Puoi girarti dove vuoi, gli zombi sono dappertutto. Film, videogame, fumetti. E, ovviamente, negli ultimi 15 anni, serie tv. È difficile persino tenere il conto. Specie dopo la popolarità mondiale portata dal vasto successo di The Walking Dead. Lo zombi drama si è concluso nel 2022 dopo 11 stagioni, ma il franchise non è morto, anzi. Come abbiamo raccontato nell’articolo conclusivo sulla serie ammiraglia, la vita continua. Tales of the Walking Dead (Disney+), di cui parliamo qui, non è neppure il primo spin off dello show: è addirittura il terzo. Né sarà l’ultimo: come sappiamo, il finale della serie madre ha aperto ad almeno tre nuovi spin off in diretta prosecuzione di alcune sottotrame e relazioni (anche centrali) dello show.
Nel già citato articolo “maestro” sulla popolare serie di AMC (che troverete linkato anche a fondo pezzo) abbiamo discusso in lungo e in largo origine, significato, popolarità di quello che è diventato un vero e proprio genere a sé. Così come, in questa puntata del podcast, abbiamo riflettuto sulle conseguenze “politiche” della zombie apocalypse: ricordando i tanti modelli di società che i sopravvissuti di The Walking Dead incontrano nel loro peregrinare.
Oggi, però, ci concentriamo su un prodotto più recente e più piccolo. Appunto, Tales of the Walking Dead. Provando a vedere in che relazione si pone con la serie maggiore. Come ha provato a rinnovare i fasti del franchise. Se ci è riuscito o meno. E, visto che di una serie antologica si tratta, cosa vale la pena guardare e cosa no per chi non voglia perdere troppo tempo (il che già vi fa capire cosa, in sintesi, ne pensiamo: un prodotto sostanzialmente trascurabile).
Cos’è Tales of the Walking Dead?
Si diceva: Tales of the Walking Dead è una serie antologica. Creata da Scott Gimple per AMC Studios, è un derivato della più famosa The Walking Dead e presenta episodi autoconclusivi che raccontano storie di sopravvivenza e di sopravvissuti all’apocalisse zombie. È andata in onda negli USA su AMC, il canale di The Walking Dead, a partire dall’agosto 2022, con una prima stagione da sei episodi. In Italia è arrivata qualche mese dopo, a novembre dello stesso anno, su Disney+. Piattaforma che nel frattempo aveva acquisito i diritti della serie madre per alcuni mercati esteri, ospitando la sua stagione conclusiva. E tutte le dieci precedenti.
Scott Gimple, il creatore della serie, è stato in precedenza tra gli showrunner di The Walking Dead e ha collaborato anche alla produzione dei due prima spin off. La fortunata Fear the Walking Dead e l’inutile The Walking Dead: World Beyond. La nuova serie è stata prodotta anche da Channing Powell, Gale Anne Hurd, David Alpert, Robert Kirkman, Michael E. Satrazemis, Brian Bockrath. Diversi sono nomi divenuti ben noti ai fan di The Walking Dead.
Dopo varie speculazioni, e probabilmente dopo qualche indecisione produttiva sulla direzione da seguire (anche in relazione agli altri spin off che poi AMC ha deciso di sviluppare per proseguire di fatto le vicende della serie madre), la scelta è stata per 6 episodi sostanzialmente indipendenti dallo show di partenza. Con una cospicua eccezione. Ecco quindi alcuni attori, assai noti e mai apparsi nella serie madre, a segnare altrettante puntate: Anthony Edwards, Parker Posey, Terry Crews, Olivia Munn. Ma ecco invece un nome che i fan di The Walking Dead show conoscono (e temono): Samantha Morton, che riprende il ruolo di Alpha. O meglio ne racconta la backstory.
La relazione con la serie principale The Walking Dead e il fumetto originale
Il punto è proprio questo. Di partenza, Tales of the Walking Dead è un derivato di The Walking Dead, a sua volta basata sull’omonimo fumetto creato da Robert Kirkman, Tony Moore e Charlie Adlard. Al fumetto originale abbiamo fra l’altro dedicato questa puntata del podcast. Per chi si fosse appena svegliato da un coma, la serie principale racconta in larga parte le vicende del poliziotto Rick Grimes, che si sveglia da un coma per scoprire che il mondo è stato invaso dagli zombie. E deve lottare, con altri sopravvissuti, per cercare di trovare pace e protezione contro la minaccia dei morti viventi. E dei viventi, che via via emergono come il pericolo più grande.
Ma Tales of the Walking Dead si distingue dalla serie principale per la struttura antologica, con episodi autoconclusivi. Cosa vuol dire? Che lo show può permettersi di esplorare aspetti meno conosciuti dello stesso universo narrativo. O di svilupparne sottotrame. O di dare profondità a personaggi incontrati in The Walking Dead, raccontandone le storie di background. Di narrare eventi accaduti in altre parti del mondo. Di aprire piccole finestre su momenti diversi rispetto al lungo arco (una quindicina d’anni, se ho fatto bene i conti) coperto dalla serie madre.
Insomma, sulla carta una ghiotta opportunità per i tanti fan della serie, e in generale gli appassionati del sottogenere zombi. Anche per la maggiore varietà di storie, atmosfere e generi che Tales of the Walking Dead si poteva permettere rispetto ai toni da neo-western un po’ crepuscolare dello show principale. Dal momento che ogni episodio si concentra su uno o due personaggi, con un approccio unico e differente. Anche in termini di linguaggio.
I sei primi episodi di Tales of the Walking Dead
E allora vediamo le scelte che i creatori di Tales of the Walking Dead hanno fatto, almeno per questa prima stagione. Sei, lo abbiamo detto, gli episodi.
In “Evie / Joe”, un prepper (Terry Crews) si imbarca in un lungo viaggio per cercare di trovare la sua “amica di radio”, conosciuta nei lunghi mesi passati barricato in un bunker. Si imbatte invece in una tizia piuttosto squinternata (Olivia Munn). La puntata ha un tono largamente grottesco, persino comico (anche per gli attori coinvolti).
Il tono grottesco segna anche il secondo episodio, “Blair / Gena”: qui, una impiegata e la sua capa (Parker Posey) si trovano bloccate in un loop temporale. Dovendo rivivere, senza mai riuscire a venirne fuori, l’inizio del contagio e il caos che ne consegue. Diciamo: Ricomincio da capo con gli zombi.
Si torna alle atmosfere (e alle storie) di The Walking Dead con “Dee”. È il nome della donna che, anni dopo, impareremo a conoscere come Alpha. Qui la vediamo, nei primi anni dell’epidemia, cercare di proteggere la figlia Lydia, ancora ragazzina, in una comunità “galleggiante”, che vive su un battello a vapore provando a frapporre l’acqua tra sé e i morti viventi.
“Amy / Dr. Everett” racconta invece l’incontro tra una giovane donna, Amy, e l’elusivo Dr. Everett (Anthony Edwards), un ricercatore che sta studiando le abitudini degli zombi.
Si vira verso l’horror con le ultime due puntate: “Davon”, che segue l’omonimo personaggio, un sopravvissuto afroamericano che rischia di finire linciato da una non così civile comunità di bianchi; e “La Doña”, che vira addirittura verso fantastico e soprannaturale.
Piccola guida: quali puntate guardare…
Diciamolo pure: di base, Tales of the Walking Dead è saltabile in blocco. Sono circa 300 minuti complessivi, 5 ore che potreste davvero usare meglio. Per esempio guardando fuori dalla finestra. Oppure, se volete rimanere sul tema, riguardando i primi due film classici di George Romero, quelli che costruiscono il canone cinematografico e pop del sottogenere zombi. La notte dei morti viventi (1968), povero di budget ma ricco di idee, ancora oggi un gioiellino della paura e della paranoia, con la sua riflessione anche sociale dura e urticante. Zombi (1978), con i sopravvissuti asserragliati in un centro commerciale assediato da un mare di morti viventi, scoperta satira della società dei consumi. E magari, toh, il bel remake proprio di quest’ultimo film fatto nel 2004 da Zack Snyder, e che riprende il titolo originale del gioiello di Romero: L’alba dei morti viventi.
Ma diciamo che vi manchi lo show, abbiate finito World Beyond, siate in pari con Fear The Walking Dead. O semplicemente sbaviate per tutto ciò che ha a che fare con gli zombi. Proviamo almeno a mettere in ordine le puntate, dalla migliore alla peggiore. Giusto per non perdere troppo tempo.
“Dee” è l’unica puntata davvero, se non proprio imperdibile, quantomeno importante. E bella. Merito di un’attrice tosta come Samantha Morton, e merito del suo personaggio, Alpha: che qua vediamo, di fatto, nella sua origin story. Un po’ come era successo per Negan nella parte finale della decima stagione. Insomma, siamo appieno nel canone. L’altra puntata da salvare è “Amy / Dr. Everett”. Edwards tratteggia un bel personaggio, un ricercatore disinteressato ormai all’umano, curioso solo di studiare questa “evoluzione” della specie. L’episodio non porta lontano, ma c’è tutto un crepuscolo boschivo che è molto in linea con un pezzo importante dell’estetica della serie.
… e quali no
Le puntate 5 (“Davon”) e 6 (“La Doña”) sono un po’ accomunate da un’atmosfera allucinata, a metà tra horror soprannaturale e fantastico. Diciamo: non ci aggiungono niente, non ci tolgono molto (se non un tre quarti d’ora di vita ciascuna). Non assomigliano a quasi niente che si sia visto in The Walking Dead, se non forse a certe digressioni narrative che però, qui, non ci hanno convinto. Nel senso che essendo puntate stand alone, si perde anche quel senso di “pausa”, o divagazione, o piccola espansione che certi momenti dello show principale avevano saputo avere.
“Davon” ha un pregio, se vogliamo, che è quello di riconnettere la serie a un tema toccato nel film fondativo del sottogenere, il già citato La notte dei morti viventi di Romero. E al suo finale, beffardo e chirurgico, che appunto introduceva una lettura anche razziale. Qui è la delirante disavventura di un afroamericano perseguitato e accusato di aver rapito bambini, e quindi costretto a sopravvivere – oltre che ai mostri – ai non meno mostruosi viventi. “La Doña” è un inserto sostanzialmente incomprensibile, che lascia la strana sensazione di un grosso fraintendimento sul genere di appartenenza.
Problema che esplode con quelle che poi sono state, almeno nella distribuzione italiana, le prime due puntate di Tales of the Walking Dead. Un totale disastro, uno scherzo mal riuscito, un tentativo fallimentare di introdurre una dimensione grottesca se non apertamente comica in un universo narrativo il cui senso è casomai dato dalla sua sostanziale disperazione. “Evie / Joe” lascia interdetti, per non dire basiti. “Blair / Gena” fa venire voglia di urlare: la ripetizione in loop come metafora della ineluttabilità del collasso sociale di fronte all’insorgere dell’epidemia l’abbiamo capita, grazie, ma è così fastidiosa che uno vorrebbe essere morto (senza resuscitare, per cortesia).
Tales of the Walking Dead e un franchise infinito
La serie ammiraglia si è conclusa con 11 stagioni e 177 episodi. Ma il franchise è più vivo che mai. Ha già completato 7 stagioni (con una ottava e ultima già annunciata per ques’tanno) e superato le 100 puntate Fear the Walking Dead. Spinoff, da noi su Prime Video, che per le prime tre stagioni (dal 2015) funge più o meno da “prequel generale” alla serie madre: raccontando le prime fasi della pandemia e la caduta dell’ordine sociale. E che poi ha portato le proprie storie a “raggiungere” temporalmente la cronologia della serie principale, intrecciandone le vicende.
Un secondo spin off, The Walking Dead: World Beyond, ha debuttato nel 2020, anche questo su Amazon Prime Video. Due sole stagioni per 20 episodi totali che raccontano una storia parallela, una decina d’anni dopo l’apocalisse. Qui, i ragazzini cresciuti (relativamente al sicuro) in una comunità protetta durante i primi anni della catastrofe sono costretti a confrontarsi con un’opaca e brutale organizzazione militare, che sta ricostruendo a viva forza un modello di ordine sociale.
Non basta? Tre ulteriori spinoff sono già stati annunciati da AMC. Ben prima del finale di serie, alla faccia degli spoiler. Uno incentrato su Daryl, uno sul rapporto tra Rick e Michonne, uno su Negan e Maggie. E taciamo dei tanti videogame diretta filiazione della serie…
E la nostra Tales of the Walking Dead? Potrebbe avere una seconda stagione. Se così sarà, c’è da sperare che faccia ciò per cui era stata inizialmente pensata: espandere l’universo, consentire delle occhiate oblique a momenti e personaggi, raccontare dettagli. Senza stravolgerlo. Senza cercare di cambiarne il genere. Per quello c’era già Z Nation.
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