All’inizio di Schmigadoon! (miniserie di 6 episodi recuperabile su Apple TV+) due giovani ma non troppo, Melissa e Josh, si incontrano davanti al distributore automatico di impennate glicemiche nell’ospedale in cui entrambi lavorano, è colpo di fulmine, si mettono insieme. Segue un periodo in cui canto e controcanto gaudiosamente si accavallano con un rinforzo rimarchevole di percussioni. I due vanno a convivere, passa il tempo e ahimè il loro tema d’amore resta incastrato tra due infidi segni di ritornello: una routine che instilla dubbi in Melissa e innesca in Josh un senso di inerzia pernicioso, perché ancor più delle dissonanze aspre è la sonnolenta consonanza di un frusto arpeggiare ad estinguere la Fiamma!
Per sottrarsi alle secche ludovicoeinaudésche la coppia si affida ad un servizio di terapia all’aria aperta, loro due soli nel bosco, con tenda pioggia zanzare, e questo rapporto da rivitalizzare. Tra una discussione e l’altra, un giorno, attraversato un ponticello e seguito un viottolo di mattoni, giungono a Schmigadoon, cittadina rurale di inizio Novecento, dai pochi abitanti e dai confini circoscritti. Nella piazzetta tutta la comunità è riunita, il sindaco con la moglie sulla tribuna, al centro diverse coppie, le ragazze dalla fulgida dentatura e le gonne a ruota, i giovanotti coi baffi a fiammifero e le pagliette in testa. Tutti in attesa di fare il primo passo. Melissa e Josh si bloccano, straniti.
A questo punto, attacca la musica.
Il potere della musica sulla realtà
Fellini la considerava pericolosa, la musica, per il potere con cui essa si impone e assoggetta a sé qualsiasi precordio riesca a lambire, e qualsiasi scena stia commentando, plasmando gli ambienti coi suoi timbri e i sentimenti con le sue armonie, anche quando pare limitarsi a far da tappezzeria sonora. Questo lo si può percepire passivamente, ma una gran goduria, lo sapete bene, deriva da un’applicazione consapevole.
È l’idea che sta alla base di Baby Driver di Edgar Wright (il ragazzino protagonista ha sempre le cuffie alle orecchie e il walkman in play, non solo per ottenebrare il tedio dell’acufene, ma per vivificare col groove più acconcio tempi e metodi della sua attività di autista per rapinatori di banca, fino a trascinarlo ad improvvisare, innescando sconquassi). O di una scena di The Wire durante la quale lo spavaldo (ed ottuso) sergente Thomas “Herc” Hauk fa partire via autoradio un pezzo funk durante l’inseguimento di uno spacciatore, e con quel sottofondo di conseguenza assumendo, lui personaggio di una serie dall’approccio di intransigente realismo, le pose da protagonista di un film di genere smargiasso.
E non funziona solo al cinema o in televisione, la musica è il prodigio che trasfigura la realtà: con un bel branetto fusion che si diffonde dalle casse non ti devi granché sforzare a figurarti in completo tinta unita color pastello – mocassini – t-shirt armani sotto la giacca – ray-ban, mentre attendi lo squillo per la prossima missione sotto copertura, anche se invero ti stai snidando il grumo di fibre lanuginose dall’ombelico guardando dalla finestra la vicina in ciabatte sbudellate che invoca dall’uscio il nome della gatta fuggiasca probabile suicida .
E non solo in astratto: riesci a forgiare da ispirato arrangiatore pure una semplice passeggiata che mentalmente si organizza in uno spartito che include rumori urbani, frenate e clacson, lavori in corso, chiacchiere e pezzi di canzone che si accavallano casualmente per via, oppure dal treno in corsa su cui stai viaggiando erompe il fischio del locomotore, ed è una nota possente ad un’altezza che si inserisce (alla perfezione!) nella tonalità del brano che stai ascoltando in cuffia, una dominante che echeggia come la tromba dell’Arcangelo Gabriele.
Poi ci sono gli eventi fortuiti che acquisiscono l’arcana intensità di epifanie, stai viaggiando in macchina ascoltando una canzone, e le ruote saltano sopra un dosso artificiale e lo SBA-BAM! che ne consegue si incastra (alla perfezione!) nel ritmo di quella canzone, e ti viene da pensare che i moti in avanti e all’indietro da, rispettivamente, il Principio e la Fine dei Tempi si siano annullati, collimando, giusto in quel frammento di secondo dello SBA-BAM! che ha fatto da preciso contrattempo ritmico (o da culmine di un crescendo), mentre procedevi alla velocità cronometricamente azzeccata perché ciò avvenisse.
Va bene.
Schmigadoon, dove la vita si canta e balla
Alla coppia protagonista di Schmigadoon! succede una cosa del genere, ma senza un loro intervento diretto. Si sente l’orchestra attaccare l’introduzione strumentale, ma da dove arriva il suono? Non c’è una fonte discernibile (“No hay banda”), i musicisti non se ne stanno nascosti tra le frasche come in un film di Mel Brooks, la musica è come sospesa nell’aria. La cittadinanza dà il benvenuto a Melissa e Josh con un lungo numero d’apertura di musical: le strofe di presentazione, il coro festante, la coreografia virtuosistica. Lei, donna volitiva e spiritosa ma in fondo romanticona, ne è affascinata perché i musical li adora, Josh invece, come la gran parte dei maschi, li repelle perché dai su, “le persone non iniziano a cantare di punto in bianco nella realtà!”.
Ma a Schmigadoon, quella è la realtà: tutti i suoi abitanti, esauriti interlocutori scambi verbali, ciò che davvero importa lo esternano intonandolo o ballandolo.
Molto presto la coppia si rende conto che non ha assistito ad una fin troppo articolata messinscena per turisti ma che è finita in un musical, tenta di sloggiare ma, superato il ponticello, magicamente si ritrova davanti ancora Schmigadoon, e con uno sbuffo verde gli compare davanti un leprecauno (interpretato da Martin Short, toh chi si rivede) che li avverte: non potranno andarsene fino a quando non troveranno il vero amore!
Ora, non credo che nessuno riterrà opportuno scommettere su come si risolverà la faccenda. Ma ci si arriva piacevolmente.
Melissa e Josh litigano e per buona parte della storia affrontano l’incanto separati e con stati d’animo divergenti: la donna non ne fa un dramma, finisce pure a letto col giostraio piacione (dopo ovviamente un duetto dal fraseggio bluesy di seduzione reciproca), l’uomo disperato attraversa il ponticello con ogni singolo soggetto di sesso femminile in età da marito con la speranza che il cuore suo palpiti all’unisono con quello di una di esse e quindi di, puf, ritrovarsi a New York. Non gli riesce.
Una riflessione sul musical e sulla modernità
Schmigadoon! è un esercizio di stile filologicamente accurato sul genere colto nel momento di inesausta proliferazione, lo standard targato MGM a cavallo tra anni ‘30 e ‘40: anche le canzoni, coerentemente, non puntano a misurarsi con compositori raffinati quali Gershwin o Porter e ricalcano i giri di accordi più stereotipati, ma con degna baldanza.
È una parodia, ma senza il piglio sfanculeggiante delle non rare scene musical in South Park e I Griffin: qua ci si prende gioco bonariamente delle trame pretestuose, dei caratteri ricorrenti, delle convenzioni teatrali. In una scena, Melissa, che fa la ginecologa, ad una giovane di Schmigadoon incinta ed ingenua (probabilmente convinta che una mattina si risveglierà già sgonfia e il bimbo accanto riscaldato dal fiato di bue e asinello) si serve della melodia di “do, re, mi” (Tutti insieme appassionatamente) non per insegnare il solfeggio ma il processo di riproduzione dallo spermatozoo espugnatore al cruento szavorramento via vagina. Successivamente, in un momento di sconforto, allontana seccata la ballerina che, in tali situazioni, parafrasa in un assolo di danza (che non finisce mai!) l’interiorità scombussolata del personaggio, percorrendo spazi circonfusi di un’illuminazione surreale.
Schmigadoon! vuole anche riscattare, con un atteggiamento ormai endemico, certo rigido conformismo d’epoca, insufflando istanze (ma senza troppa enfasi, fortunatamente) in un microcosmo ad esse refrattario, in quel tipo di commedia musicale dagli sfondi dipinti che giusto nella spensieratezza irriducibile, nel candore trasognato, tanto quanto nella melassa delle melodie, trovava la ragione del successo. Ecco allora che il sindaco, turbato da pulsioni che esprime con vaghezza nel canto (ma non nella scelta delle suppellettili di casa), è infine persuaso a fare outing davanti alla moglie, che lo accetta, e a tutti i suoi elettori. E l’irrequieta maestra elementare a confessare al bambino che ha sempre trattato da fratellastro, per una vergogna imposta, di essere per lui qualcosa di più.
Ritrovare l’amore, superare il ponte che ci separa
Alla fine Melissa e Josh si ritrovano: lei, che in passato era alla continua richiesta di una conferma esplicita del legame amoroso, si rende conto che la fiducia sta alla base di un rapporto sensato; lui, affrancandosi dal superficiale scetticismo, smetterà di fuggire da un aperto sentimento, e troverà finalmente le note giuste per dichiararlo.
Ci si deve venire incontro, insomma. E così si omaggia la capacità del musical di adattarsi ai tempi, dovendo non solo aggiornare le dinamiche di genere secondo i costumi e gli umori della società, ma pure tallonare il costante rinnovarsi del gusto musicale. Passando quindi dalle forme arcaiche direttamente influenzate dalle operette di Gilbert & Sullivan, all’ispirazione più autoctona della popular song, alle opere-rock, alla proliferazione di correnti contrastanti tra sperimentazione e neoclassicismo, al rap oggi in voga di Lin-Manuel Miranda. E, come per celebrare questa flessibilità, è significativo il fatto che, in Schmigadoon!, la canzone di benvenuto venga cantata di nuovo alla fine dall’intero cast, non con l’orchestra ma in una versione folk più disinvolta.
Sono suggestioni facili, certo, ma l’approccio è già esplicitato all’inizio quando i due simpatici vecchietti che organizzano i trekking di coppia affidano a ciascun partecipante una pietra con su scritto il nome del partner. Josh la perde (o così pare) e Melissa si adombra: “È solo un sasso” si giustifica lui. “Non è solo un sasso”, replica lei: “È una metafora!”.
(Sia scritto per inciso: a proposito del servizio di terapia relazionale, i vecchietti suddetti ammoniscono gli escursionisti a fare attenzione perché in quei boschi ci è morta della gente. È probabile allora che siano previsti sortilegi in cittadine evocanti generi meno ameni rispetto alla danzereccia Schmigadoon. Come in un Westworld magico, immune alla sua arcigna pretenziosità).
Schmigadoon! Una bella festa, anche se imperfetta
Il cast è accattivante, Cecily Strong e Keegan-Michael Key provengono dalla stand-up comedy, il sindaco è interpretato da Alan Cumming che fu uno strepitoso “Emcee” nel revival di Cabaret messo in scena da Sam Mendes. L’intera miniserie è diretta da Barry Sonnenfeld, che fu direttore della fotografia dei primi tre film dei fratelli Coen e poi regista di campioni di incasso quali Men in Black e La famiglia Addams. Sonnenfeld mette a servizio tutto il suo mestiere, concedendosi pure nel penultimo episodio un lungo piano sequenza: con la macchina da presa che zompa con destrezza, a seguire o a precedere l’incedere fiero della vilain della vicenda, una bigotta con mire politiche, mentre sciorina un’invettiva in rima contro la presenza di Melissa e Josh, che lei considera nociva per la salvaguardia morale dei propri concittadini.
Non è perfetto Schmigadoon!, tutt’altro (i sei episodi non raggiungono le tre ore di durata totale, eppure la narrazione talvolta s’ammoscia), però è una bella festa, che ci ricorda che il mondo del musical – il genere in cui il teatro si abbraccia col cinema, e le virtù di entrambi, se sfruttate al calor bianco di un Baz Luhrmann o di un Damien Chazelle, figliano portenti – è una realtà potenziata in cui si possono sbrigliare i propri sentimenti con acuti e volteggi, così senza vergogna, un mondo in cui sarebbe bello vivere.
Beh, magari non in quello di Selma Ježková.
Potrebbe interessarti anche il nostro articolo sulla miniserie Fosse/Verdon: