di nove milioni di copie e diventa un best seller.
Famosissimo e inarrestabile, se pur ormai praticamente immobile, Hawking nel ‘90 divorzia dalla prima moglie sposando la sua infermiera dalla quale poi divorzierà anni dopo (correvano voci, smentite dagli assistenti di Hawking, che il fisico avesse iniziato una nuova relazione con un’altra infermiera).
Stephen fino ai suoi gloriosi settant’anni gira il mondo senza sosta e continua a tenere conferenze. Non vorrà mai cambiare la ‘primitiva’ voce del sintetizzatore vocale nonostante i progressi della tecnologia: quel suono metallico e alieno che l’ha reso celebre e che tutt’oggi, grazie ai video e alle registrazioni, non smette di pungolare le nostre conoscenze.
Lo scienziato muore nel 2018 pacificamente nel suo letto, dopo aver passato la sua vita a studiare i buchi neri e le singolarità dentro questi misteriosissimi corpi celesti. Dirà in una delle sue ultime conferenze: “Se vi sentite in un buco nero, non demordete! Per quanto la vita possa sembrare difficile, c’è sempre qualcosa in cui si può riuscire”.
Nel frattempo è diventato un’icona pop: apparirà in almeno 7 episodi dei Simpson (qui il podcast dedicato al longevo show).
La Black Hole Initiative
Peter Galison, fondatore del Black Hole Initiative di Harvard e grande amico di Hawking ci dice: “Con questo documentario volevo mostrare Hawking al lavoro. Non solo l’iconico Hawking che predice oracoli delfici sul mondo, ma l’Hawking che persegue quello a cui era davvero dedito, cioè la scienza. Ho pensato che sarebbe stato molto interessante per la gente vederlo”.
Infatti in Buchi neri. Al limite della conoscenza ci rendiamo conto che il lavoro di uno scienziato, oggi più che mai, è un lavoro di squadra. Hawking ha usato la sua popolarità dovuta anche alle sue condizioni fisiche (era il primo a dirlo) per far avanzare le ricerche scientifiche e i team di lavoro a cui prendeva parte.
Anche grazie a lui, la squadra di Event Horizon Telescope ci ha regalato la prima immagine ufficiale di un buco nero, oggi stampata in grande formato al Museum of Modern Art di New York. E per arrivare a quell’immagine ci sono voluti diversi anni e uno stuolo di risorse umane e tecniche. Come ci racconta sempre Galison:
“I buchi neri sono gli oggetti più difficili da vedere nell’universo perché non riflettono e non emettono luce. Quello che stiamo osservando si trova a 55 milioni di anni luce di distanza, quindi decifrare la sua impronta sul cielo è, per così dire, come cercare di leggere la data su una moneta a Londra da New York. Un solo telescopio non sarebbe riuscito a catturare l’immagine del buco nero in questione, che si trova nel cuore di una galassia nota come Messier 87. Per questo il progetto Event Horizon Telescope ha utilizzato simultaneamente otto osservatori radio su sei montagne che si estendono su quattro continenti, facendoli agire insieme come frammenti di un unico specchio”.
I buchi neri, il mistero della conoscenza, San Tommaso
Attenzione: il documentario non è un noioso stuolo di numeri, stupori incomprensibili e teorie inafferrabili. Anzi: le testimonianze si alternano a spiegazioni animate dei buchi neri che possono piacere persino ad un bambino. Lo so perché l’ho guardato assieme a mia figlia di 5 anni. Alla fine, quando con giubilo globale gli scienziati mostrano l’immagine del buco nero, le dico: “Ecco, hai visto? Sono riusciti a fotografare un buco nero.” E lei, impassibile mi chiede: “Si, allora adesso sanno cos’è?”.
Una domanda a cui io certamente non ho saputo rispondere con esattezza, e forse non vi riuscirebbero nemmeno i molti scienziati coinvolti. Il buco nero rimane nero. Lo si riesce a fotografare perché le onde gravitazionali si rendono visibili esteriormente quando ad esempio il suddetto corpo celeste ‘fa qualcosa’. Tipo, quando ‘mangia’ un altro buco nero, creandone un terzo. Questo evento catturato dai radioscopi è stata la prima ‘prova visibile’ di un buco nero.
Vari scienziati ci dicono che non abbiamo ancora chiaramente idea del perché sia così importante studiare questi corpi celesti. Alcuni paragonano la ricerca dei buchi neri a quella dell’elettricità in passato: nessuno sapeva cosa fosse ma poi, una volta capita, a qualcosa è ben servita.
A me questa faccenda dei buchi neri, frontiere immateriali da cui la luce non può scappare, ha fatto inevitabilmente pensare all’altrettanto misteriosa frase di San Tommaso d’Aquino:
“In fondo, la luce non è che l’ombra di Dio.”
Un mistero qui sulla terra: i funghi!