Quando, il 27 dicembre 2020, Netflix distribuì Death to 2020, primo capitolo di quella che potrebbe diventare una serie, l’eccitazione fu palpabile. Sembra ridicolo dirlo adesso, ma il 2020 era stato un anno orrendo. Se ve lo siete già scordato: è quando si è materializzata la pandemia. Tra le altre cose.
Insomma: “Morte al 2020” celebrava la fine di un annus horribilis, assieme a un sacco di altre manifestazioni di giubilo che dicevano tutte la stessa cosa. E cioè: finalmente è finita, e non un giorno troppo presto.
I motivi di curiosità verso il britannico Death to 2020 erano poi molti e robusti. Chiaramente il tema, una sorta di apotropaico commiato. La forma: quella di un mockumentary, cioè un finto documentario, modalità che conosce una crescente popolarità negli ultimi anni (esempio classico: The Office; esempio più recente: What We Do In The Shadows). E soprattutto la firma: quella di Charlie Brooker, il padre dell’acclamata Black Mirror. La celebre serie antologica in cui ogni episodio indaga in chiave drammatica e distopica aspetti del nostro possibile futuro.
Esattamente un anno dopo, il 27 dicembre 2021, Netflix ha pubblicato il secondo capitolo: Death to 2021. Eppure, l’accoglienza è stata molto diversa. Perché?
Death to 2020: quando pensavamo non potesse andare peggio
Intanto va detto che anche Death to 2020 aveva funzionato solo in parte. Molto in parte. Anzi: nonostante i suoi quarti di nobiltà (la firma di Brooker, il cast eccezionale), si può dire avesse alla fine deluso. Mescolando materiali giornalistici e scene nuove, realtà e finzione, lo show in poco più di un’ora si incaricava di mettere alla berlina l’anno tremendo che avevamo appena vissuto.
Come? Death to 2020 presenta una serie di personaggi di fantasia che discutono degli eventi statunitensi e britannici dei precedenti 12 mesi. Tra cui, ovviamente, la pandemia di COVID-19 e le elezioni presidenziali statunitensi.
Lo ricordate? Il 2020 si era aperto con i catastrofici roghi australiani, le battaglie per il clima di Greta Thunberg, il “divorzio” della famiglia reale inglese di Harry e Meghan. L’apparizione del Covid fa piazza pulita di tutto, intrecciandosi con le elezioni presidenziali americane. Irrompono poi l’assassinio di George Floyd e le conseguenti forti tensioni razziali. I tentativi di contenimento della pandemia si risolvono perlopiù in fallimenti. E sul finire dell’anno registriamo tre eventi di non poco conto: la vittoria elettorale di Biden alle presidenziali di novembre; il rifiuto di Trump di riconoscere la sconfitta; l’apparizione del vaccino.
Scritto da Charlie Brooker e diretto da Al Campbell e Alice Mathias, Death to 2020 è narrato da Laurence Fishburne. E il falso documentario vede la partecipazione, nei panni di finti esperti chiamati a commentare i fatti salienti, di altri ottimi nomi quali Samuel L. Jackson, Hugh Grant, Lisa Kudrow, Tracey Ullman, Cristin Milioti.
Un esperimento curioso, insomma, e tutto sommato spassoso. Eppure… eppure già il primo capitolo aveva alla fine deluso, per le ragioni che vedremo meglio in conclusione. Ma non come il secondo.
Death to 2021: la scoperta che al peggio non c’è fine
Chi pensava, a fine 2020, che la nottata fosse passata e l’alba di un nuovo luminoso giorno si stesse materializzando ha avuto un amaro risveglio. L’anno si apre nel peggiore dei modi. Il 6 gennaio 2021 una folla violenta di supporter trumpiani, aizzati dallo stesso ex presidente, assalta il Congresso. Rifiutando di riconoscere la sconfitta elettorale e nel tentativo, presto fallito, di impedire la proclamazione del nuovo Presidente.
È solo il primo, eclatante esempio di una frattura socio-culturale che si sta facendo drammatica. E che contiene anche elementi psicologici, o per meglio dire psichiatrici. Diventa evidente che ciò che è la realtà per metà degli Stati Uniti (e del resto del mondo) non lo è per l’altra. E non è un rigurgito passeggero. Ancora oggi, nonostante le infinite dimostrazioni fattuali, la frattura permane.
Idem con la pandemia. Ferocemente in America, ma anche in Europa e in Italia, emerge il fenomeno no-vax. Con la negazione, a vari stadi, di una serie di elementi fattuali: l’affidabilità dei vaccini; la pericolosità della malattia; la stessa esistenza del Covid.
Death to 2021 giunge agli ultimi giorni dell’anno. E le cose che racconta dipingono un quadro ancora più cupo del primo capitolo. Diretto da Jack Clough e Josh Ruben, è scritto da Ben Caudell. Hugh Grant riprende i panni di uno storico inglese assai destrorso, Cristin Milioti quelli della supporter trumpiana. Torna Tracey Ullman ma come giornalista (in Death to 2020 era la regina). Diversi bei nomi del primo capitolo si perdono, ma entra prepotente il tema dei social media e delle Big Tech.
Brooker ha avuto un ruolo ridotto, impegnato in altri progetti. Non si è occupato della scrittura, e si sente.
L’impietoso confronto con Don’t Look Up
Beninteso: sia Death to 2020 che Death to 2021 sono certamente guardabili. 70 minuti il primo, 60 il secondo scorrono via abbastanza bene. Lo abbiamo già fatto intendere: il primo sicuramente più del secondo. E ci sono cose che funzionano in entrambi i capitoli: su tutte, Cristin Milioti. La sua Kathy Flowers, mamma americana sorridentemente razzista che sostiene Donald Trump e crede a tutte le teorie del complotto, ha qualcosa di insieme esilarante e toccante.
Ma se lo si confronta con un’altra produzione Netflix di fine 2021, l’ottimo Don’t Look Up, i limiti di questo show emergono con ancora maggior forza. Pur partendo da premesse, e intenzioni, non dissimili. Ad esempio, nei due Death to appare il personaggio di Pyrex Flask (Samson Kayo), uno scienziato che sta studiando il SARS-CoV-2. E che continua a litigare con la troupe che lo intervista e che cerca di aggiungere costantemente musica alle sue parole. Per la troupe è un modo per drammatizzarle e spettacolarizzarle, per il ricercatore una buffonata che ne mina la credibilità.
Idea carina, ma lo stesso tema Don’t Look Up lo ha affrontato con ben altra radicalità e profondità. Costruendo non una gag ripetuta troppe volte ma una brillante e sofisticata demistificazione dell’apparato giornalistico e mediatico. Come scoprono gli scienziati che hanno scoperto la catastrofica cometa, nessuno vuole sentire davvero la notizia della prossima fine del mondo. Né la politica né i media, che cercano in tutti i modi di indorare la pillola.
Stesso discorso per il tema del vero e del falso, della tribalizzazione socio-culturale, delle bolle informative, del rifiuto di riconoscere la realtà. Roba tosta, che Don’t Look Up satireggia molto bene, come abbiamo raccontato qui. E che sia Death to 2020 che Death to 2021 si limitano quasi sempre a motteggiare, con qualche eccezione. Come le fantastiche scene di Lisa Kudrow nel primo capitolo, parodia delle vestali del trumpismo in costante lotta con la realtà fattuale.
E se non ci fosse più niente da ridere?
Viene da chiederselo: e se non ci fosse più niente da ridere? Una prospettiva terrificante, perché non saper più ridere delle nostre miserie – e persino tragedie – sarebbe un segno eloquente dell’apocalisse. E per fortuna il già citato successo di Don’t Look Up ci è venuto in soccorso. Sublimata dalla finzione dell’arte, la nostra realtà resta ancora esorcizzabile dal potere della risata.
Alla fine, il problema del doppio mockumentary è non riuscire a soddisfare mai realmente le aspettative che genera. Non basta la sua potenza di fuoco attoriale. Non basta la ricchezza di materia narrativa e comica a disposizione. E non basta neppure il nome di Charlie Brooker, sempre tirato in ballo per Black Mirror ma in realtà qui più implicato per la sua vecchia serie inglese di show satirici “Weekly Wipe”. Capaci di fustigare con straordinaria efficacia gli accadimenti della politica e del costume.
Death to 2020, e ancora di più il successivo Death to 2021, si fermano un passo indietro. Quasi schiacciati dalla fatica della materia che hanno scelto di raccontare. Certo, a tratti divertono. E sono persino utili nel ricordarci cose che rischiamo di vedere sbiadite, nel costante e rapidissimo oblio delle notizie per auto-combustione. Ma non riescono a esorcizzare davvero, né l’uno né l’altro, l’anno che raccontano.
Il periodo che abbiamo vissuto è un peso che grava sulle nostre teste individuali e sull’immaginario collettivo. E alla fine questo mockumentary è un po’ come il biennio che dovrebbe satireggiare: sfuggente, amorfo, triste, piuttosto estenuante.
Un esempio di satira socio-politica riuscita? Leggi il nostro articolo su Don’t Look Up