Avete letto delle feroci polemiche che in America hanno accompagnato l’ultimo speciale comico del grande Dave Chappelle, The Closer (Netflix)? Al punto da farne temere la cancellazione?
Di stand up comedy dovremmo parlare di più, e lo faremo. Un po’ perché la stand up comedy è una vera e propria forma d’arte: secondo alcuni la sola forma d’arte prettamente americana, inventata e sviluppata e fin qui dominata dagli statunitensi.
The Closer è il nuovo tassello di un grande comico: era lecito attenderlo con curiosità.
Ma se oggi parliamo di The Closer è perché la sua uscita ha valicato i confini del genere, creando una controversia enorme, su scala planetaria. E perché riapre, prepotente, il discorso sulla censura. Sui limiti che ha senso porre all’arte, se ha senso porne. Su cosa è accettabile come oggetto di comicità, e cosa no.
Sono domande difficili e il tema è delicato. Il nostro scopo non è imporre un punto di vista ma proporre una riflessione.
E il tema dovrebbe interessarci tutti, perché dagli Stati Uniti finisce per arrivare fino a noi sempre tutto, magari qualche anno dopo. E ormai anche qui hanno iniziato ad esserci i primi casi clamorosi in materia di politicamente corretto e cancel culture. Nella logica del “questo non si può dire né pensare”: vedi le feroci polemiche che di recente hanno investito il popolare storico e divulgatore Alessandro Barbero. Polemiche la cui violenza (“cacciate Barbero dalla Rai!”) ha subito eclissato l’ingenuità dello storico e della sua infelice uscita.
Perché è di questo che stiamo parlando: di una propensione incendiaria all’indignazione immediata e costante che sta diventando, paradossalmente, più problematica di ciò che stigmatizza. Specie in campi, va detto, come quelli della commedia e dell’arte. Campi che o sono liberi o non sono più.
The Closer è molto divertente. Ma non per la woke culture
Avrei voluto parlare comunque di The Closer come opera, come speciale comico prodotto e distribuito da Netflix, nel contesto del lavoro degli ultimi anni fatto per la piattaforma di streaming da Dave Chappelle. Un lavoro eccezionale, notevolissimo, esilarante, al contempo profondo. Aspettavo quindi con ansia il nuovo show.
Che non ha deluso le aspettative, per niente, ma ha portato con sé molto più che le domande di default che ci si dovrebbe porre. È originale? Fa ridere? Sa provocare una riflessione? Un pensiero critico? La risposta alle 4 domande è sì, sì, sì e sì, ma non è questo il punto.
The Closer è stato subito accompagnato e poi subissato di polemiche. In primis dalla comunità Trans, parte del più grande movimento LGBTQ, per una serie di battute che Chappelle fa da anni. Ma poi da moltissimi altri esponenti della cosiddetta woke culture, compresi i molti in cerca di una facile e comoda ribalta e della fiammata di popolarità che l’indignazione contro una celebrità può procurare nel drogato mondo dei social media.
Sugli eccessi e persino i pericoli della woke culture si potrebbero dire molte cose e fare molti esempi, ma forse è meglio riascoltare quello che disse due anni fa Obama. L’ex presidente (e icona Democratica) metteva in guardia contro la degenerazione di un movimento nato per portare luce e attenzione sulle distorsioni e le ingiustizie che gravano la società, ma involuto all’epoca dei social media in livore censorio e fanatismo ideologico.
La premessa di The Closer: “I comici devono essere temerari”
Le polemiche, dicevo, sono state ferocissime. Fino a far sembrare a un certo punto probabile la cancellazione dello show da Netflix.
E se The Closer non ne è stato alla fine del tutto travolto, e potete ancora guardarlo (e probabilmente potrete in futuro, ma chi può dirlo?) è soprattutto per la statura del suo autore, Dave Chappelle. Uno che non è facile tirare giù dalle spese, come raccontiamo meglio nel prossimo capitolo.
D’altra parte, già nel teaser di The Closer Chappelle lo diceva chiaramente, con una avvertenza che è anche una rivendicazione di poetica e di libertà.
“I comici hanno una responsabilità, quella di essere temerari. E a volte la cosa più divertente da dire è la cosa cattiva da dire. Ricordate però: non dico certe cose perché sono cattive, le dico perché sono divertenti”.
Chi è Dave Chappelle e perché è considerato un gigante?
Dave Chappelle è forse il più grande stand up comedian oggi in attività. Alcuni dei suoi colleghi lo chiamano addirittura apertamente GOAT, acronimo per Greatest Of All Time (il più grande di sempre).
Nel 2019 ha ricevuto il Mark Twain Prize, che è l’Oscar o forse il Nobel dei comici americani. Salito alla ribalta newyorchese e poi cinematografica giovanissimo, divenne una star assoluta con uno show leggendario, il Chappelle’s Show (2003-2006), quando aveva appena 30 anni. Scritto con Neal Brennan (a sua volta comico notevolissimo, e ancora oggi assai sottovalutato: trovate un suo speciale su Netflix), il Chappelle’s Show divenne un vero fenomeno di costume e gli fruttò un contratto da decine di milioni di dollari con Comedy Central, una cosa all’epoca clamorosa.
Lo show portò una riflessione radicale, con intuizioni formidabili e allo stesso tempo esilaranti, sulla condizione dell’essere un giovane afroamericano nell’America a cavallo tra i millenni. Rivedere per credere “The Racial Draft” (in cui c’è pure un giovane Bill Burr): rimane, a distanza di decenni, uno sketch geniale e potentissimo sul conflitto razziale negli States. Chappelle vi interpreta numerosi personaggi.
L’improvviso ritiro dalle scene e il grande ritorno di Chappelle
Nel 2006, a metà della produzione della terza stagione del Chappelle’s Show e all’apice del successo, Chappelle fa una cosa clamorosa. Poco più che trentenne, rinuncia a un contratto da decine di milioni di dollari, vola in Sudafrica, poi annuncia il suo ritiro dalle scene televisive.
Il comico vuole, pare, riprendere il controllo sulla propria vita, uscire dai meccanismi del piccolo schermo. Ma anche, come diverrà chiaro, tornare ad apparire sui palchi dei club, l’ambiente che sente più suo, quando vuole lui, come vuole lui.
Si capisce come mai il suo ritorno in prima linea nel 2017, annunciato in pompa magna da Netflix, abbia fatto scalpore. Il colosso dello streaming ha distribuito da allora (li trovate anche su Netflix Italia, ottimamente sottotitolati) diversi speciali comici di altissima qualità. Tutti scritti e ripresi tra il 2015 e quest’anno, e salutati trionfalmente da pubblico e critica.
Con il suo acclamato ritorno sulla scena nazionale e televisiva Chappelle riceverà 3 Grammy Award al miglior Comedy Album consecutivi, nel 2018, 2019 e 2020. Premi che attestano la sua forza travolgente, e che si sommano ai 5 Emmy vinti in carriera.
E, appunto, al Mark Twain Prize ricevuto nel 2019 davanti a una parata di star, e di cui qui vediamo il suo discorso di accettazione.
The Closer e i nuovi special: temi scottanti e polemiche
I lavori degli ultimi anni hanno in qualche modo radicalizzato la forza eversiva di un comico che, a volte, mostra il carisma di un predicatore.
Speciali comici in cui ha affrontato temi di grande rilevanza sociale, politica, culturale. Temi controversi, dal razzismo alla crisi degli oppiacei al movimento me too. Senza mai tirarsi indietro rispetto alle pastoie e alle sabbie mobili del politicamente corretto, e anzi attaccando a testa bassa la cancel culture e il suo fanatismo.
I primi due sono stati Deep in the Heart of Texas (del 2015), The Age of Spin (2016).
Il terzo speciale, Equanimity, è stato girato nel settembre 2017 ed è stato diffuso assieme a The Bird Revelation, ripreso poche settimane dopo.
Nell’agosto 2019 è stato rilasciato il quinto speciale Netflix di Chappelle, Dave Chappelle: Sticks & Stones. Le critiche di attivisti e organizzazioni sono fioccate per battute sulle accuse di abuso contro i cantanti Michael Jackson e R. Kelly, la comunità LGBTQ+, la cancel culture.
Ma il pubblico l’ha amato, come i precedenti: guardateli su Netflix e fatevi una vostra opinione.
Qui, invece, potete ascoltare lo stesso artista discutere in una interessante intervista alla PBS del senso della comicità, del movimento me too, dei problemi del politicamente corretto, di Bill Cosby… La sua posizione sul ruolo del comico emerge con chiarezza.
La controversia su Apu nei Simpson
Celebre, negli ultimi anni, è stata la controversia su Apu, personaggio del popolare e longevo cartone I Simpson. Apu è il gestore del minimarket locale: è un immigrato indiano, parla un inglese molto accentato, ha tanti figli, la sua religione, le sue idiosincrasie. I Simpson debuttano nel 1989: sono in onda da più di 30 anni. Adesso, il personaggio di Apu è finito sotto tiro, perché sarebbe carico di stereotipi offensivi o sminuenti. Da un lato si potrebbe dire: certo, come tutti gli altri. I Simpson lavorano esattamente sugli stereotipi per costruire una satira della società americana. E gli stereotipi razziali sono tanti: messicani, italiani, scozzesi, ce n’è per tutti.
Secondo. Ma siamo sicuri che sia un problema reale? Apu era all’epoca l’unico personaggio asiatico rilevante in uno show tv americano così importante. E non è affatto un modello negativo: è un immigrato indiano che lavora duramente, gestisce un business tutto suo, cresce una grande famiglia.
La stessa Lisa, che se vogliamo sarebbe anche il personaggio woke della serie (ma ovviamente nata ben prima), a un certo punto affronterà la controversia, dicendo questo. “Qualcosa creato decenni fa, e che all’epoca era del tutto innocuo, oggi è diventato politicamente scorretto. Cosa possiamo farci?”. Esatto. Cosa dobbiamo farci, cancellare intere opere o riscriverle perché nel frattempo siamo, per fortuna, progrediti?
Bill Maher contro la “revisione” di opere del passato
Parlando di Apu e di molti altri esempi di cultura del passato (musica, cinema, tv) che oggi suonano problematici (persino “Friends”!!) ha detto cose molto precise, come spesso accade, Bill Maher. Che è uno stand up comedian ma che riesce da anni a mantenere nella tv americana (HBO) un presidio di pensiero critico nel mare un po’ conformista dei late night show ormai tutti schiacciati dal politicamente corretto. Almeno dopo il ritiro di Jon Stewart e di Conan O’Brien, cui abbiamo dedicato un lungo articolo qui.
Così dice Bill Maher nel segmento che potete vedere qui sotto: “Se spendete il vostro tempo a compulsare vecchi show per denunciare quelli che secondo gli standard di oggi suonano male, non siete woke, siete stronzi.”
Il comico, che da sinistra è impegnato da anni in una crociata in nome del buon senso contro gli eccessi del pensiero liberal, dice qualcosa di più. Ci ricorda che esiste il progresso, ci ricorda che non siamo mai stati perfetti, ci ricorda che non lo siamo ora. Possiamo solo continuare a cercare di migliorare. Senza isteria. “Odio dirvelo, ma non finiamo mai di evolvere. Per quanto vi consideriate woke ora, tollerate cose che vi faranno rabbrividire tra 25 anni”.
Da Charlie Hebdo a The Closer: dobbiamo censurare la comicità?
Sempre Bill Maher: “Pensate che riguardi solo le celebrità? No. In un’epoca in cui tutti siamo online, tutti siamo figure pubbliche”.
Già. Cose che abbiamo scritto o fatto dieci o vent’anni fa, battute, vecchie foto, commenti salaci. Magari fuori contesto. Magari semplicemente immersi nella cultura di anni e anni prima. Ma a disposizione dei novelli Savonarola per perseguitarci.
Le polemiche che hanno accompagnato l’uscita di The Closer sono state enormi. Alcuni dipendenti di Netflix hanno prima protestato, poi fatto causa all’azienda, accusata di promuovere una cultura transfobica. Chappelle, da par suo, non è arretrato. Ribadendo che non ce l’aveva con la comunità Trans, ma rivendicando il suo diritto a scherzare su ciò che vuole, come vuole.
Perché è quello che fanno i comici, o almeno i comici veri: disturbano, provocano. Si spingono laddove il pensiero comune si arresta. Possono, ebbene sì, essere oltraggiosi. Perché è uno sketch, non una proposta di legge. È una battuta, non un manuale scolastico.
D’altra parte, non possiamo ricordarci a corrente alternata che la comicità e la satira hanno il diritto di sovvertire e provocare. Non ha senso se un giorno “siamo tutti Charlie Hebdo” e il giorno dopo accettiamo la pretesa di far cancellare da una piattaforma di streaming lo show di un comico che dice cose che non ci piacciono. C’è una contraddizione, pericolosa. Potenzialmente fatale alla nostra società e cultura.
Alla fine, la cosa più saggia su tutta la controversia su The Closer l’ha detta Flame Monroe, comica transgender. Che ha pubblicamente difeso Chappelle e il sacro diritto di ogni comico a scherzare su ciò che vuole. “Non mi sono mai esibita in una sala chiusa a chiave. Se stai guardando uno show e sei a disagio, puoi uscire”.