Uno dei migliori prodotti di nicchia sfornati dall’industria seriale statunitense è giunto alla fine, purtroppo, già da un paio d’anni. Goliath (Amazon Prime Video, quattro stagioni, l’ultima disponibile dal settembre 2021) con un superlativo Billy Bob Thornton ha avuto fra le altre cose il pregio di riportare in televisione, dopo la prima stagione di Fargo (2014), questo attore raffinato e allo stesso tempo alla portata di tutti, per la gioia di chi ama i caratteri da loser in cerca di redenzione.
Senza di lui, il Davide contro i Golia dei poteri forti (multinazionali delle armi, politica connivente con i cartelli criminali, privati parassiti del pubblico e, nella stagione conclusiva, niente meno che Big Pharma) sarebbe stato un’altra cosa: ci giureremmo molto, molto meno accattivante.
Legal drama con un immenso Billy Bob Thornton, avvocato alcolizzato
Thornton (Billy McBride) domina incontrastato, anche quando, come nelle stagioni 3 e 4, il suo dilaniarsi interiore si fa meno centrale nello sviluppo della trama. È lui il collante, l’elemento che coagula, grazie all’inconfondibile interpretazione da classico ubriacone finito a sopravvivere in un modesto motel per aver ecceduto, per lo meno agli occhi dell’America affluente, in scrupoli morali. Il suo stile attoriale minimal, la sua faccia da cinico impenitente, il suo humour da chi ne ha sofferte tante, basterebbero per far amare questo sentiero a tappe nella corruzione morale, e ce ne sarebbe pure d’avanzo.
Senza addentrarsi in spoiler per gli sciagurati che ancora non hanno provveduto a goderselo, in estrema sintesi Goliath è un legal drama che prende abbrivio con tratti goliardici e qualche tinta dark (notevole un William Hurt, sfigurato e paranoico, eterno antagonista titolare dello studio che porta il suo cognome, Cooperman, abbinato a quello del protagonista McBride). Per poi incamminarsi su lidi psicotici e semi-horror (stagione 2, segnatevi il Tom Wyatt vittima di traumi infantili dal gusto grotesque), proseguendo secondo contorni dal sapore lynchiano e hitchcockiano (il corvo e i gufi che imperversano nella stagione 3), per chiudere in un finale a suo modo spiazzante e intelligente.
Anche se a sigillo di una stagione terminale che convince meno di tutte, perché troppo poco focalizzata sul gran mattatore, che comunque giunge alla fine della sua parabola affrontando i suoi tormenti più profondi in un tripudio di onirismo, per la verità punteggiante un po’ in tutta la storia.
Goliath, tra aspirazione alla giustizia e lotte interiori
Assumendo uno sguardo culturale, il perno attorno a cui ruota la mini-saga del fallito che si riscatta è l’eterna aspirazione alla giustizia. Non solo, banalmente, quella dei codici e dei tribunali (una specialità molto a stelle e strisce, e qui non mancano gli spassosi confronti, come si dice, all’americana), ma soprattutto quella fra il bene e il male fra le pareti dell’anima.
Anche sotto questo profilo secondo l’accezione made in Usa di uno scontro tutto individuale, fra l’Io devastato e il Sé recuperabile. Ma anche, felicemente, con la proiezione su questioni socialmente impegnate.
Una sensibilità europea, se ci passate un filo di sciovinismo, avrebbe forse reso meglio l’indispensabile connubio fra le due dimensioni, ma quanto meno lo si avverte chiaramente, che non c’è vittoria sulla propria debolezza personale se non ci si schiude alla vita là fuori. Spendersi per una causa giusta senza un sicuro tornaconto, anzi rischiando di rimetterci del proprio, è in rapporto circolare e interdipendente con la sfida tutta intima a superare il bambino umiliato che serbiamo tutti là sotto, nello stambugio dei ricordi rimossi. E magari da padre burbero e anaffettivo come papà McBride.
Al cuore di tutto c’è l’empatia che suscita l’umanità ferita
Tematicamente, in Goliath non si registrano particolari originalità. La lotta a colpi di denunce e disperate class action dei buoni, piccoli e indifesi, contro i cattivi che spadroneggiano piegando la legge alle proprie convenienze. Il carrierismo e l’avidità di denaro e potere di quel giano bifronte che è l’élite, bravissima a mostrarsi rifulgente di bontà all’esterno e completamente bacata all’interno. La comune infelicità di amori filiali e sentimentali sempre sull’orlo della bancarotta (interessante l’evoluzione del braccio destro di Billy, la scombiccherata Patty Solis-Papagian). E, va da sé, un crimine organizzato che spunta fuori a ogni angolo.
Ma a rendere il tutto un canovaccio che sostanzialmente fila è l’empatia che suscita l’umanità ferita, e perciò a volte realisticamente ridicola, che traspare in tutte le caratterizzazioni. La chiave che fa di Goliath un must sta qui, nel buon lavoro svolto dagli ideatori, David E. Kelley e Jonathan Shapiro, sui caratteri.
In qualche caso anche esagerando, come nell’ultimo tornante dove ci si imbatte in un villain così villain, così caricaturale da risultare sfasato, respingente (il capo della casa farmaceutica, malvagia al cubo, uno spumeggiante J.K. Simmons – che però, con tutto il rispetto, non è Jack Nicholson).
Goliath, una chicca anomala e affascinante
Volendo fare le pulci, di contro alla totalità di recensioni che invece ne hanno salutato con soddisfazione il ridimensionamento nella stagione di chiusura, a lasciare un senso di incompiuto è il venir meno degli aspetti paranormali e più smaccatamente da commedia amara di Goliath. Diciamo che l’ispirazione è andata scientemente degradando, forse per consentire lo scivolo verso un end, happy o no lo giudicherete voi, che è una sorpresa talmente contraddittoria, se si tiene presente il punto di partenza di quel disastro d’uomo che è il McBride-Thornton fradicio d’alcol sotto la luna di Santa Monica, da mettervi con le spalle al muro, davanti a quella conquista rara, davvero eroica, che si chiama serenità.
Menzione obbligata alla colonna sonora di apertura della prima stagione (in assoluto la più riuscita), Bartholomew dei The Silent Comedy il cui motivetto è impossibile da non mandare a memoria. Così come sarà difficile eguagliare in futuro una chicca come quest’anomala, affascinante risalita a galla dal cupio dissolvi di un Thornton che giustamente, nel 2017, ha ottenuto per questa parte un meritatissimo Golden Globe.
Billy, grazie di esistere.
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