Forse il modo migliore per introdurre Landscapers è una citazione. Di Luis Buñuel. “La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Senza di essa non siamo nulla.”
La miniserie in 4 episodi (usciti su HBO a fine 2021 e in Italia su Sky e NOW a inizio 2022) è molto, molto bella, e qua vi racconterò perché. Ma vi metto in guardia fin da subito: non piacerà a tutti – forse non piacerà a molti. E di sicuro non è a tutti consigliabile.
Minimo minimo, ci vuole la disponibilità a immergersi in una narrazione davvero anomala. A tratti difficile. Non solo perché profondamente visionaria, ma anche perché radicalmente soggettiva. Nel senso più ampio possibile: dallo sguardo dei suoi creatori al racconto dei personaggi fino alla percezione che ne potrà avere lo spettatore.
Landscapers costruisce un’operazione straordinariamente originale e profonda. Che ha l’ambizione di indagare temi complessi come la memoria, l’identità, l’autorappresentazione di sé. Diventando quasi un manifesto di quello che in termini filosofici si chiama soggettivismo: la verità di un fenomeno, un oggetto, una teoria dipendono in toto dal soggetto che li pensa o giudica.
E il paradosso è che lo fa raccontando un vero caso di cronaca nera, che sconcertò l’opinione pubblica di una decina di anni fa.
La vera storia dietro a Landscapers
Co-prodotta da HBO con Sky Atlantic, Landscapers è un po’ drama e un po’ black comedy. Ma è anche, il che non è banale, uno show true crime, scritto da Ed Sinclair e diretto da Will Sharpe a partire da fatti di cronaca nera. Che ricordiamo nelle prossime righe, da evitare per chi non voglia spoiler o non rammenti il caso.
La miniserie racconta infatti la vera storia dell’omicidio di William e Patricia Wycherley, avvenuto nel 1998. La loro storia sconvolse il Nottinghamshire, contea inglese delle Midlands orientali, ma solo nello scorso decennio. 15 anni dopo. I loro corpi, infatti, vennero ritrovati solo nel 2013, nel giardino sul retro della loro casa di Mansfield.
Le indagini della polizia si concentrarono subito su Susan e Christopher Edwards: la figlia dei due, e suo marito. Susan e Christopher avevano sepolto i corpi nottetempo, svuotato i conti correnti degli anziani genitori di lei, raccontato ai vicini che i due si erano trasferiti. E continuato per 15 anni a far finta che la coppia fosse ancora viva. Con tanto di biglietti d’auguri mandati a loro nome ad amici e parenti per le festività.
Erano stati loro a uccidere i due anziani? Perché? Cos’era successo? Cosa li ha spinti, nel 2013, ad indagini avviate, a tornare dalla Francia in cui si erano nascosti per consegnarsi alla polizia inglese? E davvero era possibile credere al racconto della mite e fragile Susan, secondo cui sarebbe stata la madre a uccidere il padre? E la stessa Susan a far fuori la donna, dopo che le aveva brutalmente ricordato gli infiniti abusi subiti da bambina ad opera di un padre-orco?
Né la polizia né la giustizia inglese, in effetti, ci hanno mai creduto. E i due sono tuttora in galera.
Due protagonisti eccezionali, un regista da tenere d’occhio
Ma il racconto di Landscapers, come dicevo, non è quello di un giallo o di un crime. Fin da subito veniamo portati in un mondo allucinatorio, quello della “fragile” Susan. Un mondo in cui la memoria è costantemente riscritta e rivissuta in termini fiabeschi e romanzeschi. E ancora di più: cinematografici.
La passione per i memorabilia delle star è solo la manifestazione più banale di un’ossessione profonda. I ricordi assumono la forma di pellicole d’altri tempi, in particolare western. E tale è la forza di questa propensione allucinatoria da finire per “contagiare”, non troppo metaforicamente, il mondo attorno. La vita della coppia. Il ricordo dell’omicidio. Le stesse indagini. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo.
Quello di Landscapers diventa così il racconto non di un’indagine giudiziaria ma di un amore, di una follia, di una costante riscrittura della propria memoria e identità. Della reinvenzione attiva della propria vita.
Che poteva funzionare solo con autori e attori adeguati alle ambizioni del progetto. Il giovane Will Sharp, trentacinquenne regista della miniserie, non ha paura di affrontare una materia difficilissima. E insegue una sua visione radicalmente personale: forse anche spinto dal disturbo bipolare da cui lui stesso è affetto. E come aveva fatto nel 2016 con l’opera che lo rivelò: Flowers. Un’altra black comedy che affronta i temi della salute mentale e della famiglia.
Ne era protagonista la straordinaria Olivia Colman, che qui dà vita al memorabile ritratto di Susan. L’attrice di La Favorita, Broadchurch, The Crown vanta ormai un palmarès pazzesco: 1 Oscar, 3 Golden Globes, 1 Emmy, 4 BAFTA, per citare i maggiori.
Al suo fianco, nei panni del marito Christopher, un altro attore perfetto: David Thewlis. Popolarizzato dal franchise di Harry Potter ma che preferiamo ricordare per il suo primo grande successo, il Naked di Mike Leigh con cui vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1993, per il Varga della terza stagione di Fargo e poi per film di nicchia come il pazzesco e terrificante I’m Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman.
Landscapers e il tema della memoria
Fin dall’inizio Landscapers mostra di funzionare in modo diverso dal solito. Letteralmente la prima sequenza ci mostra una piazza inglese, tutti sono immobili. Parte la pioggia, il regista ordina alle comparse di mettersi in moto, poi è “azione”. Iniziamo. Un espediente che potrebbe far pensare a quanto fatto, pochi mesi fa, da Scene da un matrimonio, con l’inizio di ogni puntata in cui gli attori entrano nel personaggio. O ne escono, nel finale di serie. Ma ciò che nel remake del grande classico di Bergman era una piuttosto inutile pretenziosità, qui rimanda a una assai più intensa e radicale riflessione sul vero e sul falso.
Ma attenzione: non è la solita storia. E il vero e il falso di cui si parla non sono quelli magari confusi nel mondo post-moderno ma in qualche modo ancora decidibili. Sono il vero e il falso di ciascuno di noi, di ogni sguardo, di ogni memoria. Così è lo sguardo di Cristopher, che cerca di proteggere la moglie dalle insidie del mondo: amorevole, complice, disposto alla contraffazione. Così sono le stesse indagini della polizia. Il lavoro degli investigatori – il loro cercare di indagare memorie e ricostruire fatti – li porta letteralmente a entrare dentro il ricordo raccontato dai due imputati. Marito e moglie raccontano, e vediamo il loro ricordo: e dentro il ricordo, dialogano con gli agenti esterni che mettono in discussione quanto viene ricordato e raccontato.
Con una messa in scena fortemente teatrale, persino nel suo uso di una romanticizzazione da cinema d’epoca. Ma ancora di più nei passaggi tra un ricordo e l’altro, isole di luce dentro l’oscurità dell’oblio che vengono mostrati come piccoli set. Isolati, astratti. Quasi come nel Wittgenstein di Derek Jarman (1993).
Tale, ci dice coraggiosamente Landscapers, è la natura della memoria.
Memoria, identità e l’opera di Oliver Sacks
Ed è un’affermazione coraggiosa in termini televisivi, più che dal punto di vista filosofico e scientifico. Campi in cui si è compreso che l’idea comune della memoria come una sorta di archivio (più o meno accessibile) di ricordi oggettivi non esiste. E che i ricordi assomigliano molto più a ricostruzioni, reinvenzioni, nuove narrazioni che costantemente ci facciamo. E che sono inscindibili da quanto di più soggettivo sperimentiamo: i sentimenti.
Un punto di vista che avvicina Landscapers più a Mr. Robot (di cui abbiamo parlato qui), per dire, che al Rashomon di Kurosawa.
Pensiamo a tante parti dell’opera di divulgazione di un autore molto amato come Oliver Sacks. Per esempio, il caso de “Il marinaio perduto” nella fantastica antologia L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985).
La fallibilità della memoria è al centro di tante sue riflessioni. In Il fiume della coscienza, opera pubblicata postuma nel 2017, Sacks scrive:
Come esseri umani, ci tocca una memoria fallibile, fragile e imperfetta – ma dotata anche di grandissima flessibilità e creatività. La confusione a proposito delle fonti, o l’indifferenza verso di esse, può essere un paradossale punto di forza: se potessimo identificare l’origine di tutta la nostra conoscenza, saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti. Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di vedere e sentire con altri occhi e altre orecchie, di entrare in menti altrui, di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva, al commonwealth della conoscenza. La memoria non emerge soltanto dall’esperienza, ma anche dal rapporto tra molte menti.
Landscapers: una miniserie difficile, una miniserie da vedere
La nostra miniserie costruisce un discorso che ha molto a che fare con tutto questo. Sia quando indaga ricordi, memorie, menzogne, invenzioni dei suoi personaggi. Sia quando presenta un piano di realtà che dovrebbe essere quello oggettivo, quello dello sguardo dello spettatore. E che si fa viceversa sempre più confuso, perché sempre più vede mescolati vero e falso.
Pensiamo all’immaginario western, o eroico cinematografico, o divistico. Che cresce nelle varie puntate fino a diventare dominante nell’ultimo episodio di Landscapers, il quarto. Con la ricostruzione dei “fatti” operata dall’accusa in tribunale, e che è tutta rappresentata come una caccia all’uomo in stile western.
Pensiamo alla storia di Depardieu, il cui misterioso legame con i due protagonisti dell’allucinante vicenda ne rappresenta uno degli elementi più bizzarri (fino alla spiegazione in epilogo).
Pensiamo alle puntate 3 e 4, in cui sempre più entriamo e usciamo dai set, seguendo attori, tecnici, telecamere. Radicale rappresentazione della labilità dei confini tra finzione e realtà. Della confusione indotta dalla mediatizzazione, o dalla drammatizzazione a tutti i costi.
È anche, questo, l’unico modo che gli autori hanno per non prendere posizione. Per non dover decidere il vero e il falso nella storia, cioè nel racconto dei due, lasciandola indefinita. Come in fondo è giusto, per una vicenda per tanti aspetti ancora opaca.
Perché alla fine l’unica cosa forse conoscibile, ci dice Landscapers, è il racconto che si fa a se stessi. Fatto e rifatto nel tempo, sedimentato e rivissuto. Il racconto della propria storia. Della propria memoria. E, quindi, il racconto di chi siamo.
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