Wanna, documentario in 4 episodi (Netflix, 2022) ideato da A. Garramone e diretto da N. Prosatore, testimonia l’incredibile parabola di Wanna Marchi e della figlia Stefania Nobile nel mondo del telemarketing italiano.
Madre e figlia sono le protagoniste di una storia che ebbe un grande impatto mediatico. Un impero di telespaccio cosmetico negli anni Ottanta nato praticamente dal nulla, seguito da una fraudolenta bancarotta. Una seconda miracolosa telerinascita, che sfocia presto nei campi occulti ed elisi del nulla più assoluto: la vendita dei numeri del lotto, assieme al mitico mago Do Nascimento.
A conclusione di questa già sorprendente avventura commerciale, dopo le gravi accuse di truffa ed estorsione partite da un clamoroso scoop di Striscia la Notizia, a cui si aggiungono le subitanee indagini della Guardia di Finanza, arriva il processo-show a madre e figlia. Infine la condanna a dieci anni di prigione, poi mitigati a sei in virtù della buona condotta.
Wanna Marchi e Stefania Nobile si raccontano attraverso tre ore di filmati d’epoca – pazientemente ripescati dalle teche Rai, Mediaset e canali privati vari – senza mostrare il minimo pentimento. Assieme alla loro, le numerose testimonianze di vittime e collaboratori. Con una menzione speciale al giornalista investigativo Stefano Zurlo, che guida lo spettatore nell’intricata rete di fatti e retroscena di questa assurda romanza esistenziale.
Sullo sfondo di Wanna, le centinaia di migliaia di persone abbindolate e truffate da un sistema di marketing selvaggio, catodicamente catalizzate dai modi schietti e dall’atteggiamento sempre sopra le righe dell’imprenditrice emiliana.
Candida dabbenaggine vs. cinismo spregiudicato
Wanna. Da una parte la candida dabbenaggine delle casalinghe ipnotizzate dalle televendite pomeridiane, convinte a comprare miracolosi prodotti di bellezza dalla dubbia efficacia. Uno su tutti, il famosissimo Scioglipancia, prodotto commercializzato prima ancora di essere stato creato. Dall’altra lo spregiudicato cinismo e la mancanza di scrupoli delle due, fedeli al loro motto: “I coglioni vanno sempre inculati”. Il tutto a suon di svariati miliardi delle vecchie lire, lungo quattro decenni di malcostume italiota.
Certo, ci vuole una faccia tosta per vendere la fortuna in televisione, trasformando un cameriere brasiliano in maestro di vita e ossigenato sciamano di antichi riti tribali non meglio specificati. E questo era merito dell’istrionismo della madre. I soldi veri, però, arrivavano – in questa fase magica della loro carriera – grazie alla figlia sociopatica, che a tal scopo addestrava decine di centralinisti.
Metti il sale rituale di Do Nascimento in un bicchiere d’acqua. Riponi il bicchiere in un luogo chiuso e asciutto, tipo un armadio. Se dopo una settimana il sale non si è sciolto – e i tuoi numeri non sono usciti – a dispetto delle più elementari regole base della chimica, significa che un potente malocchio è stato lanciato contro te e i tuoi cari.
Se i numeri per il lotto costavano relativamente poco, le pratiche occulte di disbrigo malocchio erano invece esosissime. E una volta caduta nella trappola, la malcapitata – poiché si trattava per lo più di donne anziane e sprovvedute – onde evitare alla famiglia capitasse qualche tragedia, doveva sborsare tutti i propri risparmi.
Una volta fiutata la preda, una volta cacciata e agguantata, bisognava spolparla fino all’osso. Arrivando a minacciarla nei modi più svariati. Tipo, ironicamente, di rivolgersi ai carabinieri – come la Nobile dice alla vecchietta usata da Striscia nel 2001 per smascherarle.
Oppure, paventando incidenti mortali ai figli in un prossimo futuro.
Da Vanna a Wanna
Così, come testimoniato nel processo, una poveretta svuota tutti i conti di figli e marito. Che non le rivolgeranno più la parola. Un’altra arriva a prostituirsi pur di continuare a pagare questi strozzini della fortuna.
Un abisso morale, per così dire, nel quale madre e figlia sguazzano felici e spensierate. Tuttora convinte di aver solo fatto ciò che andava fatto, in un mondo di lupi e squali, e di aver pagato per averlo fatto meglio degli altri.
Sole contro il mondo, abbracciate in una relazione di codipendenza immorale nella quale l’una giustifica e incoraggia sempre l’altra.
“Io non la vedo truffa, perché se uno mi chiama e mi dice di mettere il sale nel bicchiere lo mando affanculo”, dice seraficamente la figlia. “Loro non hanno mai mostrato empatia verso le vittime. Per loro le vittime sono sempre colpevoli”, chiosa Zurlo.
Lungo il crinale narrativo di Wanna, si incontrano bizzarri personaggi, che lasciano comprendere come molti lati di questa storia siano ancora piuttosto oscuri. Come la pacata e misteriosa Milva Magliano, finita in gioventù in galera per la sua vicinanza alla Nuova Camorra Organizzata, e poi nuovamente in quanto amministratore delegato della Marchi s.r.l. Oppure come l’ambiguo e massone marchese Capra de Carrè…
Presenze queste, come si diceva, che lasciano presagire di trovarci di fronte alla classica punta dell’iceberg di una vicenda la cui sorprendente evoluzione è stata solo in parte raccontata.
Tra ridicolo e patetico, fantasmi e cellulite, camorra e P2, avidità e tribunali, narcisismo e disperazione, riflettori e turpiloquio, oroscopi ed estorsioni, realtà e televisione, si consuma la vicenda di Wanna. Docuserie su una signora emiliana di Ozzano che si chiamava Vanna – prima di cambiare il suo nome all’anagrafe e di diventare la più potente televenditrice della storia di questo paese.
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