Quando, nel finale de Gli intoccabili, Eliot Ness, l’eroe, scaraventa l’azzimato e odioso gangster giù dal tetto del Tribunale, alzi la mano chi non ha intimamente goduto. È impossibile – emotivamente, istintivamente, visceralmente – condannarlo per quel gesto. E il magnifico film di Brian De Palma, scritto da David Mamet, uno dei capisaldi del periodo (The Untouchables, 1987) non fa niente per problematizzare l’accaduto, anzi. Il gangster è mostrato come particolarmente crudele ed esecrabile: ha pure assassinato l’amatissimo vecchio poliziotto impersonato da Sean Connery. A interpretare Eliot Ness, il coraggioso agente federale che ha giurato di fermare Al Capone, è Kevin Costner, con il suo volto da eroe tutto d’un pezzo. Non batte ciglio dopo aver deliberatamente, non accidentalmente, punito il criminale così, extra legem. E noi con lui.
Ciclicamente, il mondo – e in particolare gli Stati Uniti – si sveglia di fronte a immagini profondamente disturbanti. Poliziotti violenti, o peggio – la violenza della polizia. L’uccisione di George Floyd, nel 2020, ha riacceso in modo particolarmente potente i riflettori sul gigantesco problema della brutalità – razzialmente orientata – endemica alle forze dell’ordine americane.
Ma, al di là dell’orrore dell’episodio in sé, ancora più potenti e insidiosi sono due elementi strutturali che sono emersi chiarissimi allora. Da un lato, ci siamo improvvisamente resi conto degli effetti della progressiva militarizzazione della polizia, tra blindati, droni, lacrimogeni, cariche; mentre agenti in assetto anti-sommossa hanno occupato le strade e sovente impedito, con dubbia legalità, persino il diritto costituzionale dei cittadini a manifestare pacificamente il proprio dissenso. Dall’altro, è esploso in piena evidenza un vero e proprio cultural divide. Tra coloro che denunciano la deriva della polizia americana (e non solo) verso modelli autoritari e illiberali. E quanti invece la difendono. Come scudo e baluardo contro i pericoli di un mondo fattosi disordinato, spaventoso.
Quando i “buoni” sono al di sopra della legge
Quel che mi interessa, qui, non è tanto la rappresentazione della brutalità e della violenza della polizia, anche nelle sue motivazioni o nei suoi risvolti razziali. Un tema finalmente affrontato culturalmente negli ultimi anni. Si pensi al quasi voyeuristico Detroit di Kathryn Bigelow (2017), o a serie belle e struggenti come Seven Seconds (2018) e When They See Us (2020), capaci di raccontare le implicazioni e le conseguenze di un sistema profondamente ingiusto e discriminatorio. O alla recente (2022) We Own This City, di cui abbiamo scritto qui.
Quella che propongo è piuttosto una riflessione su come la cultura pop dell’ultimo mezzo secolo abbia non solo romanzato le funzioni di sicurezza pubblica ma costantemente esaltato la figura di poliziotti violenti, e in generale “buoni” che non giocano secondo le regole.
Tonnellate di show televisivi e di film di consumo ci hanno raccontato come eroi positivi quei difensori della legge che si considerano, e agiscono, al di sopra della legge. Ci hanno spinto a parteggiare per loro. Nel far questo hanno prodotto, va detto, eccellenti esempi di intrattenimento.
Al contempo, però, ci hanno progressivamente anestetizzato rispetto al problema dell’esercizio della violenza, una delle funzioni più delicate demandate allo Stato. Favorendo involontariamente un progressivo slittamento culturale dei limiti di ciò che consideriamo eticamente accettabile, verso un utilitarismo spinto. Il fine ha sempre più messo in secondo piano i mezzi. E ci hanno via via reso indifferenti, se non compiacenti, rispetto all’idea della militarizzazione dei corpi di polizia.
Sullo stesso tema abbiamo realizzato anche una riflessione in formato podcast, qui.
I primi poliziotti violenti: Callaghan, “Popeye” Doyle, Quinlan
Il fenomeno nasce mezzo secolo fa, e si afferma subito grazie ad alcuni grandi successi che diventeranno classici. I due più celebri poliziotti violenti vengono creati nello stesso anno, il 1971. L’ispettore Callaghan interpretato da Clint Eastwood. Il detective Jimmy “Popeye” Doyle di Gene Hackman nella saga de Il braccio violento della legge.
Callaghan (in originale Callahan) è stato protagonista di ben 5 film in 17 anni: da Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, 1971), di Don Siegel, al più modesto Scommessa con la morte (The Dead Pool), nel 1988. Il personaggio, un poliziotto dai metodi spicci e insofferente delle regole, è racchiuso nella sua battuta chiave. Quel “Coraggio, fatti ammazzare” che in originale suona ancora più sinistro: “Go ahead, make my day”. Avanti, fammi felice.
Sempre del 1971 è il primo capitolo de Il braccio violento della legge (The French Connection). Diretto da William Friedkin e salutato da un enorme successo, 5 premi Oscar e 3 Golden Globe. Il personaggio di Gene Hackman combatte il crimine ma indulge al contempo, con non poco compiacimento, in brutalità spesso razzialmente orientate.
In un certo senso, un antesignano “alto” di questi poliziotti violenti e sprezzanti delle regole lo troviamo già in L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958), sfortunato e martoriato capolavoro dell’immenso Orson Welles. Precursore tra l’altro proprio della figura del detective che si considera al di sopra della legge. Il personaggio che Welles crea e interpreta, il capitano di polizia Hank Quinlan, non esita a contraffare prove e a intimidire, ricattare, persino assassinare coloro che possono essere d’ostacolo alla sua indagine. Quinlan è il “cattivo” del film, ma un finale beffardo rivela come il vecchio e corrotto poliziotto abbia avuto per un’ultima volta ragione.
Il poliziottesco italiano, Miami Vice, Arma Letale
È interessante ricordare come l’Italia si faccia trovare prontissima a cavalcare l’onda, forse anche per il clima di tensione sociale degli anni. Nel nostro Paese, il sottogenere prende anche un nome: il poliziottesco. Titoli come La polizia ringrazia di Steno del 1972 e La polizia incrimina, la legge assolve di Enzo G. Castellari del 1973 codificano il modello, che sarà ulteriormente popolarizzato tra il ‘75 e il ‘76 dalla trilogia del Commissario Betti (Roma violenta, Napoli violenta, Italia a mano armata). Poliziotti violenti, come si vede fin dai titoli dei film in questione.
Gli esempi si moltiplicano a partire dagli anni ‘80 quando, accanto al cinema, la televisione inizia ad assumere con sempre maggiore forza il ruolo di produttore autonomo di contenuti altamente serializzati. Con cui poi si affermerà definitivamente alla fine del millennio e nei primi decenni del nuovo secolo. In ordine cronologico, e limitandoci a citare esempi così noti da non richiedere contestualizzazioni o spiegazioni, vale la pena ricordare alcuni titoli.
Miami Vice, serie poliziesca ambientata a Miami che nella sua lunga corsa (1984-1989) e con una parabola progressivamente più cupa avrebbe popolarizzato in tv tanto la figura di poliziotti violenti e disinvolti quanto un’idea – ahinoi duratura – di Italian style nell’abbigliamento.
Nel 1987 nasce la saga cinematografica di Arma Letale (Lethal Weapon), diretta da Richard Donner e interpretata da Mel Gibson e Danny Glover. Con il primo a tratteggiare un poliziotto aggressivo, violento, costantemente ipereccitato. E naturalmente assai benvoluto dal pubblico, che ne segue le avventure attraverso 4 film, fino al 1998.
Die Hard, 24: poliziotti violenti, agenti segreti che torturano
Discorso analogo possiamo fare per l’ancora più ampio franchise di Die Hard, con l’irresistibile Bruce Willis nei panni del popolarissimo poliziotto John McClane. Dal capostipite Trappola di cristallo del 1988 al quinto e ultimo sbiadito capitolo del 2013, per un quarto di secolo, l’eroe dovrà affrontare orde di terroristi che minacciano la tranquillità sua, della sua famiglia, di New York. Lo farà menando, sparando, facendo saltare in aria, uccidendo in mille modi creativi gli orridi cattivi.
Il fronte terroristico è inevitabilmente uno degli scenari in cui risulta più agevole costruire la caratterizzazione di un eroe che, in nome di un bene superiore, è costretto e persino moralmente legittimato a ricorrere a metodi altrimenti esecrabili. L’agente dell’antiterrorismo Jack Bauer di 24, enorme successo targato Fox e andato in onda in America dal 2001 al 2010, non arretra di fronte a nulla. Torture e uccisioni efferatissime sono strumenti legittimi anche per i “buoni”. In palio c’è un bene troppo grande per stare a cavillare. E inoltre, l’immedesimazione appassionata di Kiefer Sutherland nel ruolo rende l’empatia col pubblico inevitabile.
Nota a margine. 24, a cui abbiamo dedicato questa puntata del nostro podcast, è prima serie a rispettare scrupolosamente le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, dato che ogni stagione, composta di 24 episodi, racconta in tempo reale una vicenda che si dipana nell’arco di una sola giornata.
Tra realismo e Oscurità: NYPD Blue, Training Day, The Shield, True Detective
Tornando alla polizia, meritano una citazione altri prodotti ben rappresentativi del fenomeno. In tv, a cavallo dei millenni, NYPD Blue (1993-2005): cruda, realistica, con poliziotti dai modi spicci e violenti. Personaggi nevrotici che portano i propri disturbi nel lavoro.
Del film Training Day (2001) la cosa forse più memorabile è il lapidario consiglio che il cinico detective cui dà il volto Denzel Washington offre al giovane e ingenuo poliziotto interpretato da Ethan Hawke: “Se vuoi proteggere la pecora, devi cacciare il lupo. E ci vuole un lupo per cacciare un lupo”. Il messaggio è chiaro.
Peggio ancora accade in The Shield (2002-2008), serie che ha al centro quattro poliziotti totalmente corrotti e tremendamente violenti. Nel primo episodio l’agente che è stato inserito nella squadra per smascherarne i crimini viene ucciso a sangue freddo dal protagonista dello show, il detective Vic Mackey. La mutuazione di condotta e finanche codici dei criminali che si combattono è veramente accettabile?
Fa un po’ caso a sé, infine, True Detective (in onda dal 2014), la serie che ha più di ogni altra contribuito a ridefinire in termini culturali e persino filosofici la figura dell’investigatore nel nostro tempo. Le sue stagioni antologiche (tre quelle fin qui trasmesse) mostrano detective che sono disposti a tutto pur di risolvere i casi su cui indagano. Un’ossessione li consuma; i loro metodi non sono poi molto diversi da quelli dei criminali cui danno la caccia. Nella prima memorabile stagione, i due violenti poliziotti interpretati da Matthew McConaughey e Woody Harrelson picchiano un sospettato, torturano un testimone, falsificano prove, fanno irruzioni non autorizzate, giustiziano un efferato criminale. Eppure, naturalmente, sono i buoni, gli eroi della storia.
Super poliziotti super violenti: Robocop
E poi? Poi ci sono le evoluzioni, o involuzioni, parossistiche. Ne cito due, enormi sia per il loro impatto socio-culturale che per ciò che rivelano: i franchise di RoboCop e The Punisher.
RoboCop è il celeberrimo film del 1987 diretto da Paul Verhoeven: un successo globale, che darà vita a una saga ipertrofica di pellicole, videogame, adattamenti tv, fumetti, remake. Qui il poliziotto non viene solo liberato dai vincoli delle regole e delle leggi, ma pure dai limiti fisiologici umani: un corpo cyborg corazzato, potenziato da innesti tecnologici, capace di svolgere da solo il lavoro di un’intera squadra d’assalto, animato da un’implacabile sete di giustizia – e di vendetta. Concetti che non saltuariamente coincidono nella costruzione della psiche degli eroi americani.
L’immagine del poliziotto-cyborg è una di quelle entrate prepotentemente a far parte dell’immaginario contemporaneo, contribuendo non poco al processo di spersonalizzazione degli uomini in divisa: qua addirittura super poliziotti, ovviamente super violenti! Nascosti e protetti da maschere, armature, elmi, corpetti gli agenti scivolano quasi naturalmente verso dinamiche più militari che civili.
The Punisher, cioè il Punitore, nasce invece come fumetto, negli anni ‘70, per poi farsi film, serie tv, videogame, con una produzione costante e anche recentissima. Frank Castle è un veterano di guerra ossessionato dall’uccisione della propria famiglia da parte della mafia; ora, la sua unica ragione di vita è punire tutti i criminali su cui riesce a mettere le mani. Ricorrendo a qualsiasi mezzo, compresi i più cruenti, illeciti e inumani. Un antieroe ante litteram, precursore di quella che diventerà un’ondata inarrestabile di protagonisti profondamente problematici.
The Punisher tra finzione e realtà
The Punisher è un caso straordinario di contaminazione tra finzione e realtà. Rivelatrice per il quadro che sto provando ad affrescare è infatti la formidabile controversia riguardante l’adozione dell’iconico simbolo del Punitore (un teschio bianco dai tratti crudeli, quasi alieni) da parte di poliziotti, militari, persino movimenti politici. Nei primi anni 2000, con la guerra in Iraq, il simbolo appare ripetutamente su mezzi e strumenti dei soldati USA. Dalle forze di occupazione americane il logo passa ai nuovi corpi militari e di polizia iracheni.
E, negli USA, viene adottato da un numero crescente di poliziotti. Nel 2004, a Milwaukee, alcuni agenti danno vita a un gruppo di giustizieri battezzato The Punishers, con richiami all’eroe Marvel nell’abbigliamento. Nel 2014 nasce, in risposta al Black Lives Matter, il movimento Blue Lives Matter (“Blue” in America identifica i poliziotti, come nelle vecchie serie Hill Street Blues o NYPD Blue): sovente il movimento utilizzerà nella propria comunicazione visiva il teschio del Punitore. E nel 2017, prima in Kentucky e poi nello stato di New York, il logo viene aggiunto alle auto ufficiali della polizia locale, suscitando enorme indignazione ma anche, nei mesi successivi, venendo ripetutamente adottato come segno di solidarietà di corpo dai poliziotti di varie parti degli USA.
Sean Hannity, popolare volto di una delle più seguite (e faziose) trasmissioni di Fox News, ha indossato in tv la spilla con l’inquietante teschio.
Ma una delle trasformazioni più mirabili del simbolo avviene con la sua politicizzazione. Nella variegata galassia web dei sostenitori dell’ex Presidente USA, spicca il filone degli oggetti di merchandising con il logo di “Punisher Trump” (cioè il teschio del Punitore con sopra la bionda e iconica zazzera presidenziale). Secondo la lettura per cui The Donald starebbe finalmente punendo per i loro crimini tutti i nemici “progressisti”.
E a poco sono valsi gli interventi dello stesso creatore del personaggio, Gerry Conway. Ormai, il suo anti-eroe è divenuto simbolo di qualcosa che non avrebbe mai voluto rappresentasse. Non la testimonianza agghiacciante del collasso di un sistema sociale e di giustizia, ma la rivendicazione orgogliosa della liceità dell’uso di ogni mezzo. Lecito o illecito. In nome di un’idea – largamente pervertita e autoritaria – di Ordine.
La morale della storia: poliziotti dark e “piaceri violenti”
Nella prima stagione di Westworld ricorre una citazione. Il fascinoso e complessissimo show creato da Jonathan Nolan e Lisa Joy racconta di un futuro in cui l’umanità ha usato le Intelligenze Artificiali per popolare un parco-divertimenti in cui i ricchi possono sfogare pulsioni e fantasie sadiche represse. “These violent delights have violent ends”: questi piaceri violenti hanno una fine violenta. La frase appare più volte, e saranno gli androidi a farla propria. Quasi come un grido di rivoluzione – o di giustizia.
È una citazione da Shakespeare, dal Romeo e Giulietta. Insomma: va bene amare i prodotti della pop culture. Va bene trarne piacere. Ma attenzione: il nostro piacere non è privo di conseguenze, e in specie i nostri piaceri violenti. La straordinaria popolarità della figura dei “buoni” che diventano violenti, dei poliziotti al di sopra della legge, dell’eroe che piega le regole per un supposto bene superiore, di una polizia intesa come scudo non solo sociale ma quasi morale nei confronti dei mali e delle minacce del mondo, questa popolarità ha plausibilmente contribuito alla passività con cui abbiamo accettato una progressiva militarizzazione delle forze dell’ordine. O persino all’entusiasmo con cui l’abbiamo richiesta. E alla tolleranza verso gli abusi di potere. Che sempre più ci sono apparsi normali, inevitabili, parte del gioco.
Curiosamente, è successo ciò che accade con i robot di Westworld. Creati per il nostro piacere e destinati a restare confinati in un violentissimo parco divertimenti, finiscono per uscirne e invadere il nostro mondo.
Venendo a cercarci, a perseguitarci, a punirci per il nostro strabordante e irredimibile sadismo.
Una riflessione sul detective postmoderno: leggi qui
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Una prima versione di questa riflessione è stata pubblicata da Doppiozero il 25 giugno 2020, qui.