Vita da Carlo (Amazon Prime Video, disponibile dal 5 novembre) è una grandissima, pregevolissima, ma anche malinconicissima paraculata, come si dice a Roma, del Carlo Verdone tramontante. In dieci puntate di mezz’ora ciascuna in cui l’attore si autobiografizza, con una trama ai minimi termini e una scrittura “molto controllata” (Aldo Grasso), forse pure troppo, la serie si beve d’un fiato. Ma solo se si è di già fan dell’autore e volto di Un sacco bello o Viaggi di nozze.
Altrimenti, non essendo una sitcom in senso stretto, né procedendo con i ritmi sincopati a cui è abituata la gioventù internettara, bisogna mettersi un po’ più d’impegno. Chi scrive fa parte, per ragioni d’età, della prima categoria, e quindi la continua citazione dei personaggi che hanno fatto del primo Verdone l’immortale Verdone che conosciamo si gusta che è un piacere. Ma se voleva essere, come infatti vuol essere, il tentativo di farli conoscere agli ultimi venuti della generazione Z, non giureremmo che l’operazione nostalgia sia riuscita.
Vita da Carlo: Verdone protagonista del suo privato
Il nostalgismo sta non solo nel rimando al passato, ma all’idea stessa di fare di un artista che ha dato parecchio (non osiamo affermare che ormai abbia già dato, ma…) il perno totalizzante di una storia che consiste nella sua trasfigurazione da protagonista di film a protagonista del suo privato.
Un gioco che sembrerebbe, a tutta prima, di una tristezza imbarazzante, tipica di chi, arrivato a fine carriera senza energia né idee, si abbandona al citarsi addosso, per dirla con Woody Allen. Fortunatamente, in Vita da Carlo l’estro verdoniano (e dei co-autori Nicola Guaglianone, Pasquale Plastino, Ciro Zecca, Menotti e Luca Mastrogiovanni) tesse la tela con ironia gradevolissima intinta nel romanesco e nella romanità.
Lo specchio riflesso di questo Verdone che mostra il suo – autentico – carattere di incoercibile melanconico è Roma, che qui è molto più di un fondale: si fonde e confonde con lui. Tanto che il turning point della piatta e sfigata quotidianità di Carlo è la proposta, che lui vorrebbe rifiutare ma che poi non rifiuta, di correre a sindaco.
Attori, maschere e l’amata romanità
Piace, in Vita da Carlo, l’impasto di paesaggi e monumenti dell’Urbe, spesso ritagliati nelle luci della notte, con il tedium vitae del bonario e depresso inventore di maschere, sempre sull’orlo del sorriso. Anche perché trova una formidabile spalla comica in Max Tortora, uno strapparisate naturale, che anzi avrebbe potuto e dovuto essere meglio valorizzato (e non ci riferiamo soltanto a questa serie). Funerea e sotto tono Monica Guerritore nella parte della moglie separata, mentre davvero encomiabile Antonio Bannò nel ruolo dell’ex fidanzato della figlia, uno con la faccia da romano de na vorta, un Pippo Franco dei nostri tempi. Un po’ fuori posto l’ormai onnipresente Andrea Pennacchi nella parte del politico dallo sguardo cinico a cui hanno pure fatto indossare una tunica da Nerone, in una delle stucchevoli scene oniriche che fanno ridere nel senso che fanno piangere.
Stralunati e stravaganti i camei del barboneggiante Alessandro Haber (che regala un monologo talmente vero da risultare grottescamente sapiente) e di un altro underrated, Paolo Calabresi (ovvero la disperazione degli attori di seconda fila, affamati di “pose”). Superflua l’incursione di Massimo Ferrero detto er Viperetta, anch’egli a recitare sempre se stesso ovunque vada. Velo pietoso sulla comparsata di Morgan – chissà, magari bisognoso realmente di una posa.
La presenza quasi di sfuggita di Roberto D’Agostino e Antonello Venditti puntella l’alone ultra-romano di quello che alla fin fine è un omaggio alla città del cuore del romanissimo e romanista Verdone. La cui smorfia fissa, con le strette labbra appena appena arcuate ad accennare benevolenza ed empatia sincere, sembra provenire da un’inadeguatezza scodellata in tutte le salse negli ultimi vent’anni di produzioni. Ma che già aveva toccato il suo apice nel capolavoro dei primi anni, Compagni di scuola, probabilmente la sua cosa migliore in assoluto.
Vita da Carlo: alla fine, sì o no?
Finita la visione di Vita da Carlo, si rimane divertiti ma con l’agrodolce in bocca.
Un po’ troppo scoperta l’intenzione di riproporre gli antichi fasti sia pur scherzandoci sopra. Un po’ troppo scadente il corteo di interpreti che gli si affollanno intorno (eccezion fatta, come si è detto, per Tortora e il giovin Bannò, e noi avremmo voluto vedere nel gruppo l’impagabile Giallini, sarebbero stati botti di quelli indimenticabili).
Indovinata l’autoironica parodia del sistema-cinema, nel tratteggiare una versione borgatara di Aurelio De Laurentiis che percula a dovere lo sceneggiatore intellettualoide di turno. Ma si poteva spingere di più, si poteva colorire di più con pennellate da trattoria vecchia scuola, anziché da osteria elegante come vanno di moda adesso.
La verità è che Roma, e con lei Verdone, è orfana di chi non tornerà più: è orfana dei caratteristi. Sora Lella, Mario Brega, Angelo Bernabucci su tutti. Mitologici, insuperabili, inimitabili. Ci fossero stati loro, a movimentare questa vitaccia da Carlo, sarebbe stato come godere immergendosi in una carbonara con il ponentino a Trastevere. Nostalgia canaglia.