Narcos è una serie televisiva statunitense-colombiana targata Netflix e creata da Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro per la durata di tre stagioni (2015 – 2017), ciascuna composta da 10 episodi.
Lo show racconta la vera e incredibile storia dei due principali cartelli colombiani della droga, quello di Medellin e quello di Cali, tra gli anni ottanta e i primi anni novanta.
Le prime due stagioni seguono l’ascesa e la caduta dell’impero di Pablo Escobar, sovrano incontrastato di Medellin. La terza invece la parabola dei gentiluomini (come amavano definirsi) a capo del cartello di Cali.
Tra il 2018 e il 2021 è invece andato in onda Narcos: Mexico. Doveva essere una quarta stagione dello show “madre”, ne è diventato uno spinoff / sequel. In tre stagioni piene, di cui abbiamo parlato qui.
Narcos e il suo primo “eroe”: Pablo Escobar
Proprio perché è forse stato il più grande narcotrafficante del mondo, romanzare e raccontare la vita di Escobar è un’operazione delicata e insidiosa. L’intepretazione di Wagner Moura, la scrittura (ad opera di Brancato, showrunner di S1, seguito da Adam Fierro in S2 e Eric Newman per S3), e la regia di Padilha, in collaborazione con una troupe i cui elementi avevano già lavorato con Michael Mann, Quentin Tarantino e Guillermo Del Toro, sono gli elementi che fanno di Narcos una serie grandiosa – e di grande successo. Successo che ha reso possibile la creazione del successivo spin-off: Narcos Messico, incentrata sull’origine del cartello di Guadalajara, in tre stagioni (2018 – 2021).
Pablo Escobar è magistralmente interpretato da Wagner Moura, uno dei più grandi attori brasiliani. Che per entrare nel personaggio ha dovuto cimentarsi con una lingua che non conosceva, lo spagnolo (buona parte della serie è recitata in spagnolo per questioni di veridicità) e ingrassare di 20 chili. La sua prova d’attore è semplicemente straordinaria. Brasiliano è anche il regista, Josè Padilha (Tropa de Elite – Gli squadroni della morte), che a questa serie riesce a dare un taglio estremamente realista, tanto da potervi inserire di tanto in tanto immagini di repertorio, senza che queste stonino minimamente con la finzione.
Ne risulta il ritratto passato di un narcostato (definizione yankee) assolutamente credibile e coinvolgente, che alterna atmosfere crime – la caccia senza quartiere ad opera della DEA e delle autorità colombiane – a situazioni di intimità personale dei protagonisti, tolti così dalla superficialità delle semplicistiche etichette di eroi o antieroi. Il tutto in un fiume di dollari, corruzione, carneficine e, ovviamente, cocaina.
Come dare la caccia al padrone di un Paese?
Gli altri protagonisti delle prime due stagioni sono gli agenti della DEA Peña (Pedro Pascal, che vedremo anche in S3) e Murphy (Boyd Holbrook); di quest’ultimo è anche la voice-over cui è affidata la narrazione e il commento degli avvenimenti principali. La loro lotta contro Pablo ‘El Diablo‘ avviene in un paese in cui tutti – politica, polizia, giornali, funzionari d’ogni genere – sono a libro paga dei cartelli della droga, e in particolare del cartello di Medellin.
Del resto l’alternativa è molto chiara: plata o plomo? – soldi o piombo? Trovare quindi alleati che non siano corrotti, per gli americani, è impresa disperata; d’altra parte, Murphy e Peña devono anche fare i conti con la politica estera della loro nazione: una politica, nella migliore delle ipotesi, quantomeno contraddittoria. E Pablo è un uomo ricchissimo (secondo la rivista Forbes uno degli uomini più ricchi al mondo), imprevedibile e spietato.
Partito come piccolo contrabbandiere, El Diablo si ritrova ben presto al vertice di un’organizzazione che gestisce una montagna di soldi pari al PIL di una nazione di media grandezza. Per la sua città – assai povera – costruisce scuole, chiese e ospedali, regalando banconote ad ogni suo passaggio: si capisce dunque come i poveri lo venerino e come tutta Medellin sia per lui un rifugio più che sicuro.
Arriverà letteralmente a seppellire milioni e milioni di dollari nei terreni della città e ad aspirare al ruolo di presidente della sua nazione. Prima di finire solo e braccato come una bestia, scenderà a patti con il governo costruendosi una fortezza prigione – la Catedral – dentro la quale ‘arrendersi’ con i suoi uomini più fidati, continuando comunque a vivere in un lusso sfrenato.
La fine cruenta del sanguinario Pablo Escobar
La Colombia gli volterà lentamente ed inesorabilmente le spalle a suon di bombe e stragi, lui non conoscendo limiti alla sua furia e sete di sangue: l’episodio forse più emblematico in tal senso è l’aereo di linea fatto esplodere in volo, con decine e decine di morti, una strage per colpire un solo uomo (che non era nemmeno sull’aereo, poiché avvisato in tempo dagli americani).
Comunque sia, la fine di Pablo Escobar è nota a tutti: alla fine muore in una sparatoria contro DEA e forze dell’ordine, molto probabilmente giustiziato in modo del tutto sommario. I colombiani vendicano così le centinaia di vittime civili della follia di El Diablo, follia che culmina nei 18 mesi che trascorrono dalla fuga dalla sua stessa Catedral alla sua morte. In quel periodo ‘Padron Pablo‘ vive da fuggiasco, braccato non solo da polizia, militari colombiani e DEA, ma anche dai suoi rivali in affari e nemici giurati di Cali. E gli americani vincono finalmente una guerra che era diventata, al tempo del reaganismo, soprattutto una guerra di propaganda e immagine.
Ma i dubbi etici e morali aleggiano su tutta la narrazione: può essere considerata lecita una tale ingerenza da parte degli Stati Uniti in un altro stato sovrano? Possono CIA & company – in un paese straniero – stringere alleanze occulte, compiere torture e omicidi, estradare segretamente o meno criminali?
La terza stagione di Narcos: il cartello di Cali
Morto un papa, se ne fa un altro – o altri quattro, nel caso dei gentiluomini di Cali, il cartello che prende le redini del narcotraffico dopo Medellin. Fino a che Escobar era l’obiettivo primario, erano diavoli con cui si era arrivati a stringere un’alleanza; nella terza stagione, diventano loro l’obiettivo primario. Ma quella di Cali è una realtà molto diversa da quella precedente: organizzata come fosse una multinazionale – e lo è, anzi è molto di più, dato che arriva a controllare l’80% del traffico mondiale di cocaina, dando lavoro, si stima, a più di 700.000 colombiani! – senza le manie narcisiste di Pablo, questi gentiluomini preferiscono di gran lunga usare la plata piuttosto che il plomo.
I membri del consiglio, per così dire, d’amministrazione alla guida del cartello di Cali sono Gilberto Rodriguez Orejula (Damián Alcázar), soprannominato lo scacchista, il fratello Miguel (Francisco Denis), Pacho Errera (Alberto Ammann), che cura i rapporti con i messicani, e Chepe Santacruz (Pêpê Rapazote), che gestisce il mercato americano da New York. La brillante visione aziendale dello scacchista (perché sempre avanti di qualche mossa rispetto agli avversari) è tale da aver ideato e realizzato una sorta di geniale resa al governo colombiano che è in realtà un piano di ritiro e pensionamento, per cui non è previsto carcere né confisca del patrimonio, loro limitandosi ad abbandonare le attività criminali.
Si vince tutti: le autorità possono capitalizzare la propaganda dello smantellamento della più grande rete di narcotraffico mondiale, e i trafficanti godersi tranquillamente i miliardi di dollari accumulati negli anni con la droga.
Non una fiaba alla Gomorra – né una docufiction
Ma i gentiluomini sudamericani non hanno tenuto conto dell’indomabile agente Javier Peña della DEA (sua ora la voce fuori campo che ci guida nella storia) che, romanzescamente contro tutto e tutti (la sua presenza in Colombia dopo la morte di Escobar è invenzione degli autori), è deciso a far saltare questo buon ritiro. Da qui il paradosso: mentre l’impulsivo Escobar aveva dichiarato una guerra totale allo stato, i boss di Cali cercano di evitare in tutti i modi lo scontro diretto, per non perdere l’accordo già negoziato con il governo colombiano – accordo che ha la benedizione della CIA. Così ora è paradossalmente lo stesso Peña ad avere tutti contro: cartello, CIA, polizia, esercito, governo colombiano…
Questo cambio di equilibri e di toni narrativi assicura anche alla terza e conclusiva stagione di Narcos, nonostante l’assenza di un personaggio carismatico della caratura di Pablo, considerevoli intensità e profondità: fino all’ultimissima scena, questa storia rimane pazzesca e coinvolgente, e non è per niente facile separarne gli aspetti romanzeschi da quelli di reportage.
Questo è il racconto di una realtà talmente esagerata da sembrare totalmente inventata. E sebbene proprio nell’America del Sud il realismo magico abbia avuto le sue radici, Narcos non è una fiaba alla Gomorra (qui il nostro articolo sulla serie italiana). Né d’altra parte una docufiction a carattere storico.
Narcos e l’origine dei Narcostati
La cocaina è una realtà a tutti – chi più chi meno – familiare: la polvere bianca che riempie i sabato sera sui tavoli delle case e nei bagni dei locali, e che si adagia sulle scrivanie negli uffici e sui cruscotti delle macchine nei giorni feriali, non solo ha compiuto dei viaggi pazzeschi attraverso il mondo (come raccontato in Zero zero zero). Questa cocaina ha anche avuto un’origine, origine che ha determinato – e tuttora determina – la vita e la morte di decine, di centinaia di migliaia di esseri umani. Così come nella Napoli di Gomorra è il quid, il tesoro che rende potente un boss, nella Colombia di Narcos è la linfa vitale dà vita ad uno stato nello stato: uno stato ombra che, per numeri e dimensioni, sembra nel passato essere arrivato a coincidere con lo stato reale.
Un narcostato, per l’appunto. Tema che abbiamo approfondito qui in relazione a Breaking Bad.
Al di là dunque dell’interesse per un fenomeno che continua tuttora a far girare l’economia nera di mezzo mondo, al di là del fascino esercitato dalle imprese criminali – qui nel senso di avventure e di aziende al contempo – la potenza di questa serie si deve anche e soprattutto alla narrazione di queste figure imperiali, su tutte quella di Escobar, dotate di un potere che supera qualsiasi immaginazione. E come sempre accade con queste storie eccezionali, la realtà non abbisogna d’essere troppo romanzata (giusto un po’, per tenere struttura e ritmo delle puntate – suspence, cliffhanger ecc.) per superare qualsiasi nostra fantasia.
Perché quando un egomaniaco come El Diablo ha a disposizione il PIL di una nazione, il risultato di questa equazione non può che essere esplosivo. Così come l’implosione, in termini assoluti, è ciò che rischia un paese interamente corrotto da un cartello criminale.
Droga e serie: leggi i nostri articoli su Narcos: Mexico, Breaking Bad e Gomorra
Narcos: Mexico, cruda rappresentazione di un altro narcostato