Vikings: Valhalla (Netflix, 2022-24), giunto alla sua terza e ultima stagione, è il sequel / spin off di Vikings, la celeberrima serie in 6 stagioni di Michael Hirst. Sostituito qui – nella scrittura – da Jeb Stuart (sceneggiatore di classici del cinema come Trappola di cristallo e Il fuggitivo). Vikings: Valhalla mantiene il connubio, già caratteristico dell’originale (di cui abbiamo parlato ampiamente qui), tra realtà storica e invenzione drammaturgica. Narrando gli avvenimenti accaduti un secolo dopo le gesta di Ragnar, Bjorn, Rollo e Ivar Senzossa, ormai entrati a pieno titolo nel mito norreno.
I vichinghi si sono da tempo insediati sulle coste britanniche, dapprima con la forza, poi venendo a patti con nobili e corona. Ma nonostante un lungo periodo di convivenza relativamente pacifica, le tensioni e i contrasti tra i due popoli rimangono irrisolti. Fino al massacro a tradimento nel giorno di San Brizio (13 novembre 1002), incipit di questo nuova epopea.
Il re anglosassone Aethelred II (Bosco Hogan – The Tudors) – in seguito ribattezzato lo Sconsigliato (chissà perché) – ordina di annientare tutti gli insediamenti danesi allo stesso momento. Di conseguenza il re Canuto il Grande (Bradley Freegard – Da Vinci’s Demons) chiama a raccolta tutte le tribù in terra vichinga, riunendole in un’unica imponente armata per compiere l’inevitabile vendetta. Come i figli di Ragnar fecero gloriosamente un secolo prima, in risposta all’esecuzione del leggendario padre compiutasi in territorio inglese. Con una differenza sostanziale: il mondo nordico è ora diviso tra i molti cristianizzati e i pochi pagani rimasti, e versa costantemente sull’orlo di una guerra civile di religione. Ma vendicare il massacro del giorno di San Brizio si rivela l’insperata – forse l’ultima – occasione per riunire tutti i vichinghi sotto l’unico orgoglioso vessillo del sangue di appartenenza.
Vikings: Valhalla – un film già visto
Il grande raduno avviene naturalmente a Kattegat, ora retta dalla saggia e tollerante – dovendo far convivere la nuova cristianità e la fiera tradizione – Jarl Haakon (Caroline Henderson). Guerriera di origini addirittura africane, a significare (forse troppo) l’evoluzione in un certo senso ‘cosmopolita’ della città e più in generale della nuova cultura vichinga in divenire. Canuto il Grande è sostenuto in questa grande battaglia dal giovane e audace principe norvegese Harald Sigurdsson (Leo Suter – Sanditon) e dal suo fratellastro Olaf Haraldsson (Jóhannes Haukur Jóhannesson – Succession), cristiano fanatico e avido di potere e ricchezze.
A chiudere il quadro dei protagonisti nordici vi sono i groenlandesi – Leif (Sam Corlett) e sua sorella Freydís (Frida Gustavsson – The Witcher), figli del grande berserker Erik il Rosso (Goran Višnjić – The Boys) – giunti a Kattegat per trovare e uccidere il norreno cristiano che ha violentato lei, incidendole una croce sulla schiena. Come sempre nel mondo di Vikings la vendetta è, con il desiderio di gloria, uno dei più nobili moventi per qualsiasi impresa. Dico nobile, perché la sete di potere o la fame di ricchezze appartengono invece al novero delle ragioni squisitamente (e volgarmente) pragmatiche. E in generale in questa saga vichinga – come è giusto che sia – non è sempre semplice separare la nobiltà d’animo dal senso pratico.
Tra Kattegat e l’Inghilterra, senza dimenticare Uppsala, luogo sacro meta di pellegrinaggio per i (pochi) cultori rimasti di Odino e Thor, si compiono le avventurose vicende di Vikings: Valhalla. Vicende e avventure che richiamano fatalmente, nelle loro dinamiche, la serie originale. Che del resto aveva già esplorato tutte le possibilità narrative contenute nell’orizzonte vichingo. Valhalla, in questo senso, non ha molto di nuovo da raccontare. Battaglie spettacolari, tradimenti e intrighi politici, visioni mistiche, sanguinolenti sacrifici…
Tutto già visto, già sentito, già vissuto.
Sequel e spin off
Ma non è forse questo lo scopo principale di un sequel / spin off? Chiariamo: sequel in quanto il tutto avviene dopo, anche se è solo vagamente collegato alla narrazione precedente; spin off in quanto si usano la stessa ambientazione e le stesse caratteristiche per raccontare altre storie con diversi protagonisti. Vikings: Valhalla è formalmente un sequel; per i contenuti uno spin off.
L’idea principale è quella di riproporre le medesime atmosfere di Vikings, in virtù del suo straordinario successo. La scrittura di Jeb Stuart, rispetto a quella di Michael Hirst, lascia però un po’ a desiderare. O meglio ha caratteristiche diverse, più hollywoodiane. Ad esempio una sfacciata relativizzazione dello spaziotempo (lunghe distanze marittime o terrene percorse con assurda velocità), ingiustificati voltafaccia dei protagonisti (come se tradire appartenesse indiscutibilmente alla natura norrena). E svariati altri ellittici slittamenti che di sicuro sarebbero più appropriati in un film, per ovvie ragioni di compressione narrativa.
Se da una parte il mondo norreno era già stato inscenato in lungo e in largo con Vikings, vero è che la nota nuova che qui cerca di risuonare sta proprio in quel Valhalla del titolo – il luogo in cui dopo morti vanno i fieri guerrieri e le coraggiose shieldmaiden. Il mondo vichingo sta diventando cristiano, così come i vichinghi insediati in Inghilterra stanno diventando inglesi. Vikings Valhalla è il racconto del disfacimento di un mondo e del sorgere di uno nuovo.
Vikings: Valhalla – nuove trame in luoghi comuni
Nella serie originale non si erano ancora visti vichinghi cristiani, con tutto ciò che questo apparente ossimoro comporta. Tipo Jarl Kåre (Asbjorn Krogh Nissen – The Bridge), furioso sterminatore di vichinghi pagani. Il cieco fanatismo, la sanguinaria intolleranza, la conversione imposta attraverso lo sterminio nel nome del Signore… L’orizzonte è quello del declino e della fine della grande era vichinga, ormai fatalmente contaminata con religione e costumi europei (vedi l’emblematico incontro tra Canuto e il Papa) e destinata ad un metaforico Valhalla.
Per il resto, deformando cronache anglosassoni e saghe scandinave a piacimento, la trama indulge fin troppo in schemi cinematograficamente abusati e in luoghi divenuti ormai comuni, dopo Vikings. Sontuosi banchetti con decapitazione, dialoghi filosofici nel mentre si dà il colpo di grazia sul campo di battaglia, traversate con modeste imbarcazioni sul mare in tempesta, l’immancabile attacco a Kattegat, e dulcis in fundo l’immancabile Veggente…
Attraverso le sopracitate situazioni e nell’arco di tre stagioni, si sviluppa il destino dei protagonisti. Il principe Harald Sigurdsson, defraudato del trono di Norvegia, approderà a Novgorod, tra i Rus. Da lì, assieme al groenlandese Leif, raggiungerà Costantinopoli attraverso una spettacolare odissea. Presso la corte dell’Imperatore i due si fermeranno sette anni. Leif, scopertosi amante degli studi, sogna infine di raggiungere quella mitica terra verde vista da bambino (ancora una volta l’America). Harald, accumulata un’immensa ricchezza – che gli serve per riconquistare il trono di Norvegia – rischierà banalmente di perdere tutto per amore dell’imperatrice. Freyda si scopre invece ultimo baluardo delle divinità vichinghe, che difende a denti stretti in una nuova Uppsala. Che durerà solo sette anni. Giusto il tempo per far convergere tutti e tre un’ultima volta a Kattegat.
Da vedere perché già visto
L’altro corpus principale di vicende si svolge invece in Inghilterra. Conquistata eroicamente Londra – soprattutto grazie all’ingegno del groenlandese – Re Canuto si dimostra fin da subito un fine intrigante. Presa in seconde nozze la regina Emma (Laura Berlin), governa abilmente – grazie soprattutto all’aiuto del machiavellico Godwin del Wessex (David Oakes). E il suo regno durerà (guardacaso) 7 anni. Alla sua morte figli e figliastri sono pronti a sbranarsi per la successione. Ma il vero duello è tra Godwin e la regina… That’s the story. Tra le altre cose, chiusa in fretta e furia.
Nel bene e nel male, la saga è quindi una ripetizione ad nauseam dell’esaltante violenza norrena. Ne vediamo rituali e passioni in campo politico (Inghilterra), religioso (Freyda) e, naturalmente, nel campo per antonomasia – il campo di battaglia (Harald). Attraverso l’evoluzione di Leif assistiamo addirittura all’incontro vichingo con l’antico mondo del sapere.
Non manca niente ma non c’è niente da dire. Il piacere sta invece tutto nella rievocazione dello spirito vichingo, che in Vikings aveva già per l’appunto raggiunto la sua massima e inimitabile espressione. Insomma da vedere, paradossalmente, proprio perché già visto…
Non è forse questo il nostalgico obiettivo di ogni sequel / spin off? Uhm… forse no. Ma lo è sicuramente per Vikings: Valhalla.
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