American Rust (Ruggine americana) è una serie televisiva statunitense (la prima stagione è in 9 episodi) creata da Dan Futterman e basata sull’omonimo best seller di Philipp Meyer. Dopo un fallimentare pilota (USA Network, 2017), fallimentare soprattutto per la difficoltà di individuare l’attore protagonista, nel 2019 Showtime ne ricommissiona l’adattamento, la nuova scelta ricadendo su Jeff Daniels. Così la prima stagione debutta nel 2021 (in Italia in prima visione su Sky Atlantic e su NOW). La seconda stagione è già in produzione.
La storia è ambientata a Buell, una piccola cittadina a sud della Pennsylvania dimenticata da Dio – dal Dio dell’America – quello di In God We Trust (e di God is an American, come cantava David Bowie). Nessuna fede, nessuna speranza: solo ruggine. E ruggine è la parola chiave di questa serie: innanzitutto perché dipinge una realtà sita nel mezzo della Rust Belt (cintura di ruggine), territorio che – trascorsi i fiorenti fasti dell’industria pesante – viene abbandonato a se stesso a partire dai primi anni 80, con le connesse inevitabili conseguenze: povertà, criminalità, droga.
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American Rust: un’America dove tutto è in sfacelo
E proprio con il quotidiano rituale dell’assunzione di droghe farmacologiche da parte dei protagonisti si apre il primo episodio: Del Harris (un grande Jeff Daniels), capo della polizia locale, aggiusta il suo dosaggio di psicofarmaci, da mescolare al caffè del mattino, tramite pestello e bilancia digitale. Grace Poe (Maura Tierney), per poter continuare a lavorare con le sue doloranti mani – impiegata in una sartoria per abiti da sposa che non ha mai conosciuto le conquiste sindacali, né tantomeno il sindacato – assume la sua ordinaria dose di antidolorifici. Il giovane Isaac English (David Alvarez) costringe il riottoso padre, confinato su una sedia a rotelle, a prendere la sua pillola per riuscire a dormire…
Tutto è terribilmente decadente e deprimente, tutto è terribilmente in sfacelo e declino, in questa desolante e squallida realtà che ricorda la cupa pesantezza di Omicidio a Easttown (di cui abbiamo parlato qui, qui e qui). In comune vi è sicuramente l’atmosfera e il tratteggiarsi di un’America che ha ormai da lungo tempo smarrito il suo sogno. Una grande differenza è invece data dallo sviluppo crime, presente in entrambi. Mentre ad Easttown la risoluzione del giallo (whodunit) ne sorregge fino alla fine la struttura narrativa, qui a Buell è chiaro fin dai primi episodi chi ha fatto cosa, chi ha ucciso chi.
Le dinamiche del delitto diventano allora il bandolo di una matassa che, all’incontrario, andrà sempre più intessendosi e aggrovigliandosi attorno alle figure dei personaggi. Questo atto sanguinoso, l’omicidio di un ex poliziotto violento e drogato avvenuto all’interno di un fatiscente mulino abbandonato, è un evento piuttosto eccezionale in un paese così piccolo. E l’eccezionalità dell’evento costringe i protagonisti a fare i conti con la propria parte oscura.
La “colpa” d’esser nati in una provincia in declino
Ognuno di loro si rivela essere altro da ciò che appare agli occhi della comunità.
Innanzitutto Harris, il sopracitato protagonista: apparentemente integerrimo, è in realtà tormentato dai suoi trascorsi nella polizia di Pittsburgh, da cui cerca inutilmente di liberarsi. Innamoratosi di Grace – la madre di Billy (Alex Neustaedter), il principale sospettato dell’omicidio – cercherà di proteggerlo in tutti i modi, sviando le indagini. E addentrandosi via via in un pericoloso tunnel nel quale risulta sempre più difficile intravedere una luce nel fondo.
Anche Grace, già impegnata in una difficile battaglia per i diritti sindacali, è disposta a tutto per cercare di aiutare il suo unico figlio: Billy Poe, ex promessa del football e per tutti ora un violento e pericoloso assassino, è in realtà l’unica persona cui la ruggine non ha ancora intaccato i principi e i valori morali.
Essere nati e cresciuti a Buell è come una colpa originaria che non lascia scampo. Nessuno riesce realmente a sfuggire dal destino di squallore e miseria che il piccolo centro ha in serbo per tutti. E così anche Lee English (Julia Mayorga), che si è sposata con un giovane benestante e da due anni vive a New York, tornata a trovare il padre viene risucchiata dalla cittadina, in cui decide di restare rinunciando alla sua bella vita. Il fratello Isaac, dal canto suo, scappa di casa – scappando soprattutto dall’impossibilità di vivere apertamente la propria omosessualità – per intraprendere una rocambolesca avventura on the road.
Padri e figli: accomunati dai sogni infranti in American Rust
Completano l’ottimo cast Mark Pellegrino (Mulholland drive, Lost…), nei panni di Virgil Poe, e Bill Camp (The Leftovers, The Night Of, The Outsider…), nei panni di Henry English. Entrambi sono padri: il primo, separato dalla moglie, alcolista e sbandato, di Billy; il secondo, vedovo scontroso e paraplegico, di Lee e Isaac. Virgil, buttato fuori di casa dalla moglie, vaga dal letto di un’amante occasionale all’altro. Henry, a causa della sua condizione e della sua testardaggine, non può muoversi liberamente nella sua abitazione a due piani, nella quale vive quasi come un recluso.
I figli, come prima i loro genitori, hanno rinunciato prima ancora di cominciare, sentendosi condannati ad una realtà opprimente e senza via d’uscita. La grande città è un sogno troppo lontano e troppo lussuoso anche solo per poter essere sognato. E chi raramente sembra avercela fatta, alla fine torna inspiegabilmente indietro.
In questa trappola di sofferenza e sogni proibiti, di lavoratori messicani in nero e brutali fratellanze ariane che dominano nella prigione locale, gira una partita di droga pesante, tagliata con il Fentanyl che, dopo diversi casi di overdose, provoca il decesso di un giovane e avventato studente. La ruggine corrode sempre più la comunità e la scoperta di chi c’è dietro questo mortale traffico di stupefacenti è un’altra sconvolgente conferma della doppia vita degli abitanti della mortifera (sic) cittadina.
Lentezza fluviale, fotografia cupa, una soffocante angoscia
Lontana dai ritmi forsennati delle serie di intrattenimento e azione, questa storia si sviluppa con una lentezza a tratti estenuante. Così come a tratti estenuante è la fotografia, sempre scura, opaca: il carattere drammatico dell’ambientazione e del racconto si respira quasi ad ogni inquadratura, ad ogni dialogo. Dialoghi che vengono spesso sussurrati, quasi biascicati, a sottolineare la soffocante angoscia che qui è preludio di ogni discorso, di ogni contatto.
“Sai muggire? Puoi muggire? Bene. Ora mettiti nudo a quattro zampe sul letto. Muggisci, così: muuu! e immagina che io sia un vitellino affamato che si è perso… e che ritrova finalmente la mamma. Ecco, così… Muuu…”. È quanto più o meno (cito a memoria) dice un anziano distinto e arrapato ad un giovane ed inesperto marchettaro, prima di essere per così dire allattato, nella triste stanza di un motel. Rende perfettamente l’idea della distorsione dei rapporti umani che è alla base di questo show.
Così come nell’emblematica scena della festa di matrimonio, momento di gioia condivisa dalla comunità, nel quale però c’è sempre qualcosa che stona fortemente. Stonano gli abiti degli invitati, volutamente bifolchi e sgraziati. Stona il rituale dei doni in denaro alla coppia di sposi novelli, da appendere alle corna di un improbabile totem montanaro. Stona il ballo sulle note di Celebration (Kool & the Gang), che ritma la malinconica affermazione di un tempo che si è fermato decenni prima…
American Rust: ci vuole un fisico bestiale, eppure…
Ruggine, dicevamo, che consuma tutto e tutti, dentro e fuori: da qui i tetri paesaggi, il grigiore e la vacua ripetitività che scandiscono il tempo di Buell, paese di vicoli ciechi e di fabbriche in rovina, di brave persone che nascondono orribili segreti (Twin Peaks always docet), di scelte sempre e solo inevitabilmente sbagliate, di farmaci e droghe che non riescono ad attenuare l’infelicità diffusa.
Con un capo della polizia che segue e non segue le regole, attenendosi piuttosto ad una sorta di codice privato pieno di contraddizioni. Un uomo stanco e disincantato, che parla a mezza voce e strimpella la chitarra di notte sull’uscio della sua isolata abitazione, immersa in una natura stranamente spenta e desolante.
Addirittura il fiume che scorre da quelle parti, quel fiume in cui la madre di Isaac e Lee aveva scelto di immergersi definitivamente diversi anni prima, è profondo e nero, e il senso di libertà che quelle acque trasmettono è solo un tetro senso di morte…
Ci vuole un fisico bestiale per sostenere la visione di American Rust, non so se mi spiego. È uno small town mistery così intensamente cupo e soffocante, che riesce difficile riemergerne senza portarsi dietro – e dentro – quella terribile sensazione di ruggine corrosiva. Nel bene e nel male. Amen.
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