The Queen’s Gambit (La Regina degli Scacchi) è una mini serie in otto episodi uscita nel 2020 su Netflix e diretta da Scott Frank. Trattasi della singolare e totalmente inventata biografia di una donna scacchista nell’America degli anni ‘50, dove questo ‘sport’ era prettamente maschile. L’eroina, Beth Harmon, orfana e povera, poco dopo essere stata adottata a tredici anni, arriverà a farsi notare per il suo talento a livello mondiale. Lasciandoci col fiato sospeso per tutti gli otto episodi in cui conosceremo il suo genio e naturalmente la sua sregolatezza.
AVVERTENZA: Dato che la serie ha avuto un enorme successo, e sono stati già versati fiumi di inchiostro sulla trama e il bel personaggio di Beth Harmon, qui vi racconterò soprattutto la mia personale ossessione per gli scacchi. Anch’io gioco da quando sono bambina e ho fatto parte di diversi gruppi di fanatici di questo ‘sport’. Tempo fa sono anche riuscita a farmi cacciare dalla scuola di scacchi di Parigi per insufficienza di talento.
Pertanto questo, più che un articolo, sarà una confessione: quella di una scacchista fallita ma perseverante.
Come mi sono imbattuta in The Queen’s Gambit
Cinque anni fa mi aggiravo per Roma. Pioveva. Infilandomi in una libreria rimasi stupita nel vedere in cima alle pile dei libri ‘commerciali’ un titolo insolito: La regina degli scacchi (traduzione italiana di The Queen’s Gambit). Perchè l’opera di Walter Tevis, un romanzo del 1983 (quindi non certo una novità) si trovava su quel tavolo e non nell’ultimo scaffale in basso del reparto hobby e sport, come tutti i libri sugli scacchi che avevo comprato nella mia vita?
Lo acquistai con poca convinzione – sarà sicuramente un romanzetto in cui la protagonista per darsi un tono, ogni tanto gioca a scacchi – mi dissi. Oltretutto la copertina era poco promettente, una bambina bionda dietro ad una scacchiera. Una volta finita la mia giornata di lavoro, mi rintanai nel minuscolo airbnb dove ero alloggiata. Pioveva a dirotto e il materasso del letto era pessimo. In quel periodo soffrivo di terribili insonnie. Non mi restava alternativa.
Aprii il libro. E la notte volò. Divorai il romanzo in un paio di giorni. All’epoca giocavo moltissimo e la storia di Beth fu come benzina sul fuoco. Cominciai a dedicare tutte le sere ad interminabili partite online. Vizio che mi porto dietro comunque dall’adolescenza. Ricordo ancora il mio nickname, negli anni ’90, sulla prima piattaforma on-line per giocare con altri in diretta. Mi ero chiamata Nemesi, attirandomi gli insulti di tutti gli amici (pochi) con i quali giocavo regolarmente.
Giocare nel dormiveglia contro se stessi
Gli scacchi furono una felice scoperta verso i quindici anni. Non solo erano un’esperienza singolare e profonda da condividere con gli altri, ma fin da subito mi si rivelarono in tutta la loro potenza visionaria. Chi ha visto la serie ricorderà senz’altro come Beth, ancora bambina, vedeva di notte la scacchiera materializzarsi enorme sopra la sua testa, nel buio dell’orfanotrofio. E cominciava a giocare. A me capitava qualcosa di simile: prima di dormire, quando stavo per scivolare nel sonno e tutte le barriere razionali vacillavano, partiva una musica nel mio cervello e in contemporanea si materializzavano i pezzi. Nel dormiveglia giocavo partite contro me stessa.
Ma, a differenza di Beth Harmon, come vi dicevo, io non ho nessun talento particolare nel giocare a scacchi. Anzi, direi che visto tutto il tempo che ci ho dedicato in vita mia, sono senz’altro al di sotto della media. Beth, che nelle sua infanzia e adolescenza visualizza gli scacchi sul soffitto e gioca contro se stessa, non fa che spalancare la sua mente al fascino di questo gioco molto antico. Ma per dedicarvi poi l’intera sua esistenza.
L’enorme divario tra uno scacchista mediocre come sono io e chi gioca in modo professionale o semiprofessionale sta nello studio. Strategia e tattica. La serie di Netflix lo spiega abbastanza bene. Beth Harmon non si concede mai una serata libera prima di un torneo. E se lo fa, sono guai. Beth studia dalla mattina alla sera. Pensa quasi solo agli scacchi. E quando non ci pensa, beve, si distrugge o si deprime.
L’ombra di Bobby Fischer su The Queen’s Gambit
Walter Tevis, l’autore del romanzo, dice di aver creato il personaggio di Beth Harmon basandosi soprattutto sulla figura di Bobby Fischer, lo straordinario (quanto squinternato) giocatore americano che nel 1972 sconfisse il fino ad allora imbattibile russo Boris Spasskij, diventando campione del mondo.
Fischer, come Beth, era stato un adolescente con problemi in famiglia. Diventò maestro di scacchi a 14 anni. A 15 era il più giovane candidato ai campionati del mondo. La sue vittorie da quel punto in poi andranno di pari passo con la sua follia, che lo portò, dopo una vita rocambolesca, ad autoesiliarsi in Islanda fino alla sua morte. Strano che il personaggio di Beth sia ispirato proprio a Fisher. Si sa che il campione americano sosteneva che le donne non avessero alcun talento per gli scacchi!
Nella serie inoltre si comprende l’importanza che l’Unione Sovietica ha sempre attribuito al gioco: all’epoca di Fischer (e dell’immaginaria Beth Harmon) gli scacchisti erano tenuti in grandissima considerazione in URSS, quanto delle star ricche e famose. In generale tutta l’area balcanica è sempre stata piuttosto incline agli scacchi. Ricordo le mie estati in Croazia passate in barca sotto il sole davanti ad una scacchiera con gli amici. Lì tutti sanno giocare; anche i ragazzacci perditempo non rifiutano mai una buona partita.
Gli scacchi come forma d’arte
Penso che gli scacchi, più che uno sport, siano una forma d’arte (come la pittura, la danza ecc) anche se certamente con sfaccettature meno variabili. E come ogni forma d’arte, il gioco ha avuto i suoi periodi.
Nel Medioevo era considerato una rappresentazione del mondo cavalleresco e dell’uguaglianza tra gli uomini di fronte a Dio: una volta terminata la partita tutti i pezzi, compresi Re e Regina, finivano mescolati agli altri in un unico sacchetto. Più avanti, nel Rinascimento e oltre, gli scacchi erano un divertimento di corte e anche una metafora utilizzata per spiegare le strategie di guerra. Nel tormentato Settecento hanno avuto un gran valore Romantico, e anche le partite si giocavano senz’altro più per piacere e con foga, che con strategia in senso moderno.
Il gioco come lo intendiamo noi oggi, con partite snervanti, attese interminabili e scacchisti professionisti, è piuttosto recente. Nel 1851 si gioca a Londra il primo torneo competitivo ufficiale. Da lì gli scacchi diventano un vero e proprio sport con le sue regole e soprattutto i suoi campioni.
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The Queen’s Gambit: disagi e dipendenze in un mondo maschile
Anya Taylor-Joy nel ruolo di protagonista è egregia. I suoi occhi grandi e distanti, lo sguardo nero e profondo, per nulla rassicurante, ben si adattano ad una spietata giocatrice dall’infanzia tormentata. Lo è anche Marielle Heller, l’attrice che interpreta Alma Wheatley, madre adottiva di Beth. Alma la comprende appieno: lei stessa avrebbe avuto il talento per diventare pianista concertista, ma non se l’è sentita. Perché negare questa possibilità alla figlia adottiva che oltretutto con le vincite in denaro provvede a rimpinguare le loro esigue finanze? Dopo il primo folgorante torneo, le due cominciano a girare l’America facendo i soldi grazie al talento di Beth. Alma la giustifica a scuola, inventando malattie su malattie. Entrambe sbevacchiano alla grande.
Alma inoltre è assuefatta da anni a dei tranquillanti che Beth riscopre con enorme piacere. Alma è sì un’alcolizzata ma non sbraita in giro, non fa scenate. Sta zitta, sorride e beve. Nei loro giri di Stato in Stato, di hotel in hotel, cerca di sostenere la figlia a modo suo. Almeno finché dura. Poi Beth si ritroverà improvvisamente sola, ad affrontare un mondo ostile fatto solo di maschi, com’era l’universo scacchistico negli anni ’60.
Gli uomini che hanno a che fare con Beth capiscono quasi subito chi hanno davanti. Non solo un’ottima scacchista ma una ragazza acuta e tormentata. E indipendente. Il suo primo approccio con un’uomo è stato per lei fondamentale. Mr. Shaibel, il guardiano dell’orfanotrofio, fu il primo ad insegnarle gli scacchi. Quando è l’ora di abbandonare il campo. Quando invece è il momento di insistere e portare a termine l’insperato. Le presterà lui i cinque dollari per l’iscrizione al primo torneo. Quello svitato – che ha come unico piacere lo starsene isolato in cantina a giocare a scacchi contro se stesso – le salverà la vita, facendole scoprire il suo talento.
Che cos’è il “gambetto di regina” del titolo
Nei periodi difficili della mia esistenza, anch’io mi sento completamente a mio agio solo dentro i 64 quadrati. Lì dentro, dove tutto dipende dalla mia capacità di controllo e anticipazione, mi sento salva. Confesso di non riuscire a dormire senza un paio di partite. Da anni però gioco a 5 minuti. Vale a dire che io e l’avversario abbiamo a testa 5 minuti per vincere o perdere. Per molto tempo sono stata sospettosa del gioco veloce preferendo le classiche partite lente ed estenuanti, invece la celerità ora mi si addice a pieno. Quello che cerco infatti dal mio piccolo esercito composto di 16 pezzi è l’oblio. E più velocemente arriva, più sono felice.
Beth, nel libro come nella serie, ha costruito il suo talento imparando a memoria il “Grande libro delle aperture”, donatole dal guardiano Shaibel. Questo l’ha resa pressoché imbattibile. The Queen’s Gambit (Il gambetto di regina) è infatti una particolare apertura degli scacchi.
Nell’ultima partita che vediamo giocare nella serie, Beth apre con il gambetto di regina (fino a quel momento, ha invece iniziato tutte le partite con il pedone di re). Borgov, il suo avversario, però non risponde come ci si aspetterebbe. Secondo il cronista, Borgov prende un rischio rifiutando il gambetto di regina proposto da Harmon, togliendosi dal suo solido tracciato abituale per sperimentare una via ignota. Lo so, è complicato e oltretutto, non voglio certo raccontarvi il finale.
The Queen’s Gambit: la parabola della rossa Beth Harmon
Parliamo invece del vestito di Beth nell’ultima scena, in cui molti hanno voluto vedere il desiderio della costumista (l’eccellente Gabriele Binder) di voler incarnare in un costume la Regina Bianca degli scacchi. Beth scende dall’auto vestita completamente di bianco, un cappotto e un cappello stile moscovita.
Beth infatti, a differenza dell’immagine sgualcita che potremmo farci di un’orfana fissata con gli scacchi, ama la moda. Appena ha due soldi, corre nei negozi dei vestiti più cari ed esce piena di borse. La vediamo in diversi stili: timida adolescente uscita dall’orfanotrofio, poi ragazza sbandata ma sexy, a volte truccata in modo teatrale, come le cantanti pop che vede in televisione. Per finire in puro glamour nell’ultimo periodo del suo successo.
Anya Taylor-Joy, appena letto il romanzo, esprime un parere a cui tutti si accordano: Beth Harmon deve avere i capelli rossi. “Per essere subito riconoscibile anche se lei non ne ha voglia”, ci racconta l’attrice che arriverà ad indossare fino a cinque parrucche diverse per un giorno di riprese. Secondo il regista Scott Frank, The Queen’s Gambit non è una storia di scacchi bensì la testimonianza di quanto difficile può diventare essere geniali. Per questo, anni prima aveva rinunciato al progetto di farne un film: non ci sarebbe stato abbastanza spazio per mostrare tutti i demoni di Beth. Una mini serie invece gli è parsa estremamente appropriata: la storia non sarebbe stata incentrata solo sulle vittorie o le sconfitte ma sullo sviluppo della personalità di un genio.
Geni degli scacchi, e geni che giocano a scacchi
Ci sono i geni degli scacchi e i geni che giocano a scacchi. Napoleone era un pessimo ma assiduo giocatore. Si dice giocasse anche durante le battaglie: in genere vinceva sul campo e perdeva sulla scacchiera. E poi Beethoven, Einstein, Salvador Dali, John Cage, Stanley Kubrick… Tutta la combriccola dei surrealisti e una marea di attori: Marlon Brando, Nicolas Cage, Humphrey Bogart, Charlie Chaplin. Tutta gente con un ottimo punteggio. Samuel Beckett venne fortemente influenzato dagli scacchi, che praticò per tutta la vita. Da dove mai altro potrebbe venire il titolo, “Finale di partita”?
Tra tutti, ad ogni modo, il mio preferito resta Duchamp. L’artista che comunemente si associa al cesso rovesciato, era talmente ossessionato dagli scacchi da abbandonare quasi del tutto la sua carriera per dedicarsi interamente al gioco. “Sono davvero una vittima degli scacchi” disse “hanno la bellezza dell’arte e molto di più. Non possono essere commercializzati. Gli scacchi sono molto più puri dell’arte.” E ancora “i pezzi degli scacchi sono blocchi alfabetici con cui formulare il mio pensiero ed esprimerlo, come una poesia, nella bellezza astratta della scacchiera.” Oppure: “Niente al mondo mi interessa di più”, scrisse nel 1919. Se n’era accorta sua moglie durante la luna di miele. Pare che Duchamp passasse tutte le notti a studiare tanto che la donna, infastidita, ebbe la bella idea di incollare di nascosto i pezzi alla scacchiera, in modo da impedirgli di giocare per tutto il resto del loro viaggio. Tre mesi dopo divorziarono.