Se cerchi verità profonde sul nostro tempo, oggi è più facile trovarle in quegli show che riescono a diventare giganteschi fenomeni di massa e di costume. Perché sanno incarnare speranze, paure, pulsioni, tensioni della società d’oggi. È il caso di The Office. Che ha saputo, pur con i toni di una sitcom leggera, piacevolissima, arguta, mostrarci una verità dolorosa: l’american dream, ahinoi, si è arenato. Anzi, vista l’ambientazione di questa serie: incartato.
Classico assoluto della comicità moderna in tv, The Office in America e nel resto del mondo è un cult. Che ciclicamente torna sugli allori, specie nell’era dei memi che hanno ripopolarizzato, a un decennio di distanza, questa brillante sitcom e i suoi improbabili eroi, protagonisti di infiniti sketch memorabili. A partire dal tormentone “That’s what she said“, sempre sessualmente allusivo.
Tanto che l’annuncio di un nuovo progetto “ambientato nello stesso universo narrativo” (a quanto pare, non esattamente uno spin-off e neppure un reboot, ma neanche un sequel), cioè il Midwest periferico di un’azienda un po’ in crisi, ha fatto subito il giro del mondo. Con le speculazioni fuori controllo (nonostante le smentite dello stesso Steve Carell) su un possibile ritorno del mitico Michael Scott…
E in Italia? Complice una distribuzione iniziale disastrosa, ancora oggi è meno conosciuta che altrove. Oggi però è facile rimediare, ed è lecito aspettarsi – anche grazie al citato nuovo progetto – una rinnovata attenzione verso questo classico moderno. Netflix e Amazon Prime Video hanno in catalogo tutte le sue 9 stagioni: 201 episodi da poco più di 20 minuti ciascuno, un formato agile e perfetto anche per brevi break.
The Office: dall’originale inglese al remake americano
Attenzione: parlo del remake americano andato in onda dal 2005 al 2013, non della versione inglese originale di pochi anni prima, ideata dal grande Ricky Gervais (After Life) e molto più breve (due stagioni), dark, aspra, brutale, e per me alla fine meno godibile. Ovviamente i gusti sono gusti, ma due cose sono innegabili. Da un lato l’eco molto più vasta, e l’impatto culturale ben maggiore, che la versione americana di The Office ha avuto rispetto a quella seminale inglese. Dall’altra, la concentrazione dell’originale in due stagioni e poche puntate non ha consentito quell’evoluzione dei caratteri e delle loro storie che il remake a stelle e strisce ha invece potuto sviluppare.
La serie parla della filiale di Scranton, nella profonda Pennsylvania dei suburbs americani, di una azienda, la Dunder Mifflin, che commercializza carta. In un mondo dominato dai grandi distributori, la nostra azienda è sempre sull’orlo del fallimento.
Cosa che non impedisce a Michael Scott, il capo ufficio interpretato da Steve Carell nel ruolo che ne farà una star, di trovare sempre nuovi modi per perdere e far perdere tempo. Non per pigrizia ma per una sua strutturale inadeguatezza sociale, personale, relazione, culturale. Che lo porta a commettere gaffe tremende o assumere decisioni disastrose che poi costringono lui e i suoi collaboratori a infiniti tentativi di rimettere a posto le cose.
Michael Scott e il naufragio dell’american dream
Nel costruire un personaggio che diventerà iconico, Carell è riuscito a costruire un equilibrio miracoloso: unendo tratti respingenti a una sofferta umanità verso la quale è impossibile non empatizzare. Michael Scott è meschino, vanesio, fatuo, presuntuoso, invadente, straordinariamente insensibile (non solo secondo gli standard del politicamente corretto). Ma è anche un uomo di buon cuore, persino sentimentale nel suo trattare i collaboratori come figli. Cosa meno scontata: è anche un buon capo, alla fine. E, inaspettatamente, certe sue intuizioni funzionano.
Non ce lo dimentichiamo: al centro di The Office c’è una compagnia, la Dunder Mifflin, che lotta per sopravvivere. Come riassume con drammatico umorismo lo slogan che chiude lo spot (scartato) autoprodotto dalla filiale di Scranton e diretto da Michel Scott: offriamo un sacco di carta a un mondo digitale (“Dunder Mifflin: limitless paper in a paperless world”).
Lo show parla di un ufficio, e quindi di quell’universo moderno di relazioni con persone con cui finiamo per passare la maggior parte del nostro tempo, pur non amandole. Ma parla anche, in senso più alto, feroce, graffiante, della nostra società.
“Questo è il sogno americano”, rivendica convinto Michael Scott riferendosi alle otto ore di lavoro, spesso surreali, accanto a persone che diventano una seconda – o persino una prima – famiglia.
E lo fa con la tecnica del mockumentary (il falso documentario, in cui c’è una troupe che finge di documentare una qualche vicenda), e un’efficacia formidabile. Divertendo, sempre. Stupendo. E costruendo anche apprezzabili archi evolutivi dei personaggi e dei loro rapporti.
Cosa c’entra Billie Eilish con The Office?
Nella canzone My Strange Addiction, la pop star Billie Eilish campiona e utilizza (proprio in apertura e poi durante il pezzo) una porzione di The Office. Precisamente, dall’episodio “Threat Level Midnight” (e17, s07), che è il titolo dell’incredibile film spionistico e d’azione che Michael Scott ha prima scritto e poi girato con i suoi colleghi d’ufficio. Il suo personaggio nel film-dentro-la-serie, Michael Scarn, pronuncia la battuta che si sente all’inizio del brano, e poi esegue la sua bizzarra danza.
La talentuosissima Billie Eilish, che nel gennaio 2020, a 18 anni, è diventata la più giovane artista di sempre a vincere tutti i Grammy maggiori nello stesso anno (Best New Artist, Record of the Year, Song of the Year, and Album of the Year), non ha citato la serie per caso. In varie interviste ha parlato con amore dello show, che sostiene di aver guardato almeno una dozzina di volte, e che l’accompagna da anni come una sorta di dieta quotidiana. Ma se guardate il video qui sotto capirete la portata della sua passione / ossessione: difficile immaginare qualcuno con una conoscenza più profonda dei personaggi e degli sketch della sitcom.
In questo video di Billboard, Rainn Wilson (cioè l’incredibile e divertentissimo Dwight Scrutt della serie) sottopone la giovane musicista a un fuoco di fila di domande su The Office da far tremare i polsi. Dopo un iniziale nervosismo, la popstar si scatena. Quando inizia a completare a memoria le citazioni della serie prima ancora che l’attore le abbia concluse fa quasi paura.
Breve guida alle nove stagioni
Occhio: la prima stagione, di soli 6 episodi, è ancora incerta, a tratti arranca. Probabilmente anche per un rapporto di filiazione molto stretto dalla più cupa versione inglese: lo si nota anche nelle scelte estetiche, le luci basse e fredde, la tremenda pettinatura di Steve Carell. Poi dalla seconda The Office spicca il volo, emancipandosi dall’originale.
E mantenendo un livello sostanzialmente omogeneo, e sempre spassoso, anche grazie a un uso particolarmente brillante dei cold open (la tecnica di portare subito lo spettatore nell’azione, prima dei titoli di testa). Qui sotto ne vediamo raccolti alcuni, sul prolifico canale YouTube ufficiale di The Office.
Alla fine della settima stagione, Steve Carell (che nel frattempo è diventato una star del cinema, e che poi in tv avremmo rivisto sempre come co-autore con Gregg Daniels di Space Force) lascia la serie. Senza il personaggio di Michael Scott, la serie scricchiola, avendo perso il proprio baricentro narrativo. Anzi, le cose migliori sono proprio i tentativi di individuare il rimpiazzo come direttore della filiale della Dunder Mifflin.
Anche nelle due stagioni finali, comunque, resta più di qualche motivo per continuare a guardare The Office. E le puntate conclusive, in cui anche la dinamica del mockumentary trova la sua giusta chiusura (con la pubblicazione del documentario girato negli anni da una tv locale sul nostro ufficio preferito), sono belle e appaganti.
The Office: lo show perfetto per brevi break
Insomma, The Office resta, a distanza di oltre un quindicennio dall’inizio della sua trionfale cavalcata, un prodotto che funziona. Da conoscere e, ogni tanto, da rivedere qui e là. Per la costruzione dei personaggi, delle dinamiche di ufficio, delle relazioni e sotto-trame.
Una parte importante del merito va, al solito, agli attori. Il cast è perfetto, dai protagonisti (Steve Carell, Rainn Wilson, il John Krasinski futuro Jack Ryan: la geopolitica come spettacolo) al cast principale nelle diverse stagioni (Jenna Fischer, B. J. Novak, Ed Helms, Amy Ryan, Mindy Kaling, Craig Robinson). Dai personaggi minori eppure sempre azzeccati dai loro interpreti (Leslie David Baker, Brian Baumgartner, Kate Flannery, Angela Kinsey, Oscar Nunez, Phyllis Smith, Paul Lieberstein, Creed Bratton), alle guest star. Con nomi di lusso che sono apparsi negli anni: James Spader, il creatore originale e produttore Ricky Gervais, Idris Elba, Will Ferrell, Kathy Bates, Amy Adams, Jim Carrey, Jack Black…
Da notare che uno dei co-autori di The Office, Michael Schur (che qui appare nei panni dell’eccentrico “cugino Mose”) firmerà anche, negli anni successivi, Parks and Recreation e The Good Place. Praticamente, le migliori serie comiche del nostro tempo. E in tempi più recenti la divertente Brooklyn Nine-Nine.
Curiosità: Scranton, Pennsylvania non è solo la città in cui è ambientata The Office: è anche la città natale di Joe Biden, 46° Presidente degli Stati Uniti.
Giudizio: irrinunciabile, spesso irresistibile, perfetta anche a piccole dosi per un rapido break.
Un altro successo firmato Michael Schur: Parks and Recreation
Parks and Recreation, satira irresistibile sull’America (e noi) | PODCAST
Leggi anche l’articolo su The Good Place e ascolta la puntata del podcast dedicata alla stessa serie: