Volete risolvere un crimine? Armatevi di pazienza. Tanta. È il messaggio di The Investigation, piccolo gioiello danese uscito a fine settembre 2020 nel suo paese d’origine e poi distribuito internazionalmente col nuovo anno (da noi è giunto a marzo 2021 su Sky e NOW). La pazienza serve anche allo spettatore, diciamolo subito. E mettiamo le mani avanti: questa miniserie gialla non è per tutti i gusti.
Nonostante le sole sei puntate, infatti, richiede l’accettazione consapevole di ritmi fluviali, lontani da ciò che normalmente il genere promette. Ma per chi saprà arrivare fino alla fine, la visione di questo show riserverà soddisfazioni di rara – seppur rarefatta – intensità. In termini anche, per così dire, filosofici: The Investigation è una destrutturazione anti-retorica dei canoni, normalmente mitizzati, del giallo.
The Investigation: una miniserie sul “giallo del sottomarino”
Di che parla? La mia cronica disattenzione per la cronaca nera mi aveva fatto dimenticare, o forse non notare affatto, un caso di cui si parlò moltissimo nel 2017: il “giallo del sottomarino”, cioè l’omicidio della giornalista svedese Kim Wall. Tra i motivi che accesero uno spasmodico interesse del pubblico vi erano le caratteristiche davvero eccezionali della vicenda.
La vittima era salita a bordo di un sottomarino per intervistarne il costruttore, l’inventore e imprenditore danese Peter Madsen. Ore dopo un mezzo di soccorso recuperò il solo Madsen, mentre il sommergibile affondava. Con i suoi 18 metri di lunghezza e 40 tonnellate di peso, l’UC3 Nautilus era uno dei modelli privati più grandi al mondo.
Della donna nessuna traccia. Ma sospetti immediati, e atroci, anche per le numerose contraddizioni del racconto dell’uomo. E poi ricerche minuziose e difficilissime: come ritrovare un corpo che – si sospetta con crescente certezza – è stato sepolto in mare aperto, preda delle forti correnti dello stretto che separa Danimarca e Svezia?
Un’indagine lunga sei mesi, tra frustrazione e vicoli ciechi
Nel raccontare le indagini della polizia di Copenaghen, la serie non ci risparmia niente. La lentezza delle procedure, la frustrazione dei vicoli ciechi, le difficoltà della ricerca, la modestia dei successi. Costantemente sfidati dall’imperativo che sovente il procuratore (Pilou Asbæk, attore danese reso celebre da Game of Thrones, dove è stato Euron Greyjoy nelle ultime stagioni) ricorda agli inquirenti: non basta sapere come sono andate le cose, bisogna provarle. E l’onere della prova spetta all’accusa, perché “in dubio pro reo”: che già da sola è una lezione di civiltà, maturità, etica niente male.
L’indagine si dipana lungo sei mesi e sei puntate che indugiano sui corridoi grigi, gli uffici tristi, e più di ogni altra cosa la faccia grigia e triste del protagonista (Søren Malling, già tra i protagonisti dell’originale The Killing). Un capo della polizia che non può accettare che un colpevole rimanga impunito, e fa di tutto per restituire ai genitori della vittima un poco di pace. Anche se questo comporta il sacrificio di pezzi importanti della propria vita privata: il rapporto con la figlia incinta, il nipotino in arrivo. Tutto “congelato” dalle silenti richieste di giustizia che la vittima avanza, a partire dalla più elementare: il ritrovamento del corpo insolentito. Anche questo difficile, lungo, frustrante.
The Investigation: un’operazione anomala e fascinosa, un giallo per un pubblico maturo
Sembrano difetti, ma sono qualità. Spogliata delle sue facilonerie adrenaliniche, l’investigazione ritrova piena la sua dimensione etica: quella di cercare di sanare una ferita inferta al corpo sociale. E a una vittima che non viene mai mostrata. Come il suo assassino. Una scelta coraggiosa e radicale, perché impedisce la tipica reazione empatica o di rigetto del pubblico; ed etica, perché non celebra un assassino di cui non cita mai neppure il nome.
Tobias Lindholm, già candidato all’Oscar per il film A War e creatore dello show, ha motivato la sua scelta così: «Troppo spesso capita di celebrare killer brutali che non necessariamente meritano la nostra attenzione. Lavorare su crimini veri significa avere a che fare con le vite reali di persone reali: abbiamo una responsabilità nei confronti dei sopravvissuti, dei parenti e delle vittime».
Altre due citazioni aiutano a illuminare il senso di questa anomale e fascinosa operazione, una miniserie gialla per un pubblico maturo. Vengono entrambe dalla parte conclusiva dello show, ma non spoilerano nulla (anche perché non c’è niente da spoilerare per una volta: la vicenda è reale, i nomi veri, non vi sono colpi di scena…).
“Più diventiamo civilizzati, più sentiamo il bisogno di guardare nell’oscurità”, chiosa il procuratore commentando questa faticosissima indagine e i risvolti disturbanti che ha mostrato.
“Vorrei non mi aveste mai conosciuto”, dice il detective capo ai genitori della vittima nel commovente finale: il senso anti-retorico di questa serie, in fondo, è tutto qui.
Giudizio: glaciale, lenta, profonda, matura.
La fatica dell’indagine, mischiata alla vita: Omicidio a Easttown
Un detective stanco, un’indagine tra le ombre della mente: The Sinner