Banshee (4 stagioni, su Sky e NOWtv) è una serie pazzesca, adrenalinica, ultrapulp. Un vero e proprio gioiello per gli amanti di un intrattenimento visivo estremo, volutamente privo di spessore narrativo di tipo psicologico. Perché la profondità di quest’opera si trova da tutt’altra parte. Si trova, per così dire, in superficie.
Banshee – La città del male (nel titolo italiano) è una serie televisiva americana creata da David Schickler e Jonathan Tropper, e prodotta dal pluripremiato Alan Ball (Six Feet Under, a cui abbiamo dedicato una puntata del podcast; True Blood). Trasmessa dal 2013 al 2016 – per un totale di 4 stagioni e 38 episodi – sulla rete televisiva via cavo Cinemax (canale legato alla HBO, con un target di pubblico più adulto e marcatamente maschile).
Di cosa parla e dove è ambientata Banshee
Banshee è una surreale cittadina immaginaria della Pennsylvania, in cui il tempo sembra essersi fermato, che convive con due mondi all’apparenza diametralmente opposti: da una parte l’irrequieta comunità indiana, dall’altra la ferrea e intransigente comunità Amish.
In questo posto paradossalmente dimenticato da dio e da qualsiasi altra divinità, arriva – dopo aver scontato quindici anni di prigione per rapina – il protagonista della storia. Interpretato dall’irresistibile Antony Starr, che poi sarebbe diventato l’allucinante Homelander nella favolosa e popolare The Boys, serie cui abbiamo dedicato anche questa puntata del podcast. Di lui non si conoscerà mai il vero nome.
Decide di rubare l’identità del nuovo sceriffo di Banshee, Lucas Hood, appena arrivato in città e rimasto ucciso in una sparatoria all’interno di un bar. Il retro del bar diventerà la sua nuova casa. E il proprietario del locale, Sugar Bates (Frankie Faison), un vecchio ex pugile di colore, uno dei suoi pochissimi nuovi amici – con cui condivide il segreto della nuova identità.
Il nuovo sceriffo Lucas Hood, che gestisce le cose in città con metodi non propriamente tradizionali (anzi, spesso completamente al di fuori dal raggio della legalità), tra lo sconcerto e l’ammirazione dei sottoposti, ha comunque scelto di restare a Banshee per una ragione precisa: qui infatti è riuscito a rintracciare la sua compagna di crimini e d’amore – Ana, diminutivo di Anastasia – che nel frattempo è diventata Carrie Hopewell (Ivana Miličević), moglie del procuratore distrettuale locale e madre di due figli.
Uno sceriffo ex criminale, una hacker drag queen, un villain atipico
Mancano giusto un paio di personaggi a completare il quadro introduttivo di questa saga dai ritmi serrati e mozzafiato: Job (un’incredibile Hoon Lee), geniale hacker ricercato dalle principali agenzie governative statunitensi che ama travestirsi da donna, vecchia conoscenza di entrambi (di Lucas e Carrie, per usare i loro nomi fittizi). Job è un carattere straordinario, lontano da qualsiasi stereotipo queer, una personalità sarcastica, spietata e leale al contempo. Tanto da trasferirsi a Banshee per aiutare Lucas e per sfuggire alla minaccia di Damocle che pende sulle loro teste. Ovvero la vendetta di Mr. Rabbit, pericolosissimo boss della mafia ucraina e padre di Anastacia, che cerca da 15 anni. Proprio a lui si deve la rapina trappola che ha fatto finire in prigione Lucas, colpevole della più classica delle colpe criminali: fare l’ultimo colpo per poi fuggire con la figlia del boss…
Un criminale diventa il nuovo sceriffo in città per inseguire un sogno d’amore diventato impossibile, aiutato da un cinico ex pugile e da una drag queen genio dei computer. Questo è il semplice assunto narrativo di Banshee, il cui nome viene da una magica creatura femminile della mitologia irlandese, di cui si sa solo che porta sfortuna.
Per completare il quadro, non rimane che introdurre l’originale e atipico villain della storia: Kai Proctor (un insuperabile Ulrich Thomsen). Potente gangster che nasconde le proprie losche attività dietro la facciata di uomo d’affari. Proctor è forse qui la figura più contraddittoria e affascinante: tiene letteralmente in pugno la città (di cui diventerà addirittura sindaco); il suo passato Amish (scomunicato dalla sua stessa famiglia in giovane età) continua a tormentarlo; la sua ambizione lo spingerà a voler fare di Banshee il principale centro di smistamento di droga nel Nord Est degli Stati Uniti; infine il suo controverso rapporto con Hood, che ammira e odia allo stesso tempo, sentimento ricambiato dallo sceriffo.
Per tutto il corso delle stagioni, i due saranno acerrimi nemici e preziosi alleati, senza soluzione di continuità. Ognuno dei due rivelando e riconoscendo nell’altro l’esistenza di un personalissimo e funzionale codice etico – che niente ha da spartire con la morale di massa.
Caratteri titanici e scontri all’ultimo sangue nel ring di Banshee
Perché tutte queste parole per presentare i sopracitati personaggi? Perché è proprio su di loro che si basa la saga di Banshee – quasi come su Capitan America o su Batman si basavano le avventure a fumetti di un tempo.
E perché questa serie, sempre volutamente sopra le righe, ha molto a che spartire con la logica dei fumetti: la narrazione è un pretesto per l’azione di questi caratteri principali – per non parlare di quelli minori – il cui pathos estetico raggiunge vette ineguagliabili nella retorica visiva e dialogica di scene brillanti quanto grottesche, con uno stile che dalle tinte pulp arriva al dark e alla black comedy: scenografie e costumi, pose irreali e battute fulminanti – ogni dettaglio risponde a questa perfetta e violenta logica di superficie patinata, eccessiva e antipsicologica.
Ma l’apice è soprattutto nelle coreografie stratosferiche e spaziali dei combattimenti e delle scene di lotta corpo a corpo, dall’ineguagliabile potenza visionaria.
L’orizzonte stesso di Banshee, come storia e come città, non è che il ring ideale nel quale inscrivere gli scontri fisici all’ultimo sangue tra questi caratteri smisurati, bande cruenti o sicari allucinanti che siano, talvolta dalla durata estenuante ma sempre comunque sbalorditivi e al cardiopalma: il sopracitato Mr. Rabbit capomafia ucraino, la gang filonazista, il cartello colombiano, l’ergastolano albino ossessionato dalle fellatio, i satanisti, il sicario killer vestito impeccabilmente all’ultima moda, spacciatori di Philadelfia, pazzi esaltati salvadoregni, una base di militari corrotti fino al midollo, l’imbattibile guerriero gigante Chayton l’indiano, e Burton, l’invincibile guardia del corpo di Proctor con l’immancabile papillon… queste alcune delle mitiche figure che abitano o anche solo attraversano la città del male.
Cercando la redenzione dove nessuno può salvarsi
Banshee sembra dunque attirare ogni umana sfumatura di malvagità, e lo sceriffo Hood si troverà con (quasi) tutti a fare i conti. Se la stella di latta al principio non era per lui che l’ennesima copertura, messa in atto per recuperare il perduto amore, con il passare del tempo la cosa gli prende bene, e si ritrova ad essere l’uomo giusto al posto giusto – premesso che gran parte dei guai in città li attira proprio lui, con la sua presenza.
Insomma, nessuno sembra potersi salvare in Banshee, che sia stanziale o di passaggio; anche se in fondo (e davvero in fondo) questa è anche la storia di una difficile, forse impossibile, ricerca di redenzione. Da qui l’arrivo, nella terza stagione, di Kurt – ex neo nazista – preso da Hood nella squadra dei tutori dell’ordine. Un uomo oppresso dai sensi di colpa per il suo passato, di cui persino porta il fardello tatuato sulla pelle, e che naturalmente i fanatici ariani non hanno nessuna intenzione di perdonare.
Così come la redenzione dell’uomo che si nasconde dietro Lucas Hood deve passare attraverso l’amaro e consapevole disfacimento del suo sogno – che banalmente è il secondo classico sogno americano (dopo quello di arricchirsi a più non posso), ovvero una vita normale, con una famiglia normale, un lavoro normale, una casa normale. E non è forse sempre questo l’impossibile sogno di ogni filmico eroe (o antieroe) yankee che si rispetti?
Banshee: un godimento iperbolico e iperviolento
Oscuro il suo passato, oscuro il suo avvenire e, nel mezzo, un presente di calci, pugni e proiettili…
Per concludere: Banshee è l’iperbole assoluta del godimento in materia di iperviolenza seriale. Tutto il resto è un fantastico pretesto per mettere in scena questo straripante e frenetico show, fatto di sangue, diamanti, sesso ai limiti della pornografia, segreti di famiglia, colpi di scena sul filo del paradosso, corruzione, servizi segreti, incesto, autodistruzione, religione deviata, alcolici, prostitute, sparatorie a più non posso, morti epiche e strazianti, angoscia morale, razzismo, vendetta, tradimento, torture, sette e confraternite…
Che altro dire? Banshee: pazzesco, adrenalinico, ultrapulp.
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