Shades of Blue, show NBC (2016-18) in 3 stagioni (per un totale di 36 episodi) è un crime – o cop drama o police procedural che dir si voglia – sgangherato e superficiale nei contenuti, acrobatico e roboante nella forma. Protagonisti Jennifer Lopez (Jenny from the Block) e il mitico Ray Liotta (Quei bravi ragazzi); nel cast troviamo anche Drea de Matteo (I Soprano).
La serie racconta la storia di Harlee (J-Lo), sexy detective di punta in una squadra di vigilanti corrotti. Beccata dall’FBI mentre prende l’usuale mazzetta da uno spacciatore, Harlee si ritrova costretta a lavorare sotto copertura contro i suoi stessi compagni, ma si ritrova anche e soprattutto dilaniata dal seguente dilemma morale: da una parte rischia, finendo in prigione, di perdere l’amatissima figlia adolescente; dall’altra di incastrare e rovinare i suoi stessi amici, ovvero la sua squadra – che per lei è come una seconda famiglia.
Il bizzarro teaser italiano della seconda stagione di Shades of Blue:
Shades of Blue: il “sopra le righe” come normalità
Niente di nuovo tematicamente, anzi. La figura del poliziotto corrotto è diventato un topos seriale americano (popolarizzato in modo formidabile da The Shield). Eppure questa debolezza narrativa è paradossalmente compensata da una sceneggiatura e da una recitazione decisamente sopra le righe. Trama, ambientazioni e caratteri muovendosi nei territori del già visto, tutto il resto è spinto con l’acceleratore in modo talmente esuberante e adrenalinico da risultare al limite dell’allucinazione. Ogni episodio è una sequela di colpi di scena che avvengono quasi senza soluzione di continuità, a scapito della coerenza e della credibilità dello script.
Ma per tenere la suspence sempre a mille ci vogliono delle interpretazioni pazzesche, che riescano cioè a risultare verosimili pur essendo eseguite all’insegna dell’eccesso, cosa che solo gli attori americani sanno fare. Perché solo gli attori americani riescono a mantenere la verità del proprio personaggio pur spingendosi oltre i limiti della verosimiglianza del reale. Riescono insomma ad essere sempre credibili, anche quando ciò che dicono e fanno è assolutamente incredibile.
Così è l’interpretazione di Jennifer Lopez, nei panni del detective Harlee Santos, fantastica nel prodigarsi tra espressioni da dura, espressioni di puro terrore subito seguite da quelle di tenero amore materno: il tutto con impeccabili vestiario e messa in piega, in un difficile equilibrio tra la realtà del personaggio e la caratura da sexy star che la segue ovunque, qualsiasi cosa J Lo faccia, come un’ombra.
Grande – nel senso di cui sopra – l’interpretazione in divenire di Warren Kole, nei panni di Robert Stahl, a capo della task force FBI anticorruzione: costretto ad avere quotidianamente a che fare con l’affascinante Harlee / J Lo – la sua talpa – finirà con l’innamorarsene e perdere completamente la testa, fino a trasformarsi in uno psicopatico stalker omicida ricercato dalla sua stessa agenzia.
Il Wozniak di Ray Liotta: un mostro col distintivo
Ma l’eccellenza nella recitazione eccessiva spetta di merito al fantastico Ray Liotta, ovvero il tenente Wozniak, capo di questa efficiente e corrotta squadra della polizia di Brooklyn. Grande figura paterna per i suoi subalterni, specialmente per Harlee, sua pupilla, che proprio per questo profondo affetto non vorrebbe doverlo tradire, Wozniak mantiene l’ordine mettendosi allo stesso livello dei criminali, agendo quindi impunemente tra pestaggi, bustarelle e persino, all’occorrenza, omicidi.
Sposato felicemente e felicemente bisessuale, con un figlio giornalista che vorrebbe scrivere un pezzo sul marcio che vi è nella New York City Police Department, con cui ha naturalmente un rapporto complicato, è un uomo dai forti appetiti e senza mezzi termini ma con molti, molti compromessi. Animato sempre dalle migliori intenzioni, a lastricare la sua strada per l’inferno, e da pochissime regole, del tipo: la famiglia e il suo benessere prima di tutto; i cattivi davvero cattivi vanno semplicemente tolti di mezzo, senza troppe remore legali o morali. Wozniak è il classico cacciatore di mostri, diventato con il passare del tempo a sua volta mostro – un mostro con il distintivo.
Lui è il vero obiettivo dei federali: da qui il dilemma di Harlee che è poi il motore della storia – quale famiglia salvare? L’eroina dovrà per forza attraversare tutti i gironi dell’inferno esistenziale per poter infine maturare la sua scelta; questo mentre, come dicevamo, l’agente dell’FBI si smarrisce nel suo personalissimo inferno e Wozniak invece dell’inferno commette tutti i peccati immaginabili con una purezza, a suo modo, bambina.
La sua figura è irresistibile proprio per questa peculiare e convinta filosofia di vita: in un mondo popolato da ombre, non si può che essere a propria volta ombra. Ombrose sfumature (shades) del blu (blu è il colore delle divise della polizia). Per questo Wozniak, nonostante i numerosi delitti, non è mai minimamente turbato da un punto di vista morale. Il suo turbamento, se così si può dire, è di tipo tragico: egli accetta l’inferno che è il suo mondo e lo vive fino in fondo, poiché non crede nella redenzione.
Immoralità, corruzione, redenzione
Harlee, invece, vuole disperatamente credere che una redenzione sia possibile: lo vuole per la sua giovane figlia. Deciderà quindi di pagare un prezzo assai alto per la sua convivenza tra le ombre e connivenza con le ombre e lo pagherà per tutti: perché è il sacrificio di sé l’unica vera redenzione possibile (e anche questa è invero un’altra soluzione narrativa trita e ritrita).
Intorno a quelle dei protagonisti oscillano anche le bussole morali di tutti gli altri personaggi principali, quasi tutti appartenenti alle forze dell’ordine (polizia, affari interni, FBI).
Ciascuno con i propri bisogni, desideri, impulsi, ossessioni, ciascuno finendo con il ballare attorno al proprio distintivo, in un ballo che è talvolta in compagnia, più spesso egoista e solitario (vedi Stahl, il federale che rivela tutta la sua anima nera perseguitando Harlee con ogni mezzo a sua disposizione).
Shades of Blu: violare la legge “per il bene comune”
Ma è possibile che l’intera operazione abbia anche un’altra chiave di lettura (che si trova già per l’appunto in The Shield): gli sbirri corrotti agiscono così perché convinti di agire per il bene della società. Fanno sì che possa continuare ad esistere solo l’illegalità accettabile, come droga e prostituzione, regolandola e controllandola; avendo come alleati i criminali, riescono poi prontamente a neutralizzare i veri problemi ossia psicopatici, assassini o pedofili, quelli insomma che minano realmente la stabilità collettiva.
E dunque: cittadini delle grandi città americane, fidatevi sempre e comunque dei vostri tutori dell’ordine. Anche quando non seguono le regole o sono corrotti: hanno probabilmente delle ottime ragioni. Se non altro, in fondo, stanno dalla parte giusta – quella con il distintivo; e per non cadere nella totale anarchia, una parte giusta dovrà pur esserci.
Su questo terreno insulso e scivoloso che è la storia di Shades of Blue, tra le ombre brillano sicuramente l’insensata adrenalina degli innumerevoli colpi di scena, la conturbante sensualità di J Lo mentre scruta l’abisso morale e la magistrale lezione di Ray Liotta, attore che le ombre le fagocita a colazione, letteralmente, per poi restituirle allo spettatore in ogni grandiosa sfumatura della sua intensa espressività – anche quando questa è poco sfumata. E chi non vorrebbe essere servito e protetto (To Serve and Protect) dal tenente Wozniak?