Nature Boy è un documentario sul wrestling. Ma lo consiglio a tutti: agli appassionati, ai curiosi, ai detrattori di quel particolarissimo fenomeno a metà tra sport e spettacolo. Prodotto nel 2017 da ESPN e reso disponibile in Italia da Disney+, il documentario racconta la parabola esistenziale, professionale, divistica e umana di Ric Flair.
Uno dei più grandi wrestler di tutti i tempi, ufficialmente riconosciuto come sedici volte campione del mondo, attivo in tutte le principali leghe della disciplina (NWA, WCW, WWF, WWE), con una carriera durata quasi 40 anni.
E ancor meglio conosciuto con il soprannome che dà il titolo al ritratto: appunto Nature Boy.
A raccontarne la storia è Rory Karpf, ottimo filmmaker americano specializzato in temi e storie a sfondo sportivo, vincitore di un bel po’ di premi (quattro Emmy, un Peabody).
Che per indagare e cercare di svelare il vero Ric Flair costruisce due lunghe e intense interviste, a distanza di oltre un anno.
E poi una serie di colloqui col Gotha del wrestling: Triple H, The Undertaker, Baby Doll, Shawn Michaels, Jim Ross, Ricky Steamboat, Sting, Hulk Hogan.
Prendere sul serio il wrestling: la lezione di Barthes
Che il wrestling vada preso sul serio è cosa che sappiamo, o meglio che dovremmo sapere, almeno da una sessantina d’anni. È il 1957 quando Roland Barthes, grande studioso francese del linguaggio, pubblica la sua fondamentale raccolta di saggi brevi intitolata “Miti d’oggi”. Al suo interno fa bella mostra l’intervento dedicato a “Il mondo del catch”. Cioè, appunto, il wrestling.
Barthes, molto giustamente, smonta la lettura usuale, intrisa di disprezzo, che assume spesso questa forma: il wrestling non è uno sport! È tutto falso! “Nel catch – scrive lo studioso – non c’è problema di verità come non c’è a teatro. In questo come in quello, quanto ci si aspetta è una raffigurazione intelligibile di situazioni morali abitualmente nascoste”.
Nel wrestling non c’è problema di verità, come non c’è a teatro (Roland Barthes)
In altre parole: sappiamo bene che un incontro è predeterminato. Ma lo è nella misura in cui lo è uno spettacolo teatrale. O di danza: si dice infatti, oggi, che il wrestling è coreografato. Ed è coreografato prevedendo mosse e azioni difficilissime: i wrestler sono atleti eccezionali, capaci di far volteggiare tra le corde corpi immensi e pesantissimi.
Il tutto mentre, di fatto, interpretano una storia. Incarnando maschere che sono le figure morali di una vicenda in bianco e nero, buoni contro cattivi, facili da identificare per il pubblico, con una chiarezza che è insieme – nei tempi complessi e sfumati che viviamo – esilarante e confortante.
Nature Boy, leggenda e ispiratore della comunità hip-hop
Confortati dall’autorità del grande studioso francese, torniamo a Nature Boy. Vale la pena vederlo anche solo perché riesce a distinguere – non è banale – tra uomo e leggenda. E Ric Flair leggenda lo è stato, eccome, con la sua maschera di successo giocata sull’impunità, la faccia di bronzo, gli eccessi: i soldi, la sfilata infinita di donne, l’alcool come costante, le macchinone, i capelli biondissimi, i vestiti sgargianti e folli.
Può sembrare sorprendente, oggi, ma Nature Boy è stata una delle ispirazioni più forti della comunità hip-hop. Lo racconta benissimo Snoop Dogg in una delle più belle interviste del documentario: Ric Flair è stato un mito per i futuri rapper. Con la sua sfrontatezza. La rivendicazione a testa alta di un successo non ereditato ma conquistato: misurabile materialmente, e prima ancora visivamente esibibile. Lo Zarathustra di Strauss per entrare in scena. Un personaggio grandioso, che i fan amavano odiare. E se lo amavano!
Con la sua attitudine allo spettacolo, perfettamente sintetizzata da quell’urlo – un falsetto che somigliava a una vecchia locomotiva a vapore: “Woooo!“, grido di battaglia e sberleffo surreale imitato da infiniti atleti e musicisti e performer.
Basta riascoltare il simil rap con cui si presentava nei primi anni ‘80:
«You’re talking to the Rolex wearing, diamond ring wearing, kiss stealing (WOOOO!),
Wheeling dealing, Limousine riding, Jet Flying, son of a gun
And I’m having a hard time holding these alligators down
Woooo!»
[«Stai parlando con chi indossa un Rolex, un anello di diamanti, il ladro di baci (WOOOO!),
L’intrallazzatore, che viaggia in Limousine, vola in Jet, figlio d’un cane
E faccio fatica a tenere a bada questi stivali di pelle d’alligatore
Woooo!»]
L’uomo dietro la maschera
Ma, naturalmente, è anche l’uomo dietro la maschera. Un po’ come nello splendido e fortemente drammatico film di Darren Aronofski The Wrestler (2008), con un monumentale Mickey Rourke.
Quello che all’inizio della propria carriera precipita su un piccolo aereo e si spezza la schiena in tre punti. Che durante la riabilitazione passa da pesare 115 chili a superare appena gli 80. Quello che è costretto a rimettersi in piedi e ripartire da capo, e lì, nell’abisso che contempla, incontra e adotta il personaggio che interpreterà, a sua volta ripreso da un altro wrestler del passato: Nature Boy. Il ragazzo selvaggio.
E ancora, l’uomo che deve trovare il modo di sopravvivere alla morte per overdose di un figlio wrestler. Quello così incapace di separarsi dal personaggio e di lasciarsi alle spalle le luci della ribalta da trascinare per anni e anni, sempre più stancamente e pateticamente, una carriera ormai finita. Stracciando ogni volta le promesse di ritiro, giuro, questa è l’ultima volta, questo è l’ultimo match.
Fino alle soglie – sembra incredibile ma è vero – dei 60 anni e delle ultime apparizioni: stremate, stremanti, nell’esibizione un po’ svergognata di corpi inflacciditi dall’età. Eppure ancora capaci, a tratti, di mostrare le tracce della passata grandezza. Di ricordarci perché lo si amava.
Ma poi, e ha il sapore della catarsi e del riscatto, il padre che si commuove e riempie d’orgoglio per i successi della figlia, anch’ella sul ring, anch’ella finita per seguire le sue orme di showman e atleta.
Verità e finzione si intrecciano in Nature Boy
Così, in Nature Boy abbiamo modo di incontrare e soppesare non solo il frutto di questa lunga danza tra uomo e maschera. Ma anche, separatamente, le due facce. Che pur essendo state per decenni così sovrapposte da finire per sembrare una cosa sola, ancora a tratti affiorano nella propria separatezza, nella propria indipendenza.
E il bello, e la complessità di questo pur divertente e coinvolgente documentario, è che riusciamo a cogliere con molta chiarezza come non vi siano – neppure qui, come nel wrestling – un vero e un falso. Separati. Distinti. C’è verità nella maschera, come c’è nel suo portatore. E, in entrambi, l’eccesso iperbolico diventa alla fine un modo per mettersi non solo in scena ma anche a nudo. Senza pudore. Ma, forse, non senza paura.
E così, eccoli entrambi. Richard Morgan Fliehr, alias Rick Flair: Nature Boy. L’atleta incapace di uscire una volta per tutte dal ring. Eppure, insieme, l’uomo capace oggi di guardare dentro se stesso, lontano dal palcoscenico. Rievocando storie e personaggi di ieri. Ripetendosi ancora una volta il mantra della propria grandezza. Contemplando con quieta commozione i fantasmi della vita intrecciarsi alle ombre della leggenda.
In quell’oscurità un po’ struggente che lasciano i riflettori quando si spengono, ma ancora per un momento sembra che facciano luce, e ti chiedi se è successo davvero – o era solo un’illusione.
Giudizio: educativo, profondo, intelligente, intrigante.
Una versione parziale di questo articolo è stata pubblicata il 21 marzo 2021 su The Week, settimanale dei quotidiani del gruppo Athesis.
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