Ci sono due cose che The Last of Us, il magnifico drama post apocalittico la cui prima stagione ha segnato l’inizio del 2023 (in Italia su Sky e NOW), fa sorprendentemente bene. E che aiutano a spiegare il suo impressionante successo.
La prima è prendere un videogame amatissimo, oggetto di un vero culto negli ultimi dieci anni (il gioco di The Last of Us è uscito proprio nel 2013), e compiere un doppio miracolo. Adattarlo senza perdere il favore dei fan storici, notoriamente gelosi dei loro universi videoludici. E adattarlo senza alienarsi, e anzi sapendo conquistare, quanti non avevano dimestichezza con il gioco, e magari diffidano della categoria.
La seconda ragione? Portare a definitiva maturazione un sottogenere divenuto così popolare da essere ormai inflazionato. Il racconto post apocalittico, in particolare nella variante più in voga: un contagio globale ha mutato la maggior parte di noi in mostri che danno la caccia ai pochi superstiti.
Ho detto che questi fattori aiutano a spiegare il suo successo. Non che lo spiegano. E infatti da soli non bastano. Nei prossimi capitoli proveremo a scoprirne la ricetta segreta, analizzando uno per uno i suoi ingredienti. La storia, il rapporto col videogame, il fascino del genere; ma anche le atmosfere, a partire dalle musiche. Alcune ispirazioni: Nausicaä di Miyazaki, La strada di Cormac McCarthy. E persino il verissimo fungo Cordyceps. Ogni capitolo è autonomo: se vi interessa leggete, sennò andate avanti.
Fino all’ultima parte, quella in cui proveremo a tirare le fila. Scoprendo che ancora non basta, e che c’è un fattore più profondo che ha fatto di The Last of Us la serie evento di inizio 2023. Ha a che fare con la vita. Ha a che fare con l’amore. E ha a che fare con ciò che, alla fine, ci rende umani.
The Last of Us: una rapida introduzione
Serie televisiva statunitense, The Last of Us è basata sull’omonimo videogioco sviluppato da Naughty Dog e pubblicato nel 2013 con enorme successo. La serie è stata creata da Craig Mazin, già showrunner dell’ottima serie Chernobyl, e da Neil Druckmann, uno dei creatori del videogame originale. La serie è prodotta da HBO. In Italia è su Sky e Now ed è stata distribuita in parallelo all’uscita originale. La prima stagione, di 9 episodi, è andata in onda tra gennaio e marzo 2023.
La serie racconta la storia di Joel (Pedro Pascal), un contrabbandiere che viene incaricato di scortare Ellie (Bella Ramsey), una ragazza di 14 anni immune a un’epidemia fungina che – 20 anni prima – ha decimato gran parte dell’umanità. La recalcitrante coppia attraversa un’America post-apocalittica infestata dagli infetti, umani trasformati dal parassita, e da conflitti tra varie fazioni di sopravvissuti. I paesaggi dello show, che alternano città devastate dal collasso della civiltà agli sconfinati scenari dell’America rurale e montana, riflettono la sua produzione. La serie è stata infatti girata principalmente in Canada, oltre che in alcune zone degli Stati Uniti.
Dal punto di vista dei generi, The Last of Us offre un incrocio assai contemporaneo: le prevedibili componenti horror e fantastiche, volutamente limitate, cedono il passo alle dinamiche del dramma. E al ritratto psicologico di due reduci, un adulto e una ragazza, figli di un mondo alla deriva.
Al centro della serie è proprio la relazione tra Joel ed Ellie. E la loro lotta per sopravvivere in un mondo post-apocalittico pieno di pericoli e di difficoltà. Un rapporto che funziona anche grazie alla formidabile alchimia tra i due straordinari protagonisti, Pascal e Ramsey, che avevano condiviso (seppur in stagioni diverse) un altro grande successo: Game of Thrones.
La trama, un po’ più in dettaglio (spoiler solo sull’inizio del primo episodio)
La prima stagione di The Last of Us segue da vicino la trama del videogioco originale, con alcune modifiche e aggiunte per adattare la storia al formato televisivo. E, in alcuni casi, per introdurre temi e livelli di profondità ulteriore, come vedremo parlando dell’ormai celebre episodio 3.
Un rapido incipit dal sapore quasi profetico costruisce il setting concettuale. Il segmento di un talk show datato 1968 ricorda l’ammonimento all’epoca ignorato di un esperto di funghi (John Hannah): con le giuste condizioni ambientali, certe specie fungine potrebbero parassitare l’uomo. È improbabile, dice l’esperto. Ma se succedesse per noi sarebbe la fine.
2003. Senza preavviso, diffondendosi tramite un prodotto da supermercato, la mutazione di un tipo di fungo Cordyceps infetta in massa gli umani, e scatena una pandemia. Il collasso della civiltà è quasi immediato. Incontriamo Joel: col fratello Tommy e la figlia Sarah tenta la fuga dalla loro cittadina texana. Nel caos totale, Sarah viene uccisa da un soldato in preda al panico.
20 anni dopo, nel 2023, Joel vive a Boston. O meglio nella parte di città sopravvissuta al collasso, trincerata dietro mura, amministrata militarmente dalla FEDRA (Federal Disaster Response Agency). Indurito dalla vita, alterna lavoretti al contrabbando di merci. Finché gli viene assegnata una “missione” particolare: scortare la quattordicenne Ellie da Boston fino a un centro di ricerca delle Lucciole, gruppo ribelle che lotta contro il regime. Ellie è stata morsa da un infetto, ma non si è infettata: forse nella ragazzina si nasconde il segreto di una cura per l’umanità.
La prima stagione di The Last of Us, così, racconta il loro lungo viaggio in un’America devastata dalla malattia e dalla distruzione, in cui l’umanità è solo un ricordo lontano.
The Last of Us: il rapporto tra la serie il videogame
La serie, l’abbiamo detto e lo sapete, deriva da un videogame. Anzi, da quello che per molti nell’ultimo decennio è stato il videogame. Il gioco The Last of Us, uscito nel 2013 sull’onda di una febbrile attesa, è stato sviluppato da Naughty Dog, diretto da Neil Druckmann (anche co-autore della serie) e Bruce Straley, e pubblicato da Sony Interactive Entertainment per PlayStation e Windows. I suoi generi: action-adventure, survival horror, stealth. Ma con una forte componente drammatica e cinematografica. Come chiarito fin dalla prima sequenza, che la serie ricalca quasi inquadratura per inquadratura: l’improvviso irrompere del morbo nel 2003, la disperata fuga di Joel con la figlia.
Proprio la sua dimensione profondamente coinvolgente ed emozionante, quella di un racconto giocabile in 12 capitoli, più che di un semplice action game, è alla base del suo enorme successo. Assieme, chiaro, all’elevatissima qualità realizzativa. Dalle musiche (del premio Oscar Gustavo Santaolalla, di cui parliamo meglio dopo) alle ambientazioni post-apocalittiche, che trasformano pezzi dell’immaginario urbano americano. Con ben 256 riconoscimenti è uno dei videogiochi più premiati della storia ed è considerato, da gran parte della critica videoludica, uno dei migliori videogiochi di tutti i tempi. Primato poi superato dal seguito, The Last of Us Parte II (2020).
La serie segue la trama del gioco, dal racconto lineare. Ma si concede diverse divergenze. In parte approfondendo personaggi, come Marlene, la leader delle Lucciole. In parte creando quasi da niente vere e proprie backstories di enorme impatto: quella di Bill e Frank su tutte, cui è dedicato il prossimo capitolo. Due momenti importanti dello show derivano poi non dal videogioco originale ma dall’espansione The Last of Us: Left Behind, del 2014. Parliamo del prequel “storico” che racconta come, tempo prima, Ellie si era infettata (qui alla base del tesissimo episodio 7, Left Behind). E dell’avventurosa ricerca di medicine da parte di Ellie per cercare di salvare il ferito Joel durante l’inverno (qui in parte raccontata nell’episodio 8, When We Are in Need).
Una curiosità: Ashley Johnson, che nel videogame era stata Ellie, nella serie ne interpreta la madre, Anna, nell’intenso e fortemente drammatico flashback all’inizio dell’episodio 9 (Look for the Light).
Una magnifica invenzione: lo struggente episodio 3
Tra le differenze tra serie e videogame spicca l’intero episodio 3 di The Last of Us. Chiamato, come la ricorrente canzone del 1970 di Linda Ronstadt, Long, Long Time. È una puntata meravigliosa, e amatissima. Ma ha suscitato anche un tentativo, in parte riuscito, di review bombing. Quel fenomeno tipico della demenza internettara per cui orde di trogloditi cercano di affossare un’opera abbassandone i voti. Spesso perché qualcosa li ha offesi. In questo caso, reggetevi forte, una storia d’amore omosessuale maschile.
Nel videogame, Joel ed Ellie, allontanatisi da Boston, fanno tappa da Bill, un survivalist asserragliato in una cittadina rimpinzata di trappole. Da lui sperano di ottenere un veicolo. In alcuni rapidi passaggi apprendiamo che l’uomo è stato legato a un altro sopravvissuto, Frank, ora scomparso.
Nella serie la loro vicenda assorbe invece gran parte del terzo episodio. Joel ed Ellie viaggiano fino a Lincoln, Massachusetts: ma prima del loro arrivo avremo avuto modo di immergerci, in una lunga serie di flashback, nella storia di Bill (Nick Offerman, il leggendario Ron Swanson di Parks and Recreation) e Frank (Murray Bartlett, rivelazione della prima stagione di The White Lotus). Era stato il primo, un prepper paranoico e diffidente, a soccorrere e poi accogliere il secondo. Condividendo poi per 20 anni, unici abitanti del borgo, le piccole gioie quotidiane e la costante minaccia del caos.
La loro è la grande, struggente storia d’amore di The Last of Us. Ci parla del tempo che passa, della felicità possibile anche nell’orrore. Ma soprattutto ricorda, a noi e a Joel, che spetta a chi è più forte prendersi cura degli altri in un mondo che brucia. Trovando, in questo, il proprio scopo.
È la puntata che consacra la serie nella sua dimensione di profondità, intelligenza, maturità.
Musica e atmosfere in The Last of Us: una ballata crepuscolare
Curiosità: dopo la sua apparizione, così importante, nell’episodio 3 di cui abbiamo parlato le riproduzioni di “Long, Long Time” di Linda Ronstadt sono aumentate significativamente. A 50 anni dal suo debutto. Un fenomeno simile al ritorno in vetta del vecchio brano di Kate Bush “Running Up That Hill”, centrale come abbiamo raccontato nella quarta stagione di Stranger Things.
Altre canzoni (di Depeche Mode, Dido, Hank Williams) punteggiano, con efficacia, la prima stagione di The Last of Us: ma è tutta la colonna sonora a contribuire in modo decisivo al fascino e alle atmosfere del racconto. La firma Gustavo Santaolalla, celebre compositore e musicista argentino che aveva già lavorato alla colonna sonora del videogioco. Santaolalla non era certo l’ultimo venuto anche prima del successo del videogame: aveva composto infatti le colonne sonore di tutti i primi film dell’acclamato regista Alejandro González Iñárritu, come Amores Perros e 21 grammi. Soprattutto, aveva già vinto ben due Oscar per le migliori colonne sonore. Nel 2005 con I segreti di Brokeback Mountain, di Ang Lee. L’anno dopo con Babel, ancora di Iñárritu.
La musica di Santaolalla si adatta perfettamente alla natura post-apocalittica della serie, creando un’atmosfera tetra, malinconica, spesso sommessa. I brani musicali sono stati eseguiti da una varietà di strumenti acustici, come chitarre, mandolini e violoncelli, dando all’intera colonna sonora un tono intimo e in qualche modo “sincero”. Proprio come era stato per la colonna sonora del videogame, il brano ormai iconico “The Last of Us” accompagna i momenti più emotivi della serie. Non è solo l’atmosfera crepuscolare dello show a beneficiare del tocco raffinato di Santaolalla: anche la profondità narrativa ne esce arricchita.
Il fungo Cordyceps: invenzione o realtà?
Uno degli elementi centrali della trama di The Last of Us è il fungo Cordyceps, che ha la capacità di infettare gli esseri umani e trasformarli in creature violente e pericolose. A lui si deve l’apocalisse che abbatte le società umane e trasforma il mondo in una costante fonte di pericolo. Come abbiamo raccontato in questo articolo sul documentario Funghi fantastici, il fungo Cordyceps esiste davvero in natura. E può anche essere un parassita. Anche se non infetta gli esseri umani, ma gli insetti.
Le sue vittime sono altri funghi ipogei, di solito tartufi dei cervi (Elaphomyces), oppure insetti o ragni. I Cordyceps si dividono in due gruppi. Il primo, di cui fanno parte parassiti dei funghi sotterranei, include un numero più ridotto di specie nel mondo. Il secondo, di cui fanno parte parassiti principalmente degli insetti ma anche dei ragni, è molto più vasto e comprende più di 250 specie distribuite soprattutto nelle regioni tropicali e in Asia.
Ma veniamo al dunque. Il fungo Cordyceps è noto anche come il fungo zombie, perché le sue vittime infette mostrano comportamenti simili a quelli degli zombie nei film e nelle serie televisive. Il fungo si insinua all’interno dell’insetto ospite e ne controlla il comportamento. Portandolo a volte a cercare posti bui e umidi per poter germogliare e riprodursi. Altre ad ascendere, per poi cercare di infettare intere colonie di insetti.
Forse la minaccia del fungo Cordyceps nella serie The Last of Us risulta credibile e spaventosa anche grazie al suo aggancio reale. Non servono orde di infetti dietro ogni angolo: basta la paura della trasformazione, e il terrore dell’ignoto. Particolarmente vero verso il mondo micotico, per noi ancora largamente – e paurosamente – misterioso.
Il racconto della fine del mondo: la bellezza della natura
The Last of Us non è certo la prima storia a raccontare la fine del mondo, la distruzione della civiltà e il ritorno al dominio della Natura. La panoramica è ricchissima: in parte l’abbiamo trattata in un articolo di approfondimento, focalizzato sulle apocalissi pandemiche tra cinema e tv (qui la versione podcast). È chiaro che un riferimento ovvio potrebbe essere The Walking Dead, come abbiamo discusso anche nel podcast su The Last of Us. Almeno di primo acchito. E infatti i fan del mostruoso franchise zombie, orfani della serie madre, hanno sperato in massa di ritrovare qui le loro atmosfere favorite – perlopiù invano. Ma sono altri gli elementi che forse ha più senso evidenziare, attraverso due riferimenti meno ovvi.
Il primo è la rappresentazione della natura. Il mondo di The Last of Us è tornato verde. Persino le città, quando non nascondono le insidie degli infetti o la minaccia di altri umani, hanno tratti di pacifico splendore: la scena delle giraffe, tranquille signore di un contesto un tempo urbano, è esemplare. Fuori, poi, l’America è tornata quella dei paesaggi selvaggi. Come già il videogame, lo show si differenzia quindi notevolmente dall’immaginario post-apocalittico di tante produzioni precedenti, cupo e terrificante: Resident Evil su tutte, ma l’elenco sarebbe sconfinato. Dopo la crisi, il mondo è rifiorito. C’è da avere paura, certo: ma c’è anche tanta bellezza di cui godere. Il canto degli uccelli, cavalcare nelle praterie, una foresta incontaminata. Di più, come diremo alla fine: c’è speranza.
Possiamo pensare a Nausicaä della Valle del vento, film d’animazione del 1984 diretto dal leggendario Hayao Miyazaki. Dopo che una guerra disastrosa ha annientato l’umanità, il mondo – semidistrutto – è dominato da una foresta tossica popolata di insetti mutanti e velenosi. La foresta marcia di Nausicaä, il fungo parassita di The Last of Us: sono entrambi prodotti delle colpe dell’uomo, della sua distruttiva voracità consumistica. Eppure, come vedremo, entrambi consentono forse a una nuova umanità di emergere.
Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsey) e il ritorno della Natura in The Last of Us
The Last of Us, The Road: dopo la notte, l’alba
L’altro elemento che distingue lo show HBO dai prodotti di genere post apocalittico è allora il suo segno per così dire filosofico. Pensiamo al più celebre di questi: The Walking Dead. Stagione dopo stagione vediamo collassare modelli diversi di ricostruzione della società, come abbiamo raccontato qui. Stagione dopo stagione comprendiamo l’agghiacciante verità: più pericolosi dei morti vaganti sono i viventi. Lupi per gli altri superstiti. Condannati a non conoscere pace (almeno fino al “finale” fiabesco).
The Last of Us sceglie un’altra percorso. Anzi, un’altra strada. Prendendo a modello il romanzo postapocalittico del grandissimo scrittore statunitense Cormac McCarthy che si chiama appunto The Road. Uscito nel 2006, divenuto film (con Viggo Mortensen) nel 2009, The Road racconta il viaggio di un padre e di un figlio nei paesaggi allucinanti di un’America devastata da un catastrofico e misterioso evento, che ne ha alterato il clima e distrutto le risorse. Il mondo è un inferno, il cammino un incubo: ma un poco alla volta, nel cuore del figlio sorgerà la speranza di un’umanità nuova.
Ecco allora perché la serie di The Last of Us ha modificato, nel famoso episodio 3, la storia di Bill. Nel videogame era una cautionary tale, un monito: se Joel non voleva diventare come lui, chiuso e pieno di rimpianti, avrebbe dovuto aprirsi. Accogliere Ellie nel suo cuore. Nello show il segno cambia: la storia di Bill non è più di ammonimento, ma di ispirazione. Bill – che all’inizio era come Joel, duro e chiuso – ha vissuto accanto a Frank una vita felice fino in fondo. Resa piena dalla condivisione di una fragola. Dall’amore. Dal prendersi cura di un’altra persona.
Proprio come Joel imparerà a fare, nel corso della stagione e del viaggio, con Ellie. E viceversa.
La storia di Bill (Nick Offerman) e Frank (Murray Burtlett) in episodio 3 racchiude il senso profondo della serie: piantare semi di speranza anche nell’apocalisse
Perché guardare The Last of Us
Ed è anche per questo che la serie ha conquistato il pubblico. Perché nonostante racconti un futuro post-apocalittico, ha saputo costruire un messaggio di resilienza. E, appunto, di speranza. Impariamo ad amare questi due ruvidi antieroi, sfaccettati e complessi. La giovane Ellie, bambina-adulta aspra e quasi aliena nella fisicità androgina di Bella Ramsey. Monumento al coraggio e alla determinazione nel sopravvivere in un mondo ostile. E il Joel cui Pedro Pascal regala la sua maschera di cowboy spietato e malinconico. Un personaggio che è l’esatto contrario dell’assertivo superomismo Marvel. Perché è un vero antieroe, impegnato in un doloroso viaggio di progressiva ri-umanizzazione.
Ecco perché The Last of Us “parla” a pubblici molto più vasti di quelli di genere. Mescolando sapientemente gli elementi orrorifici e fantastici – assai dosati – alla dimensione emotiva e drammatica di una storia di crescita, di scoperta, di ritorno alla vita. Senza rinunciare alla tensione, anzi usando il suo scavo psicologico come carburante per renderla più intensa. Pensiamo al settimo episodio, quello ambientato nel centro commerciale abbandonato: ci sono solo due ragazzine che cercano di strappare un’ultima notte di giovinezza spensierata ai terrori del mondo e ai suoi travagli, ma la tensione monta e monta, fino quasi a risultare insostenibile.
Alla fine, forse, il segreto è tutto qui. Nel raccontarci i modi – sottili, inattesi – con cui la speranza sa insinuarsi anche nell’apocalisse, The Last of Us ci riconsegna una grande e profonda verità. Una verità che avevamo dimenticato nella cupa e un po’ millenaristica inflazione di storie crepuscolari sulla fine del mondo.
Che vivere non vuol dire solo sopravvivere. E che non c’è vita senza amore.
The Last of Us: ascolta il nostro podcast!
Infetti, sopravvissuti e apocalisse tv: la grande saga di The Walking Dead