Vale più di tanti libercoli di psicologia e parapsicologia, una commedia amara come After life di Ricky Gervais. Serie Netflix inaugurata nel 2019 la cui terza e ultima stagione è disponibile da inizio 2022. Di più: è come se il Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, di un’angoscia disumana, fosse stato rimaneggiato da un filosofo umorista, o da un umorista filosofo (fa lo stesso). Con lo scopo di dimostrare che al culmine della disperazione si attiva l’opposto, la scoperta della gioia. Carl Gustav Jung la chiamava enantiodromia.
“Credo che il lavoro di un comico non sia solo far ridere la gente. Credo che sia far pensare la gente”. Che ci fosse del genio, nell’inglese Gervais (autore dell’originale The Office), si sapeva. Da quando calca le scene come stand up comedian si è fatto una solida e meritata fama di artista del paradosso senza veli, nemico dell’ipocrisia di ogni genere e distruttore creativo di comuni certezze. Bisognerebbe mandarci lui, sul palco di Sanremo, anziché farci sorbire la satira facile di Zalone o i pistolotti di Drusilla Foer. Ma ci rendiamo conto che Gervais all’Ariston sarebbe come Mozart alla sagra del liscio.
Battutista non cerebrale ma fulminante, l’uomo senza patente perché “non si può bere e guidare allo stesso tempo” smercia quella cattiveria che al suo nucleo ha un occhio buono sul mondo. Ma buono perché disincantato, buono perché cerca l’innocenza. Buono perché divertito, profondamente e non superficialmente divertito. E di conseguenza spietato falcidiatore tanto di buonismi accattoni quanto di cattivismi piacioni. È lo zio che ti dice che i tuoi vecchi non te la raccontano giusta, ma lo fa per farteli amare di più. Per aprirti gli occhi sulle bugie consolatorie che aiutano a vivere, così da distinguerle dalle balle che invece ci rendono più stupidi – e meno vivi.
After Life: un cammino in tre parti
Le tre parti di cui si compone questo cammino iniziatico del protagonista Tony nell’abisso del dolore fanno scompisciare dal ridere all’inizio, per stabilizzarsi poi in mezzo e degradare verso il pianto verso il fondo. Devastato dalla perdita della moglie Lisa, donna di dolcissima normalità, passa le giornate lavorando svogliatamente per la gazzetta locale, diretta dal cognato Matt (un pandolone segaligno e ingenuo, a cui non si può non voler bene), attorniato via via da un ventaglio di personaggi stralunati e disturbati accomunati tutti da un difetto dell’anima che poi è il suo: la solitudine.
Tony è solo perché la morte del suo grande amore gli ha spalancato il vuoto dentro, avendo concentrato l’intera capacità di amare esclusivamente su di lei. Segno che la voragine era latente già prima, nei giorni felici che il vedovo inconsolabile riguarda ossessivamente nei video durante le tetre serate casalinghe in compagnia della bottiglia e della cagnolina Brandy. Come chi è rimasto orfano di una relazione di dipendenza, il nostro giornalista di mezza età rovescia sull’universo-mondo la colpa dell’Assenza. Tramortendo chiunque gli si pari innanzi con il sarcasmo cinico e velenoso dell’incattivito. Che è oro puro di comicità tragica, ma testimonianza di un loop da cui fatica tremendamente a uscire.
Tre presenze femminili per lenire la morte della donna amata
Sprofondata la sua parte femminile nell’oblio, il nostro anti-eroe ce la farà a risalire, con molta gradualità e non senza parecchie resistenze, grazie a benefiche presenze femminili. Anzitutto a una signora non più giovane che condivide la medesima condizione. Anne è l’incontro fisso sulla panchina al cimitero, dove la gentil donna – è proprio il caso di chiamarla così – più ferrata di lui nell’elaborazione del lutto per il marito spentosi molto tempo prima, getterà in quel suo cervello intrappolato dall’odio di sé i primi semi di un risveglio.
Un posto privilegiato occuperà anche Emma. L’infermiera della casa di riposo che accudisce il padre malato di Alzheimer, una single che non vedrebbe l’ora di avvolgerlo d’affetto ma con la quale, bisogna dire saggiamente, un Tony non ancora pronto intreccerà non più che un’amicizia.
Ma sarà una bambina non casualmente di nome Lisa l’apparizione che nell’ultima stagione di After life piegherà definitivamente l’arrocco autopersecutorio in cui vive la sua non-vita. Una bimba la cui purezza accenderà in lui la luce definitiva, catartica.
Un’umanità fragile e ferita, che non sa amarsi
La sapienza tecnica di Gervais sta nel popolare After life di un’umanità spoglia delle maschere di sicurezza ed efficienza che ci appiccichiamo fino a confonderci con esse. Il florilegio di “mostri” che estremizzano mancanze sparse un po’ in ciascuno di noi – il fotografo-spalla apparentemente tonto che si ingozza di junk food, il disadattamento emotivo del postino che si innamora di una prostituta, la collega al giornale che si sente inadeguata a trovare un compagno, l’abbruttimento del barbone laido che infine riesce a ispirare empatia a una ragazza pessimista cosmica quanto lui, il disagio del bamboccio grasso che trova nel teatro una forma d’accettazione – è tutto un variare sul leit motiv che fa ridere perché fa piangere. Il senso di sconfitta per non saper scovare nelle pieghe interiori la forza di amarsi.
Gervais, già segnalatosi per sensibilità agli handicap in un’altra, più dura ma egualmente commovente serie intitolata Derek (2012-2014), in After life ha voluto offrirci un piccolo trattato di educazione (e-ducere: tirar fuori) sul segreto della vita. Che non è, e non è mai stato, un segreto. “Non siamo qui per noi. Siamo qui per gli altri”. Solo esercitandosi a donarsi a chi manca di quel che noi possiamo dargli, solo estraendo dalla piatta routine dei momenti gioiosi è possibile capire che siamo importanti, che valiamo, che abbiamo anche noi, per quanto manchevoli e perdenti, un viaggio degno di essere percorso.
Non è l’altruismo da beneficenza che Gervais ha in mente, quello che fa genericamente del “bene” a categorie in blocco, senza nemmeno sapere a chi lo fa. È semmai la virtù del con-gioire. Stadio superiore allo scivoloso com-patire di cui parlava un solitario che nella sua esistenza non riuscì a mettere in pratica ciò che aveva compreso soltanto razionalmente: Friedrich Nietzsche, finito nel gorgo della demenza dopo aver compresso per quarant’anni gli istinti, il corpo e la vitalità che tanto osannava nelle sue opere.
After Life e la splendida lezione di Ricky Gervais
E nemmeno in After life c’è l’happy end. O meglio il finale, straziante, è incerto. Come incerto è l’esito di ogni vita. Ma colmo di soddisfazione per aver finalmente provato l’ebbrezza di una felicità semplice e sempre possibile. Come sempre possibile è dare felicità tramite un pensiero gentile. Tony-Gervais mostra come solo il faticoso aprirsi alle esperienze limitate e fallibili dischiuda all’illuminazione. Esser contenti di vivere non nonostante, ma grazie all’insegnamento della sofferenza. Ecco perché l’humour nero va mano a mano a diradarsi. Perché più la malinconia si rende consapevole che là fuori c’è anche la malinconia altrui, meno lo sguardo si accanisce a individuare il lato penoso e grottesco che inevitabilmente ogni persona e ogni situazione si porta addosso.
Il “superpotere” che Tony credeva di ravvedere nella sua indubbia bravura di ferire gli altri non era che il potere malefico di mantenere squarciata e sanguinante la ferita interna, crogiolandosi nel pantano dell’autocommiserazione. Ma non è da solo, nel loculo della sua mente, che arriva a comprenderlo. Serve l’attenzione proprio di quegli altri che sono sulla sua stessa barca, chi più chi meno (e chi lo è meno, i forti d’animo con la soglia di frustrazione più bassa, sono o felici casi di superamento del mal di vivere, come Anne che si ridà una chance seppur anziana, o sono finti, come l’inutile psicologo-macchietta).
Non “sono tutti stronzi”, gli umani. Ma per trovare qualcuno di buono, occorre passare al setaccio il buono che c’è nel nostro animo. Altrimenti il buono negli altri non si fa visibile alla corta vista di noi egoisti con il sorriso stampato, cattivi discepoli dell’immenso Ricky Gervais.
Un’altra commedia amara, che riflette su vita e morte: Il metodo Kominski