Tales from the Loop, 8 episodi, Prime Video.
Un percorso inusuale. All’inizio c’è Loop (pubblicato in Italia da Mondadori), libro di illustrazioni del 2014 corredate di didascalie narrative creato dallo svedese Simon Stålenhag, evocativa arte digitale che fa convivere negli ariosi spazi nordici umanità e robot, a fianco di torri la cui altezza imperiosa si perde nella bruma, di macchine un tempo volanti e ora rottami confusi tra le frasche, di grandi sfere di metallo diroccate e arrugginite: sembra una fabbrica fantascientifica dismessa sotto cieli dai colori screziati.
Tales from the Loop, dal libro al gioco alla serie
L’ambientazione del libro ispira successivamente un gioco di ruolo per ragazzini (Tales from the Loop, 2017) che, sulla scia dell’ormai esausto revival ottantesco, prevede esplorazioni ed avventure alla Goonies, col fine di dipanare i misteriosi fenomeni legati al Loop, una tentacolare struttura costruita sottoterra, un acceleratore di particelle che causa paradossi temporali e sfasamenti tra universi.
Infine, riprendendo il titolo e l’ambientazione del gioco, ma con una svolta che ne neutralizza la chiassosa disfida, dopo una vigorosa risciacquatura nel languore esistenziale, le suggestioni retrofuturistiche di Stålenhag vengono trapiantate in Ohio e sviluppate per Amazon Prime Video in una miniserie di otto episodi, nel 2020. Ne è produttore esecutivo Matt Reeves, regista del secondo e terzo film della recente, incisiva saga cinematografica de Il pianeta delle scimmie e del prossimo, ennesimo film con Batman, mentre dritto dalla writer’s room della ben più vistosa (ma infine snervante, ahimé) serie Legion arriva il creatore e sceneggiatore principale Nathaniel Halpern.
La miniserie è semi-antologica, nel senso che ciascun episodio narra una vicenda in sé conclusa, ma tutti i personaggi fanno parte della stessa comunità e si spostano da un piano di importanza all’altro, quindi una figura qua secondaria può essere altrove protagonista.
I registi sono diversi. Il pilot è diretto da Mark Romanek, che fu agli esordi un grandissimo del video musicale e dello spot pubblicitario, al pari di David Fincher e Spike Jonze, e ha affrontato una fantascienza altrettanto sospirosa con Non lasciarmi. Altri registi sono Ti West, Jodie Foster (per l’episodio finale) e l’Andrew Stanton di WALL•E.
Le suggestioni del retrofuturismo, tra scienza e magia
La scrittura sorvola con distacco quasi sonnambolico le regole della drammatizzazione ad effetto (l’incalzare dell’azione, l’incrudirsi delle relazioni, il cliffhanger che ti inscimmia: niente di tutto ciò), “plana” da un episodio all’altro tenendo avvinte le vite dei personaggi con una vibrazione che incanta ma mai sbarella, una confezione visiva elegante ancorché discreta, la realtà che va sfumando in una dimensione scivolosa.
Si diceva delle suggestioni retrofuturistiche. Già il termine è interessante: per quanto la corrente artistica abbia dato la stura ad opere immaginifiche in ogni formato, il retrofuturismo ha in sé una valenza ossimorica che suggerisce come lo sforzo dell’essere umano di allungarsi in avanti con le scoperte più eclatanti avrà sempre un contrappeso nell’altrettanto atavico groviglio di smarrimenti e contraddizioni.
E Tales from the Loop riesce a comunicare questo stato di sospensione, di stasi dinamica. Non si dice granché a proposito del Loop (nel libro ne viene descritta la fondazione alla fine della seconda guerra mondiale, ma per lo spettatore l’origine di questa struttura conficcata nelle viscere della terra resta arcana quanto il monolite di 2001: Odissea nello spazio), è chiaro che gli abitanti dei luoghi circostanti ne dipendono, a livelli diversi, per guadagnarsi la pagnotta, ma il modo in cui il normale fluire della loro quotidianità viene dissestata dai fantomatici esperimenti sotterranei coniuga poeticamente la scienza con la magia. L’elegia con la ferraglia.
“Il mondo è andato avanti”, la tecnologia si fa fiaba
Le soprannaturali possibilità che il Loop innesca è per tutti, una volta di più, occasione di prendere le misure della propria solitudine e della propria vulnerabilità. Il tempo può bloccarsi ma l’aspirazione all’amore eterno resterà comunque frustrata, le identità possono trasmigrare da un corpo all’altro, si può persino frequentare il sé stesso (apparentemente) più felice, ma questo comporterà il tradimento di un’amicizia e una resa alla meschinità. Il semplice passaggio di un fiumiciattolo, che scorre e si ghiaccia a seconda della sponda da cui lo si guarda, determina un salto nel futuro di decenni quando chi ti è caro sarà già polvere.
I personaggi si aggirano in un mondo affatturato, dove tornano a risuonare le corde delle fiabe più fosche. Anche i robot, simbolo dell’ambizione dell’uomo a superarsi come essere invincibile che trascenda il tempo, sono qui o in preda all’obsolescenza, o si aggirano nei boschi circostanti, elusivi come impaurite creature mitiche, o sono utilizzati per sopperire alla nostra inestricabile paura nei confronti di minacce indistinte. Una protesi bionica compensa l’arto perduto ma resta negli anni a memento dello shock psicologico subìto.
“Il mondo è andato avanti” direbbe Roland di Gilead, e la commistione di tecnologia sorpassata e avveniristica definisce la strozzatura in un tempo alternativo di un mondo post apocalittico, stavolta non reduce da un’esplosione atomica o dalla propagazione di una pandemia, ma turbato da una collettiva presa di coscienza, un’apocalisse esplosa dentro, avvertita quale sincope spirituale, ne perdura come un ronzio la sensazione che una promessa non è stata mantenuta, la separazione chiarificatrice tra bene e male non è che uno stolido auspicio, e il fardello degli umani crucci è solo affar nostro.
Tales from the Loop: sentimenti in attesa…
A questi sentimenti “semichiusi nel gesto d’una quiete apparente che si consuma nell’attesa d’uno sguardo indulgente” fanno fronte un gruppo di attori totalmente assorbiti.
C’è Jonathan Pryce, che con il suo sguardo al contempo docile e penetrante riesce ad essere perfetto sia nella parte di quel pezzo di pane di Sam Lowry in Brazil, sia nella parte di quel pezzo di Alto Passero ne Il trono di spade, e qua interpreta il fondatore del Loop, un creatore sfiduciato, un padre scostante, un nonno apprensivo. Un uomo che sta per morire, c’è la scena in cui lui, ravvivato dall’ultimo sprazzo di lucidità, in piedi sulla veranda saluta la sua famiglia che si allontana in macchina, e la sua figura, inquadrata nello specchietto retrovisore, si rimpicciolisce di colpo: quante calde lacrime!
C’è Rebecca Hall con gli occhi spalancati, in allarme, di chi tenta mentalmente di unire i puntini che portano a tracciare il graffito che è la sua vita (letteralmente) scompaginata.
C’è Paul Schneider che fu nel cast del magnifico L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik, che condivide con la miniserie l’aura rarefatta e cogitabonda.
… e le note sospese di Philip Glass
A siglare tutto questo sono i quattro accordi di Philip Glass. Sono sempre quelli lì, è impossibile intonare con le parole scritte, ma basta ascoltarli nel trailer della miniserie per riconoscerli. In Truman’s Show è Glass stesso che li esegue al pianoforte mentre Christof accarezza, attraverso lo schermo, la sua massmediatica creatura immersa nel sonno. È da trent’anni che il buon uomo ci ammannisce quei quattro accordi, in forme diverse, mutandone l’ordine, il tempo, il timbro, a note arpeggiate. Hanno fatto la fortuna dei compositori di cinema bisognosi di atmosfere al contempo malinconiche e avvolgenti, e stupirsi che il maestro minimalista sembri qua ripercorrere le orme del Max Richter di The Leftovers (ascolta qui la puntata del podcast) è come accusare il film John Carter (diretto dal succitato Stanton) di assomigliare troppo a Guerre Stellari…
Gli accordi sono quindi sempre quelli, ma sempre efficaci, frasi romantiche senza essere patetiche, riducono le distanze, ci consolano con un senso di dolce comprensione.
Perché infine giunge, la comprensione, nel susseguirsi delle stagioni, nel riproporsi di miraggi e abbagli, giungono il perdono e un rinnovato patto con sé stessi, in questo mondo di portenti scientifici in scadenza, e l’ultima immagine è quella del giovane Cole che ci punta addosso una macchina fotografica, freeza con un clic il loop che ogni cosa condiziona, nel pullulìo turbinoso di esperienze, e chissà che un giorno ne trasfiguri l’anima in tavole di evocativa arte digitale (ma da grande è interpretato dal regista di culto Shane Carruth quindi un’altra possibilità è che ne canalizzi la densità in film dal fascino esoterico).